L'uomo non è una creatura voluta da Dio per se stessa, ma per se stesso in Cristo

Le varie deviazioni dell'attuale morale rispondono tutte all'esigenza antropocentrica del mondo moderno che sostituisce all'idea divina regolatrice del mondo cioè teocentrica in Cristo, l''idea dell'uomo autoregolatore cioè antropocentrica. Questa spinta dell'autonomia dei valori umani genera l'assoluto della scienza e della tecnica, onde si crede che l'uomo sia il fine del mondo e che il dominio storico della realtà mondana sia il compito del genere umano

Tratto da "L'autonomia dei valori - Iota unum" di Romano Amerio pp.403-409

Questa finalità secolarista trova motivo in alcuni passi del Vaticano II. La costituzione pastorale Gaudium et spes, 14, si esprime in questi termini: "Per consenso generale di credenti e non credenti tutte le cose del mondo si devono ordinare all'uomo come alla loro cima e al loro centro". E più teologicamente al 24 afferma che "l'uomo è nel mondo la sola creatura che Dio abbia voluta per sé stessa". La traduzione italiana corrente volta erroneamente per se stesso travolgendo il senso e annullando la variazione conciliare della dottrina, sottolineato da Giovanni Paolo II in un discorso sull'amore coniugale (OR, 17 gennaio 1980). Ed è la visione anche di papa Francesco nell'enciclica su tutti fratelli: vedrete, è tutta secondo il senso del Concilio. 

Che credenti e non credenti consentano nel riconoscere che il mondo si debba ordinare all'uomo e quindi alla fraternità universale è affermazione troppo confidente, giacché le filosofie pessimistiche, da Lucrezio allo Schopenhauer, hanno negato tale finalismo. Anche ristretto al solo mondo terrestre il finalismo antropocentrico fu assalito da tutte le filosofie meccanicistiche.

La scienza moderna rende ancora più fragile la veduta antropocentrica adottata dal Concilio secondo il quale l'universo è fatto per l'uomo. Non può essere, perché l'universo eccede infinitamente l'uomo.

La centralità finalistica dell'uomo nel creato è esclusa dalla teologia. L'affermazione che l'uomo sia la sola creatura che Dio ha voluto per sé stessa sembra smentire il solenne passo di Prov., 16,4: "Il Signore ha fatto tutte le cose per sé stesso" per Lui. È infatti impossibile che la volontà divina abbia per oggetto altro che la sua propria bontà, giacché tutte le bontà finite sussistono solo grazie alla bontà infinita né l'infinito può uscire da sé stesso alienandosi e appetendo il finito. In realtà, come insegna san Tommaso, Dio vuole le cose finite in quanto vuole sé stesso creante le cose finite. Quindi le cose finite che vuole le vuole per sé stesso, non per sé stesse, non potendo il finito essere il fine dell'infinito né potendo la divina volontà essere attratta e passiva rispetto al finito. Le cose finite non sono create da Dio perché amabili, ma sono amabili perché volute da Dio con la loro amabilità. Allo stesso modo che Dio conosce le cose finite altre da sé conoscendo sé stesso, così egli vuole le cose altre da sé volendo sé stesso.

La centralità finalistica dell'uomo è dunque conforme allo spirito dell'uomo contemporaneo, ma non fondamento alcuno nella religione, la quale ordina tutto a Dio e non all'uomo. L'uomo non è un fine in sé, ma un fine secondario e ad aliud, che sottostà alla signoria di Dio, fine universale della creazione.

La fine dell'epoca della pubblica finalità teocentrica della creatura conduce all'autonomia dei valori mondani, ed elide la sovranità finalistica e protologica dell'essere divino. Essa esclude parimenti il finalismo soprannaturale che, secondo la fede, è l'uomo-Dio, sia che coi Tomisti si prende il Cristo come termine di predestinazione dopo previsto il peccato, sia che cogli scotisti ci si prenda come fine assoluto della creazione a priori del peccato. Nessuna creatura è per sé stessa, né ontologicamente, soltanto Dio essendo ens per sé, teleologicamente tutti i finiti avendo per fine ultimo l'infinito. Eppure il decreto conciliare Apostolica actuositatem, 7 insegna che le cose del mondo "Non solo sono mezzi al fine ultimo dell'uomo, ma hanno anche in proprio valore inserito loro da Dio, sia se si considerino in sé stesse, sia come parti dell'universo ordine temporale". Questo loro valore riceve una particolare dignità non dalla loro relazione con il fine ultimo, che è la gloria di Dio, ma (dice il Concilio) "Per una speciale relazione che esse hanno con la persona umana in servizio alla quale sono state create". Tutto, è vero, si riassume nel Cristo che primeggia in tutto (Col I, 18) ma "Non priva l'ordine temporale della propria autonomia …anzi la perfeziona".

