Il Card. Bertone sulla Chiesa di Benedetto XVI

Per una Chiesa e una società inclusive sta operando Benedetto XVI

Il Segretario di Stato, card. Tarcisio Bertone, in un’intervista rilasciata alla vigilia della sua partecipazione alla Perdonanza celestiniana all’Aquila che storicamente con Bonifacio VIII ha preparato le iniziative planetarie delle indulgenze giubilari, ha rilasciato un’intervista sul progetto di Chiesa e di società di Benedetto XVI. Con l’indulgenza, che presuppone il sacramento del perdono come forza che vince il male, viene dato un impulso plenario di rinnovamento, di perdono e di condono anche a livello economico e sociale, oltre che spirituale, così urgenti oggi a livello di globalizzazione. Benedetto XVI rende visibile l’atteggiamento di Cristo verso i poveri, la sua particolare attenzione ai piccoli e agli umili. Pur con un percorso di grande teologo e maestro di dottrina, quindi un intellettuale e uno studioso che si misura con gli uomini e le donne di pensiero per offrire la verità salvifica di Gesù Cristo alla ragione del nostro tempo, è oggi come Papa soprattutto catechista cioè essenziale nel dire la fede professata, celebrata, vissuta, pregata e che si fa capire da tutti ed è vicino alla gente, perché nelle sua parole si coglie la sua esperienza di fede che anche la gente semplice percepisce cogliendo tutta una saggezza umana ricca di paternità.

Oggi Benedetto XVI raggiunge una molteplicità di situazioni di povertà dei singoli, di famiglie e di comunità, di nazioni e di continenti sparsi nel mondo. Lo fa direttamente e sia tramite la Segreteria papale o Segreteria di Stato e sia attraverso gli organismi preposti alla sua carità cioè alla carità della Chiesa, come l’Elemosineria apostolica, il Pontificio Consiglio Cor Unum e altri e con essi distribuisce non solo le offerte che riceve dai fedeli, dalle diocesi, dalle congregazioni religiose e dalle associazioni benefiche, ma anche i suoi non piccoli diritti d’autore, frutto del suo personale lavoro. Come rilevava Sant’Ignazio di Antiochia riferendosi alla Chiesa che è in Roma, egli “presiede nella carità”, guidando prima che giuridicamente eucaristicamente in connubio con quel vasto movimento di carità e di solidarietà fraterna che tanto attrae anche il polmone della Chiesa Ortodossa.

Sulla scia dei suoi predecessori, soprattutto a cominciare da Leone XIII con un accento peculiare, senza idealizzare o demonizzare nessun governo, richiama, sollecita le singole azioni politiche concrete e le organizzazioni internazionali per sanare disuguaglianze, le discriminazioni più brucianti in tema di sottosviluppo e di povertà. Tra gli innumerevoli testi, appelli e messaggi predomina il n. 27 della Caritas in veritate dove denuncia l’accentuarsi di una estrema insicurezza di vita e di crisi alimentari provocate sia da cause naturali e sia dall’irresponsabilità politica nazionale e internazionale: “E’ importante evidenziare come la via solidaristica allo sviluppo dei Paesi poveri possa costituire un progetto di soluzione della crisi globale in atto, come uomini politici e responsabili di Istituzioni hanno negli ultimi tempi intuito”. L’avvenimento di questo dato è esperienza in occasione del G8 e del 30° meeting di quest’anno: la conoscenza come avvenimento.

Sono fondati certi timori sulla sua fedeltà al Concilio Vaticano II e sul dinamismo continuo di riforma della Chiesa?

