Nel dibattito sul Concilio Vaticano II avviato da mons. Viganò le riflessioni del cardinale Giacomo Biffi

“Come è potuto succedere che dai pronunciamenti legittimi e dai testi del Vaticano II sia derivata una stagione così diversa e lontana? La questione è complessa e le ragioni sono multiformi; ma senza dubbio ha avuto il suo peso anche un processo (per così dire) di aberrante “distillazione”, che dal “dato” conciliare autentico e vincolante ha estratto una  mentalità, un sottofondo e una moda linguistica del tutto eterogenee: È un fenomeno che nel “post concilio” affiora qua e là, e continua riproporsi più o meno esplicitamente” nel così detto “spirito del concilio”.
  
Aldo Maria Valli pubblica un contributo di Alessandro Martinetti,
che propone le riflessioni del cardinale Giacomo Biffi in “Duc in altum” 6 agosto 2020

Caro Valli, ritengo che sul Vaticano II giovi ascoltare il pensiero “inattuale” del grande cardinale Giacomo Biffi (1928-2015), in larga misura concorde, al riguardo, con quello di don Divo Barsotti.
Come don Barsotti, Biffi nega che i documenti del Vaticano II siano contaminati dall’errore, ma avanza precisazioni notevoli.
In merito alla Gaudium et spes e all’irto percorso della sua approvazione, il cardinale scrive: «Hubert Jedin ha poi osservato che “questa  Costituzione fu salutata con entusiasmo, ma la sua storia posteriore ha già dimostrato  che allora il suo significato e la sua importanza erano stati largamente sopravvalutati e che non si era capito quanto profondamente quel ‘mondo’ che si voleva guadagnare a Cristo fosse penetrato nella Chiesa” (Storia della Chiesa, X/1, p. 151). Monsignor Carlo Colombo, che in quella circostanza era il teologo di fiducia del papa, ha manifestato un giorno al cardinal Giovanni Colombo la sua gioia e la sua fierezza per essere arrivati a una felice conclusione, dopo tante incertezze e tante fatiche. Il cardinale, acuto e libero come sempre, gli ha risposto: “Quel testo ha tutte le parole giuste; sono gli accenti a essere sbagliati”. Purtroppo, il post concilio è stato influenzato e ammaliato più dagli accenti che dalle parole» (Memorie e digressioni di un italiano cardinale, p. 189).
Biffi aveva accolto con lieta gratitudine la promulgazione di Sacrosantum Concilium: «Mi sono molto rallegrato: tutto il più intelligente ed equilibrato movimento liturgico – che negli anni precedenti avevo seguito con passione – trovava qui la sua massima accoglienza e il suo coronamento. Di qui è partita, provvidenziale e inarrestabile, la riforma che tanto avevamo auspicato». Ma non è lieto né favorevole il giudizio sull’applicazione di Sacrosantum Concilium: «Di qui, va però anche detto, la più sconcertante insipienza ecclesiastica ha preso arbitrariamente le mosse per le sue vistose aberrazioni, che in larghi strati della cristianità hanno avvilito il culto del Cristo totale al Padre, Dio del cielo e della terra, e il canto d’amore della Chiesa al suo Sposo. Ma di ciò questa Costituzione è incolpevole» (Ibidem, p. 186).
Come consta, ricorre in Biffi la vigorosa esortazione a distinguere con vigile perspicacia tra Concilio e selva lussureggiante di infestanti aberrazioni postconciliari consumatesi entro la Chiesa col pretesto fasullo e ingannevole di procurare attuazione al Concilio medesimo.
