Porziuncula e indulgenze, dono dell'amore di Dio

San Francesco, quando ottenne il Perdono di Assisi, aveva chiesto un’indulgenza plenaria, che rimette 
tutta la pena temporale dovuta ai peccati perdonati sacramentalmente nella colpa.  La realtà delle indulgenze illumina sulla meraviglia della comunione dei santi. Alla sua base ‘è l’idea del thesaurus Ecclesiae, cioè del tesoro dei meriti di Gesù, Maria e tutti i santi, che la Chiesa può elargire in virtù della Misericordia di Dio

Luisella Scrosati in “La Nuova Bussola” 1 agosto 2020
Secondo il Diploma di Teobaldo, quando san Francesco, insieme a fra Masseo, si recò da Onorio III per chiedergli quanto, in un confidente e audace colloquio, aveva già “ottenuto” dal Signore stesso, le parole rivolte al Pontefice furono le seguenti: «Santo Padre, voglio, se ciò piace alla vostra santità, che quanti verranno a questa chiesa confessati, pentiti e, come conviene, assolti dal sacerdote, siano liberati dalla colpa e dalla pena in cielo e in terra, dal giorno del Battesimo al giorno ed all’ora dell’entrata in questa chiesa».
San Francesco domandò dunque un’indulgenza completa o plenaria, ossia la remissione di tutta la pena temporale dovuta ai peccati commessi. Insomma, una cosa grossa.
Quella delle indulgenze è una dottrina e una pratica purtroppo sempre più in disuso e spesso oggetto di perplessità, quando non di critica e derisione; si pensa a Lutero, agli abusi, e via con le solite storie di una Chiesa attaccata al denaro, ingannatrice delle anime, etc.
Se si riflettesse seriamente sulle indulgenze, però, non si potrebbe far altro che rimanere a bocca aperta per l’ammirazione e pieni di gratitudine verso Dio e la Chiesa. Ogni nostro peccato, che lo sappiamo o meno, comporta sempre un disordine; la rottura dell’ordine, poi, causa inevitabilmente una serie di guai, che ricadono su noi stessi e sugli altri; e ogni guaio si presenta a braccetto con una pena da sopportare. Si capisce dunque che ristabilire l’ordine infranto da una colpa significa provare nel contempo un sincero pentimento per quello che si è commesso e la disposizione a riparare in modo congruo i danni provocati. Colpa e pena sono intrinsecamente legate, sebbene sia chiaro che risultano irriducibili l’una all’altra; connesse, ma distinte.
Quando noi pensiamo che ogni peccato è un’offesa contro Dio, Sommo ed eterno Bene, e contro il nostro prossimo, anche se si tratta di un peccato commesso nella solitudine della propria camera, quando pensiamo questo è chiaro che dobbiamo anche ammettere che la pena proporzionata non può essere uno scherzo. L’assoluzione sacramentale ci libera dalla colpa e anche dalla pena eterna che abbiamo meritato, ma non da tutto quel corteo di pene temporali che accumuliamo giorno dopo giorno, ora dopo ora, con la nostra cattiveria, indifferenza, freddezza, doppiezza verso Dio e verso il prossimo. “Figlio mio, tutto si paga, e a caro prezzo”, diceva padre Pio.
Non si tratta di fredda contabilità, ma della realtà delle cose. Se io offendo una persona, e magari le provoco una grave lesione, posso essere perdonata, ma non posso evitare di aver causato sofferenza, sia fisica che morale. Perciò, devo riparare e risarcire, in modo commisurato all’offesa. Queste pene gravano su di noi in molti modi, rendendo questa vita una valle di lacrime. E non solo questa vita, perché questo processo di purificazione ed espiazione prosegue, se necessario, anche nell’altra; è la realtà del Purgatorio, un grande dono della misericordia di Dio, senza il quale nessuno di noi sarebbe degno di vivere la vita dei beati.
Questa misericordia è all’origine anche delle indulgenze, che alleggeriscono il peso da portare a causa delle nostre colpe; e alleggeriscono anche il peso delle pene altrui, perché abbiamo la possibilità di lucrarle sia per suffragare i defunti che per cedere ai nostri fratelli ancora in questo mondo la parte soddisfattoria delle indulgenze.