Ora né l'umo né il mondo può essere il fine dell'uomo per la ragione che né l'uno né l'altro furono il fine che Dio ebbe nel crearli. Dio ebbe per fine sé stesso. Teologia e senso religioso pensarono sempre i valori temporali come sussidi che servono strumentalmente (san Tommaso cooperative e organice) alla virtù. Tutto il senso che loro hanno deriva dal fine ultimo per il quale è fatto tutto e niente per sé stesso. Qui dunque – e lo proclama Paolo VI (OR 6 marzo 1969) – il Concilio "ha modificato in modo considerevole il giudizio e l'attitudine verso il mondo". D'altronde Giovanni Paolo II nel discorso all'UNESCO nel 1980 dichiara: "Bisogna affermare l'uomo per sé stesso e non per qualche altro motivo o ragione: unicamente per sé stesso. Ancor più, bisogna amare l'uomo perché è uomo, bisogna rivendicare l'amore per l'uomo in ragione della dignità particolare che egli possiede" (RI, 1980, p. 566). Le parole del Pontefice risentono certo dei riguardi che gli imponevano parlando a un consesso di ispirazione puramente umanistica e irreligiosa e forse anche si informano al paolino factus omnia omnibus. Esse devono inoltre essere contrappesate con l'affermazione esplicita della Redemptor hominis : "Christus est centrum universi et historiae". Ma il punto spinoso richiede un approfondimento.

La questione dell'autonomia dell'ordine creato è prima ancora metafisica che religiosa. Ciascun finito è per essenza dipendente e non autonomo o indipendente. La sua esistenza è per altro esistenza propria di lui, inconfondibile con quella del creatore che gli dà di esistere e la sua azione è azione propria di lui, inconfondibile con quella di Dio che gli dà di agire. Onde l'azione del sole che scalda è veramente azione scaldativa del sole e non, come ponevano certi filosofi arabi, azione di Dio che scalda nel sole. L'atto libero della volontà è veramente atto della volontà libera, e non atto di Dio. Ciascuna cosa creata ha un proprio essere vero e una propria azione vera e proprie leggi vere: non è un fenomeno di un unico ente o un'azione di un unico agente, quelli divini. Ma ciò nonostante nessuna esistenza è propriamente autonoma, giacché tutte dipendono in ogni momento dall'influsso divino, e nessun atto libero è propriamente autonomo, giacché, secondo la formula di san Tommaso, è mosso da Dio a muoversi da sé. Eppure tutta questa realtà e tutta questa azione delle creature stanno in un ordine radicalmente dipendente. Qui battono, non solo in linea teologica, le celebri parole di II Cor 3,5. "Non perché siamo capaci di pensare alcuna cosa da noi stessi, come forza nostra, ma la nostra capacità viene da Dio". L'autonomia dei valori umani è un'autonomia interna all'ordine creato, ma l'ordine creato è dipendente ed esclude ogni indipendenza primaria, originaria e assoluta di quei valori.

Dall'autonomia dell'ordine creato si viene direttamente all'idea dell'uomo degno per sé medesimo di amore. L'asserto mal suona con la dottrina cattolica la quale insegna che l'amor del prossimo ha il proprio motivo nell'amor di Dio. Tutte le formule dell'atto di carità, frequentato dal popolo cristiano fino al Vaticano II, portano che Dio si ha da amare per sé stesso e sommamente e il prossimo per amor di Dio. Questo motivo dell'amor del prossimo è invece taciuto nei documenti del Concilio.

Il precetto di amare l'uomo era nella dottrina della Chiesa connesso con il precetto di amare Dio, ma è secondo rispetto a questo e vien detto simile a questo (Mat 22,39), L'amor di Dio rimane primo in assoluto e prescrive la forma dell'amor del prossimo. Non è dunque possibile quella forma di filantropia pura che oggi viene anteposta alla filantropia per amor di Dio che sarebbe viziata da una vena per utilità.

Ma perché mai il precetto di dilezione del prossimo è detto simile a quello della dilezione di Dio? Per due motivi. Primo, perché quando si ama l'uomo, essendo questo somiglianza di Dio, si ama, per questa somiglianza, si ama quella volontà divina che ama l'uomo, cioè si ama Dio.