Si legge al riguardo: «A fare un po’ di chiarezza nella confusione che ai nostri giorni affligge la cristianità, è incombenza preliminare e ineludibile distinguere con ogni cura l’evento conciliare dal clima ecclesiale che ne è seguito. Sono due fenomeni diversi ed esigono un apprezzamento differenziato. Il “postconcilio” deriva certo storicamente dall’assise del Vaticano II e intende riferirsi al suo magistero, ma si connota altresì di una alterità inattesa nei confronti dell’evento che l’ha originato. Il Concilio non si identifica affatto col “postconcilio”: il primo “a priori” va accolto con totale cordialità da parte di chi vuol continuare a dirsi cattolico; il secondo esige di essere analizzato e giudicato alla luce del primo e anzi alla luce di tutta la Rivelazione divina come è custodita indefettibilmente dalla Chiesa. A questo proposito potrà giovare un consiglio semplice e pratico: quando sentiamo ripetere “il Concilio ha detto”, “secondo l’insegnamento del Concilio”, “in conformità alle direttive del Concilio”, è buona norma che si chieda di specificare quale sia il documento e (all’interno del documento) quale sia il paragrafo che si intende citare” (Ibidem, pp. 191-2).
L’analisi del cardinale progredisce limpida e incalzante: «Come è potuto succedere che dai pronunciamenti legittimi e dai testi del Vaticano II sia derivata una stagione così diversa e lontana? La questione è complessa e le ragioni sono multiformi; ma senza dubbio ha avuto il suo peso anche un processo (per così dire) di aberrante “distillazione”, che dal “dato” conciliare autentico e vincolante ha estratto una mentalità e una moda linguistica del tutto eterogenee. È un fenomeno che nel “post concilio” affiora qua e là, e continua a riproporsi più o meno esplicitamente.
Potremo, per farci capire, avventurarci a indicare il procedimento schematico di tale curiosa “distillazione”. La prima fase sta in un accostamento discriminatorio del dettato conciliare, che distingua i testi accolti e citabili da quelli inopportuni o almeno inutili, da passare sotto silenzio. Nella seconda fase si riconosce come prezioso insegnamento del Concilio non quello in realtà formulato, ma quello che la santa assemblea ci avrebbe elargito se non fosse stata intralciata dalla presenza di molti padri retrogradi e insensibili al soffio dello Spirito. Con la terza fase si insinua che la vera dottrina del Concilio non è quella di fatto canonicamente formulata e approvata, ma quella che sarebbe stata formulata e approvata se i padri fossero stati più illuminati, più coerenti, più coraggiosi. Con una metodologia teologica e storica siffatta – non enunciata mai in forma così palese, ma non per questo meno implacabile – è facile immaginare il risultato che ne deriva: quello che viene in maniera quasi ossessiva addotto ed esaltato non è il Concilio che di fatto è stato celebrato, ma (per così dire) un “Concilio virtuale”; un Concilio che ha un posto non nella storia della Chiesa, ma nella storia dell’immaginazione ecclesiastica. Chi poi si azzarda pur timidamente a dissentire, è segnato col marchio infamante di “preconciliare”, quando non è addirittura annoverato coi tradizionalisti ribelli o con gli esecrati integralisti» (Ibidem, pp. 193-4).
Biffi conclude amaramente: «E poiché tra i “distillati di frodo” dal Concilio c’è anche il principio che ormai non c’è errore che possa essere più condannato entro la cattolicità a meno di peccare contro il dovere primario della comprensione e del dialogo, diventa oggi difficile, tra i teologi e i pastori, il coraggio di denunciare con vigore e con tenacia i veleni che stanno progressivamente intossicando l’innocente popolo di Dio» (p. 194).