La realtà delle indulgenze spalanca davanti ai nostri occhi la meraviglia della comunione dei santi. Il domenicano Hughes de Saint-Cher (Ugone di Provenza) è stato il primo a sostenere l’idea di un thesaurus Ecclesiae, un tesoro di meriti a disposizione della Chiesa accumulato dai meriti di Cristo, della Santa Vergine e dei santi, siano essi canonizzati o meno, come fondamento delle indulgenze. Questo immenso tesoro viene in nostro soccorso e ci permette così di abbreviare la pena da noi meritata, o meritata da altri, per i quali noi cediamo l’effetto dell’indulgenza. Paolo VI, nella bellissima Costituzione Apostolica Indulgentiarum doctrina, riprende questo insegnamento, come anche l’espressione “tesoro della Chiesa”, descrivendolo non «come la somma di beni materiali, accumulati nel corso dei secoli, ma come l’infinito ed inesauribile valore che le espiazioni e i meriti di Cristo hanno presso il Padre ed offerti perché tutta l’umanità fosse liberata dal peccato e pervenisse alla comunione con il Padre» (§ 5). I meriti di Cristo, della Madonna e di tutti i santi sono a disposizione di tutta la Chiesa, in virtù di quella «solidarietà soprannaturale, per cui il peccato di uno nuoce anche agli altri, così come la santità di uno apporta beneficio agli altri. In tal modo i fedeli si prestano vicendevolmente l’aiuto per conseguire il loro fine soprannaturale» (§ 4).
Non si deve pensare che Ugone abbia inventato le indulgenze; egli ha solo orientato il motivo per cui la Chiesa può concedere indulgenze appunto verso la verità di questo tesoro, laddove invece altri autori sostenevano che l’indulgenza avesse senso quale supplenza delle opere della Chiesa militante.
Così come la conosciamo noi, la pratica delle indulgenze ha origine intorno all’XI-XII secolo, ed è esplosa all’epoca delle Crociate, per prolungarsi poi nelle indulgenze giubilari. In realtà, l’idea di fondo risale ai primissimi secoli della Chiesa, dove già troviamo qualcosa di simile (ma non uguale) nella relaxatio e nella redemptio. Allora la penitenza era una cosa estremamente seria; poteva durare anni e richiedere pratiche molto pesanti, che erano condizione per poter essere riammessi alla comunione ecclesiale. Dunque si confessava la colpa, ci si assoggettava a una lunga penitenza e poi si veniva “assolti”. La relaxatio, come suggerisce il termine, era in sostanza una sostituzione di pena: da una pesante a una più leggera. Anche la redemptio, che inizia ad essere menzionata nel VII secolo, era una commutazione della pena; è in quest’epoca che si incominciano ad introdurre digiuni, preghiere ed elemosine, in sostituzione di pene più severe.
Sempre nel Medioevo si diffonde l’uso dell’absolutio, cioè formule di remissione dei peccati alla vigilia di certe feste liturgiche, praticata soprattutto nei monasteri o anche inserite nei testi liturgici, come attesta la formula assolutoria, ancora presente nel Messale del 1962, dopo il Confiteor. Non è chiaro se queste absolutiones fossero delle vere e proprie indulgenze, ma certamente attestano un maggiore zelo nel ricercare occasioni per attingere a questo tesoro della Chiesa.
Questi possono essere considerati prodromi del successivo sviluppo storico della pratica delle indulgenze, che dev’essere dunque inteso come «un progresso nella stessa dottrina e nella disciplina della Chiesa, non un mutamento, e dal fondamento della rivelazione è stato tratto un nuovo bene ad utilità dei fedeli e di tutta la Chiesa» (Indulgentiarum doctrina, § 7).
San Francesco l’aveva ben chiaro; e anche il Signore, che si preoccupò di mandare il Suo servo dal Papa a chiedere il Perdono d’Assisi o Indulgenza della Porziuncola (vedi qui le condizioni per lucrarla), perché fosse manifesta al mondo la magnanimità del Suo amore.

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