Con la sua formazione biblica, patristica e liturgica con cui ha affrontato le problematiche attuali è stato protagonista al Concilio, soprattutto su uno dei testi conciliari di spicco cioè la Dei Verbum “che peraltro – come annota in La mia vita (pp. 92 – 93) – non è stato ancora recepito appieno (…). Il compito di comunicare le reali affermazioni del Concilio alla coscienza ecclesiale e di plasmarla a partire da queste ultime è ancora da realizzare”. Ed è prossimo il documento post-sinodale su La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa. Una volta eletto Papa, dal discorso di inaugurazione del pontificato a quello del Curia romana del 22 dicembre 2005, agli atti precisi da lui finora voluti e firmati, talora sapientemente spiegati per il necessario connubio di fede – ragione il Concilio è la bussola. “Le altre elucubrazioni e sussurri su presunti documenti retromarcia – afferma il Segretario di Stato – sono pura invenzione secondo un cliché standardizzato e ostinatamente riproposto- Vorrei solo citare alcune istanze del Concilio Vaticano II dal Papa costantemente promosse con intelligenza e profondità di pensiero: il rapporto più comprensivo instaurato con le Chiese ortodosse e orientali, il dialogo con l’ebraismo e quello con l’islam. Con una reciproca attrazione, che hanno suscitato risposte e approfondimenti mai prima verificati, purificando la memoria e aprendosi alle ricchezze dell’altro. E inoltre mi fa piacere sottolineare il rapporto diretto e fraterno, oltre che paterno, con tutti i membri del collegio episcopale nelle visite ad limina e nelle altre numerose occasioni di contatto. Si ricordi la prassi da lui avviata dei liberi interventi alle assemblee del Sinodo dei Vescovi con puntuali risposte e riflessioni dello stesso Pontefice. Non dimentichiamo poi il contatto diretto instaurato con i superiori dei dicasteri della Curia romana con i quali ha ripristinato i periodici incontri di udienza. Quanto alla riforma della Chiesa – che è soprattutto una questione di interiorità e di santità – Benedetto XVI ci ha richiamati alla fonte della Parola di Dio, alla legge evangelica e al cuore della vita della Chiesa: Gesù il Signore conosciuto, amato, adorato e imitato come “colui nel quale piacque a Dio di far abitare ogni pienezza”, secondo l’espressione della lettera ai Colossesi. Con il volume Gesù di Nazaret e con il secondo che sta preparando, il Papa ci fa un grande dono e sigilla la sua precisa volontà di “fare di Cristo il cuore del mondo””. Così descrive il Segretario di Stato il pontefice che “non brandisce la spada dello scontro e si fa capire dalla gente”. Urge far sì che l’opinione pubblica sia portata a un alto senso di responsabilità che aiuta, tra l’altro, a superare ogni fraintendimento sulla convinzione di Benedetto XVI secondo il quale al termine del secondo millennio, il cristianesimo si trova, proprio nella sua originaria diffusione, in Europa, in una crisi profonda sulla sua pretesa verità sia per la sfiducia riguardo alla possibilità, per l’uomo di conoscere il vero, il bene, il senso della vita cioè Dio e sia per scorgere le utili luci sorte lungo la storia della fede cristiana e per percepire così Gesù Cristo come la Luce che illumina la storia e aiuta a trovare la via verso il futuro. Ma c’è una centralità anche nella Chiesa del ministero del successore di Pietro cui il Papa tutto deve subordinare, argomentata nella lettera ai vescovi cattolici dello scorso 10 marzo in occasione della remissione della scomunica dei vescovi consacrati dall’arcivescovo Lefebre, remissione da loro invocata: “Nel nostro tempo in cui vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio. Non a un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine (Gv 13,1) – in Gesù Cristo crocifisso e risorto. Il vero problema in questo nostro momento della storia è che Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini e che con lo spegnersi della luce proveniente da Dio l’umanità viene colta dalla mancanza di orientamento, i cui effetti distruttivi ci si manifestano sempre più”. E la domanda che J. Ratzinger Benedetto XVI si pone in Fede, Verità, Tolleranza, domanda che impedisce di ritenere tragedia, cioè senza speranza, la situazione drammatica della fede oggi è: “Come mai la fede ha ancora in assoluto una sua possibilità di successo (in noi singolarmente e nell’umanità nel suo insieme)? Direi perché essa trova corrispondenza nella natura di ogni uomo… In ogni uomo vi è un’estinguibile aspirazione nostalgica verso l’infinito. Nessuna delle risposte che si sono cercate è sufficiente; solo il Dio che si è reso finito, per lacerare la nostra finitezza e condurla nell’ampiezza della sua infinità, è in grado di venire incontro alle domande del nostro essere. Perciò anche oggi la fede cristiana tornerà a trovare l’uomo”, ritornerà fede e ragione, supererà la riduzione della fede a senso religioso, a sentimento, a etica, a cultura: la fede può tornare a essere conoscenza, quindi un fatto pubblico, Chiesa e società inclusive. La fede è un metodo di conoscenza! Il drammatico percorso moderno della separazione fra sapere e credere dell’età moderna illuminista e post – illuminista di ritenere ideologicamente che l’uomo sarebbe stato redento mediante la scienza fallisce. Con una tale attesa si chiede troppo alla scienza; questa specie di speranza è fallace. La scienza può contribuire molto all’umanizzazione del mondo e dell’umanità e quindi fallisce la sola fede. Ma la scienza può anche distruggere l’uomo e il mondo, se non viene orientata da forze che si trovano al di fuori di essa: quindi fallisce anche la sola ragione scinetifica. D’altra parte per il Concilio Vaticano II e quindi per Benedetto XVI dobbiamo anche constatare che il cristianesimo moderno, di fronte ai successi della scienza nella progressiva strutturazione del mondo, si era in gran parte concentrato soltanto sull’individuo e sulla sua salvezza. Con ciò ha ristretto l’orizzonte della sua speranza e non ha neppure riconosciuto sufficientemente la grandezza del suo compito – anche se resta grande ciò che ha continuato a fare nella formazione dell’uomo e nella cura dei deboli e dei sofferenti.