Nella dottrina cattolica dunque è impossibile trovare nell'uomo amabilità che non sia influsso e riflesso dell'amore di Dio per la sua creatura. È insomma impossibile amare l'uomo per sé stesso, separatamente dall'amore di Dio. Le qualità che trovansi in una persona potranno influire secondariamente (sebbene in modo importante) sull'amore che le si porta (onde più si ama la madre che un estraneo), ma non sono il motivo dell'amore che le è dovuto secondo il precetto nuovo del Vangelo. L'uomo insomma deve essere amato dall'uomo perché amato da Dio, che vuol dire: è fatto amabile da Dio. D'altronde come potrebbe essere amato per sé stesso un ente che non esiste per sé stesso?

Le molte ragioni che fondano il precetto dell'amore del prossimo, così variamente elaborate dai padri, si risolvono tutte in una ragione assoluta, si ama tutto quello che Dio ama. Così la filantropia è un'estensione della filotea e i due amori si confondono, non nel senso di una confusione panteistica, ma perché l'amore dell'uomo è contenuto nell'amore di Dio, essendo l'uomo cosa di Dio e per titolo di creazione e per titolo di redenzione. San Tommaso insegna esplicitamente che è un identico amore quello con cui amiamo Dio e il prossimo.

Il calcare che si fa sull'amabilità e dignità dell'uomo nella teologia postconciliare, oltre che offendere il senso che gli uomini hanno della miseria di una creatura ferita e caduta, toglie alla filantropia la sua vera base e forza, che è la destinazione dell'uomo all'assoluto la origine divina dell'assiologia umana in tutto il suo ventaglio. E lo staccare la dignità dell'uomo dalla sua base religiosa indebolisce come oggi si vede nei fatti la rivendicazione di quella dignità stessa, facendone una verità isolata e senza sostegno.

La concezione per dir così tolemaica che pone l'uomo come fine dell'uomo e come fine per sé, sembra suffragata dall'idea primaria della religione, della fede cristiana, secondo la quale Dio "propter nos homines et propter nostram salutem descendit de caelis et incarnatus est". Tutto il divino dunque si muove per l'umano. Come dunque non si muoverà l'uomo per l'umano?

Sono note le due sentenze opposte circa il fine dell'Incarnazione. Secondo san Tommaso il Verbo si è incarnato per riparare il genere umano dopo il peccato: onde se Adamo non avesse peccato il Verbo non si sarebbe fatto uomo. Per lo Scoto invece l'Incarnazione adempie il disegno di Dio di comunicarsi in tutta l'ampiezza della sua comunicabilità. Onde, anche se Adamo non avesse peccato, il Verbo si sarebbe ugualmente fatto uomo per cui nell'identico soggetto si dice è uomo e insieme è Dio. Nella dottrina di san Tommaso sembrerebbe dunque che il fine di Dio sia l'uomo preso come un fine in sé a cui Dio  stesso liberamente si subordina, facendosi servo per salvarlo. Se Di si fa uomo per l'uomo, non potrà l'umo prender l'uomo per fine e amarlo per se stesso?

E tuttavia l'antropocentrismo è incompatibile col sistema cattolico: vi è un solo centro di tutta la realtà e questo è Dio riguardato nella sua trascendenza. Certo si può dire che l'uomo è la sintesi  di tutte le creature e come tale primeggia nell'ordine creato e ne appare il centro. Più ancora si può dire che il Cristo è la sintesi di tutti gli esseri, compreso l'essere infinito. Ma la verità preminente che toglie ogni antropocentrismo è che il fine primario del Cristo nella sua passione fu di soddisfare alla divina giustizia per l'offesa fattale dall'uomo e restaurare l'onore divino, e non già di salvare gli uomini, che è il fine secondario. Soltanto per il titolo acquistato presso il Padre con tale soddisfazione il Cristo divenne signore del genere umano e si valse di tale signoria per salvarlo. Ma in tutto questo egli amava ancor più la volontà del Padre che i suoi fratelli medesimi. Tale posizione subordinata dell'amor dell'uomo nel processo dell'Incarnazione appare in tutta la liturgia la quale non è punto antropocentrica, né cristocentrica, avendo per termine ultimo non Cristo, ma il Padre, e non al Figlio, è offerto il sacrificio.

In conclusione la filantropia puramente umanistica non è consentanea alla religione, alla fede cattolica. L'uomo non è una creatura voluta da Dio per sé stessa, ma per sé stesso.

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