Ritengo meriti inoltre dare rilievo al pensiero di Biffi sulla pastoralità del Vaticano II, dalla differente valutazione sull’indole della quale seguitano senza posa a originare dispute ermeneutiche fervorose: «Io però, nel mio angolino periferico, sentivo nascere in me, mio malgrado, qualche difficoltà. Il concetto mi pareva ambiguo, e un po’ sospetta l’enfasi con cui la “pastoralità” era attribuita al Concilio in atto: si voleva forse dire implicitamente che i precedenti Concili non intendevano essere “pastorali” o non lo erano stati abbastanza? Non aveva avuto rilevanza pastorale il mettere in chiaro che Gesù di Nazaret era Dio e consostanziale al Padre, come si era definito a Nicea? Non aveva avuto rilevanza pastorale precisare il realismo della presenza eucaristica e la natura sacrificale della messa, come era avvenuto a Trento? Non aveva avuto rilevanza pastorale presentare in tutto il suo valore e in tutte le sue implicanze il primato di Pietro, come aveva insegnato il Concilio Vaticano I? Si capisce che l’intenzione dichiarata era quella di mettere a tema particolarmente lo studio dei modi migliori e dei mezzi più efficaci di raggiungere il cuore dell’uomo, senza per questo sminuire la positiva considerazione per il tradizionale magistero della Chiesa. Ma c’era il pericolo di non ricordare più che la prima e insostituibile “misericordia” per l’umanità smarrita è, secondo l’insegnamento chiaro della Rivelazione, la “misericordia della verità”; misericordia che non può essere esercitata senza la condanna esplicita, ferma, costante di ogni travisamento e di ogni alterazione del “deposito” della fede, che va custodito. In questo clima qualcuno poteva addirittura finire col pensare incautamente che il riscatto dei figli di Adamo dipendesse più dalle nostre arti di lusinga e di persuasione, che non dalla strategia soteriologica preordinata dal Padre prima di tutti i secoli, tutta incentrata nell’evento pasquale e nel suo annuncio; un annuncio “senza discorsi persuasivi di sapienza umana” (cfr. 1 Cor 2,4). Nel postconcilio non è stato soltanto un pericolo» (Ibidem, p. 183-4).
Tra le più perniciose patologie postconciliari, il cardinal Biffi ravvisa alcune ossessive idolatrie che da cinquant’anni pastori presuntuosi ma confusi e smarriti, non meno che teologi e biblisti, promuovono indefessamente e disgraziatamente a nocumento dello sventurato popolo di Dio e che abusivamente si pretende discendano dal Concilio: antropolatria, cronolatria, cosmolatria, schizolatria, bibliolatria.
Riporto solo qualche passaggio vertente sulla bibliolatria, cioè su di un traviato approccio alle Sacre Scritture che si lusinga di valorizzare appieno la Parola di Dio scritta ma sciaguratamente la travisa, la adultera e pertanto, lungi dal rischiararne l’intelligenza, la offusca e la fraintende, a detrimento del gregge di Cristo: «L’uso abbondante e quasi ossessivo della Bibbia – staccato però dalla consapevolezza sempre richiamata dell’avvenimento salvifico, il quale include anche la Sacra Scrittura e la trascende – può condurre a una visione meramente “culturale” del cristianesimo e rendere l’atto di fede non più un “assenso reale” ma un puro “assenso nozionale” mentre – come splendidamente dice san Tommaso, “actus credentis non terminatur ad enuntiabile sed ad rem”: l’atto di fede non ha come suo ultimo approdo una serie di nozioni ma una realtà… Sventurato quel teologo o quell’esegeta che, pensando a Gesù Cristo, primariamente e come d’istinto si richiama a un personaggio della catechesi sinottica o a un tema della speculazione di Paolo, e non al Salvatore che si rispecchia sì nei Libri sacri ma soltanto in quanto antecedentemente a tutto esiste in sé, fuori e prima di ogni testimonianza, come qualcuno che vive. Un uomo dal semplice cuore cattolico, alla domanda: “Dov’è Gesù?” risponde in modo del tutto ovvio e naturale: “In cielo alla destra del Padre e in chiesa nel tabernacolo”, senza che gli passi lontanamente per la testa di tirare in campo la Sacra Scrittura. Questo, per lui, è l’indirizzo di una persona reale e concreta. Guai se l’interrogazione cominciasse ad avere come risposta: “Si trova nel vangelo di Luca, nel ‘corpus’ giovanneo, nella lettera agli Ebrei”; cominciasse cioè ad avere come risposta l’indicazione di un “luogo” letterario. Nei modi aberranti che qui si sono descritti la Sacra Scrittura diventa non, come deve essere, una forma eccezionale di accostamento al mistero che trasforma e ci salva, ma un diaframma tra noi e il Signore Gesù. Così sarebbe un “idolo”. Da questo “idolo” deve essere purificato il santuario del nostro cuore e il “tempio” della comunità cristiana radunata in Cristo e offerta al Padre dall’impeto dello Spirito».
Alessandro Martinetti

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