Dio cioè il piacere vero

Antonio Socci, in "Libero" – 30 luglio 2022

Il piacere. In apparenza non c'è parola più moderna, edonistica ed estiva. La pubblicità e i media la celebrano come un dovere e fa venire in mente l'industria del divertimento, la movida, le spiagge, Ibiza e le discoteche romagnole.

 

Per i più colti il pensiero andrà al romanzo "Il piacere" di Gabriele D'Annunzio con cui – a giudizio di Benedetto Croce – "risuonò nella letteratura italiana una nota, fino ad allora estranea, sensualistica, ferina, decadente".

 

Eppure – chi lo avrebbe mai detto? – "piacere" è anche una parola chiave della Divina Commedia. Certo, appare anzitutto nella sua accezione consueta, nel canto V dell'Inferno, quello di Paolo e Francesca: "Amor, ch'a nullo amato amar perdona,/ mi prese del costui piacer sì forte,/ che, come vedi, ancor non m'abbandona".

 

Piangono i due giovani l'inganno di quel piacere che si è imposto in un istante come padrone, su tutto, e si è poi rivelato il seducente ingresso in una pena senza fine.

 

La compassione del pellegrino Dante – che con loro, in quel momento, si identifica – si accende per i due amanti e per tutti gli amori tragici.

 

Ma in fondo, scrive un poeta del Novecento: Louis Aragon, "non esistono amori felici" perché tragica è la vita:

 

 

 

"Nulla appartiene all'uomo. Né la sua forza

 

Né la sua debolezza né il suo cuore. E quando crede

 

di aprire le braccia la sua ombra è quella di una croce

 

E quando crede di stringere la felicità la stritola

 

La sua vita è uno strano e doloroso divorzio

 

Non esistono amori felici".

 

 

 

L'uomo è fatto per l'estasi e continuamente la cerca (invano) negli amori terreni. Finendo per stritolarli. L'estasi non sta alla superficie, ma nella profondità dell'Essere.

 

Infatti quando Virgilio, nell'Eden, si congeda da Dante gli dice: "Tratto t'ho qui con ingegno e con arte;/ lo tuo piacere omai prendi per duce".

 

Per "piacere" lì intende Beatrice che arriva poco dopo. La Divina Commedia è un cammino del piacere che giunge, per grazia, all'inimmaginabile felicità, al Sommo Piacere.

 

E' nell'ultimo canto del Paradiso che Dante usa l'espressione "sommo piacere" per dire Dio, per parlarci dell'"indiarsi" dell'uomo, la nostra divinizzazione.

 

È infatti per questa felicità infinita che siamo stati creati e la cerchiamo senza saperlo in tutto. Perciò siamo sempre inappagati. Tutto ci lascia insoddisfatti perché il nostro essere (anche il corpo) reclama l'estasi: "all'aurora ti cerco,/ di te ha sete l'anima mia,/ a te anela la mia carne,/ come terra deserta,/ arida, senz'acqua" (Salmo 63, 1-2).

 

Ce n'è rimasta la nostalgia, ma non si può immaginare una così smisurata felicità. Un bruco non può immaginare cosa significhi diventare farfalla.

 

Dante fa usare l'espressione "sommo piacere" a San Bernardo di Chiaravalle che supplica la Vergine per lui: "perché tu ogne nube li disleghi/ di sua mortalità co' prieghi tuoi,/sì che 'l sommo piacer li si dispieghi".

 

Definendo Dio – fra l'altro – come "sommo piacere", Dante racconta il Paradiso come una festa dei sensi che sarà pienamente realizzata con la resurrezione dei corpi.

 

La critica dantesca ha eluso questo aspetto della terza Cantica considerandola, anzi, come fredda e intellettualistica per poca familiarità con la carnalità del cristianesimo.

 

Ha intuito qualcosa di più una nota marca di gelati che, nel 2021, per i 700 anni di Dante, ha inventato – in omaggio al piacere della Divina Commedia – tre nuovi gustosi prodotti. Ne ha scritto "Vanity Fair", il 17 marzo 2021, sotto il titolo "Il sommo piacere". Eloquente.

Antonio Socci

Da "Libero", 30 luglio 2022

 

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