Riscoprire quanto di meraviglioso, sull'amore sponsale,la Chiesa ha sempre insegnato

Un team di studiosi della University of Western Ontario ha studiato 12 mila coppie per concludere che se vuoi vivere una relazione felice non devi chiederti che cosa ti può dare ma che  cosa tu puoi dare ad essa. Così, una visione sacramentale tipicamente cristiana della coppia viene confermata dalla scienza delle relazioni più all'avanguardia

Giuliano Guzzo in "La Nuova Bussola" 1 settembre 2020

Se c'è un tema sul quale negli ultimi anni si sono letteralmente sprecati fiumi d'inchiostro, esso è proprio la felicità di coppia. Libri, conferenze ed interventi di fior di psichiatri e sessuologi, sociologi ed opinionisti vari hanno provato, alternandosi, ad esplorare l'argomento senza tuttavia mai approdare ad una conclusione che potesse vantare il pregio del riscontro empirico, il solo che si configuri neutro e al tempo stesso oggettivo, quindi credibile. A colmare tale lacuna ci ha però pensato una nuova ricerca a cura di un team di studiosi della canadese University of Western Ontario (UWO) pubblicata su Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America, una delle più accreditate riviste scientifiche internazionali.

Gli autori di questo lavoro, per realizzare il quale si sono considerati 43 dataset longitudinali – per un totale di quasi 12.000 coppie (11.196, per la precisione) -, si sono infatti interrogati sulla felicità di coppia. Felicità di coppia che è il pilastro su cui si regge la scienza delle relazioni, un ambito interdisciplinare che abbraccia psicologia, sociologia, economia e studi sulla famiglia e che, negli ultimi anni, ha identificato centinaia di variabili che concorrono a far sì che una storia d'amore possa essere appagante e duratura. D'accordo, ma quale di queste variabili ha davvero peso, prevalendo su tutte le altre?

Mediante una raffinata analisi statistica, con la quale si sono tenuti sotto controllo numerosi fattori, gli accademici canadesi sono approdati ad una conclusione tutto sommato semplice ma spiazzante dal momento che, sorprendentemente, suffraga considerazioni precedenti che tuttavia potevano sembrare solo punti di vista. In estrema sintesi, si è fatta una scoperta che può concettualmente essere suddivisa in due parti. Iniziando con la prima, quel che si è visto è che l'insieme di tutte le differenze individuali e le esperienze dei partner sulla qualità della relazione, in fondo, hanno un effetto modesto.

Semplificando, il fatto che uno possa essere particolarmente facoltoso, brillante o desiderato perché per esempio figura in vista, ecco, non dà alcuna garanzia che la sua storia d'amore possa essere più lieta di quella del marito dalle condizioni economiche modeste che, magari, si trova pure un carattere un po' così. Perché tutti questi fattori hanno un peso, chiaro, ma non così grande, quando parliamo di vita di coppia. E allora che cosa conta veramente? Per certi versi «scoprendo l'acqua calda», gli studiosi della UWO hanno osservato come il più forte elemento predittivo dell'appagamento di coppia sia in sostanza la reciprocità nell'impegno percepito dal partner, nell'apprezzamento, nell'ascolto, insomma nella costruzione di un equilibrio condiviso.

«Questo indica che la persona che scegliamo non è così decisiva quanto la relazione che poi con essa costruiamo», ha commentato Samantha Joel, la principale autrice di questo studio, la quale ha pure aggiunto: «A fare la differenza è il modo con cui i partner si relazionano tra loro. La quotidianità che costruisci con qualcuno - le norme condivise, le battute, le esperienze condivise – pesa molto più dei singoli individui che compongono quella relazione». Per riassumere, se vuoi vivere una relazione felice non chiederti che cosa ti può dare ma domandati che cosa tu puoi dare ad essa.

Una conclusione banale, questa rivincita del «noi» sull'«io»? Per certi versi sì. Però fa comunque un certo effetto osservare come la più avanzata ricerca psicologica e sociologica – neppure così indirettamente – vada a confermare la visione morale cristiana, che com'è noto vede il matrimonio felice come vetta da raggiungere dapprima con il fidanzamento, inteso come conoscenza dell'altro, e poi all'insegna di una visione oblativa e non possessiva dell'amore, che faccia evadere dal proprio ego. Non a caso, san Giovanni Paolo II insegnava che «nel matrimonio l'uomo e la donna trovano la loro comune vocazione» (12 giugno 1994). Un'affermazione nella quale la parola importante è quella che lo sembra meno: «Nel».

Essa infatti sta a descrivere, con appena tre lettere, un concetto fondamentale: ciascuno può realizzare sé stesso non «attraverso» o «durante» la vita coniugale bensì «nella» vita coniugale, donandosi ad essa, immergendosi nella sua travolgente profondità a scapito, all'occorrenza, della propria individualità. E che cos'è questa visione tipicamente cristiana della coppia se non una formidabile anticipazione di quello che la scienza delle relazioni più all'avanguardia sta empiricamente scoprendo ora? Vale la pena chiederselo e vale la pena farlo riscoprendo quanto di meraviglioso, sull'amore sponsale, la Chiesa ha sempre insegnato.


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