Quali sono stati gli interventi qualificanti nella Curia romana di Benedetto XVI per questa revisione del cristianesimo moderno per riconoscere il suo compito e quali bisogna ancora attendersi?

“Benedetto XVI – osserva il card. Bertone – è un profondo conoscitore della Curia romana, dove ha ricoperto un ruolo preminente come Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, un osservatorio e un dicastero centrale per la connessione delle giunture con tutti gli altri organismi di governo della Chiesa. Così ha potuto conoscere perfettamente persone e dinamismi e seguire il percorso delle nomine avvenute sotto il pontificato di Giovanni Paolo II, pur nel suo distacco dalle manovre e dal chiacchiericcio che a volte si sviluppa in certi ambienti curiali, purtroppo poco permeati da vero amore alla Chiesa. Dall’inizio del suo pontificato, ancora breve, sono oltre 70 le nomine di superiori dei vari dicasteri, senza contare quelle dei nuovi nunzi apostolici e dei nuovi vescovi in tutto il mondo. I criteri che hanno guidato le scelte di Benedetto XVI sono stati: la competenza, il genuino spirito pastorale, l’internazionalità. Sono alle porte alcune nomine importanti e non mancheranno sorprese, soprattutto in relazione alla rappresentanza delle nuove chiese: l’Africa ha già offerto e offrirà eccellenti candidati”.

E’ giusto attribuire alla responsabilità del Pontefice tutto quello che accade nella Chiesa o è utile per una corretta informazione applicare il principio di responsabilità personale?

“E’ invalsa l’abitudine – è questo l’intervento del Segretario di Stato più pubblicizzato dai giornali e anche più strumentalizzato –di imputare al Papa – o, come si dice, soprattutto in Italia, al Vaticano – la responsabilità di tutto ciò che accade nella Chiesa o di ciò che viene dichiarato da qualsiasi esponente o membro delle Chiese locali, di istituzioni o di gruppi ecclesiali. Ciò non è corretto. Benedetto XVI è un modello di amore a Cristo e alla (sua presenza nella) Chiesa, la impersona come Pastore universale, la guida nella via (umana) della verità e della santità, indicando a tutti la misura alta della fedeltà a Cristo e alla legge evangelica. Ed è giusto, per una corretta informazione, attribuire a ciascuno la propria responsabilità per fatti e parole, soprattutto quando essi contraddicono patentemente gli insegnamenti e gli esempi del Papa. Ogni imputabilità è personale, e questo criterio vale per tutti, anche nella Chiesa. Ma purtroppo il modo di riportare e di giudicare dipende dalle buone intenzioni e dall’amore per la verità dei giornalisti e dei media. Ho letto di recente un bell’aricolo di Javier Marìas, che fa un’amara riflessione: “Ho avuto modo di osservare che una vasta percentuale della popolazione mondiale non si preoccupa più della verità. Temo però di aver peccato di eccessiva cautela, perché ciò che sta accadendo è di gran lunga più funesto: una vasta percentuale della popolazione oggi non è più in grado di distinguere la verità dalla menzogna, oppure, per essere più precisi, la realtà in tutti i fattori dalla finzione”. Rimane perciò ancora più urgente e necessario insegnare la verità, far conoscere e amare la verità, su se stessi, sul mondo, su Dio, convinti, secondo la parola di Gesù, che “la verità (cioè l’apertura originaria di ogni io alla realtà in tutti i fattori) vi farà liberi” (Gv 8,32). Benedetto XVI, fedele al Concilio e a tutta la tradizione cattolica autentica, mai cerca di imporre ad altri in modo autoritario la fede, il suo magistero, che possono essere donati e accolti solo in libertà. Al di là del suo ministero di Pastore della Chiesa e in base alla natura intrinseca di questo ministero pastorale mantiene desta la sensibilità per la verità attraverso il connubio delle due ali di fede e ragione; invita sempre di nuovo la ragione comune a tutti gli uomini a mettersi alla ricerca del vero, del bene, del senso della vita, da dove proviene e a che cosa è destinato ogni io umano cioè di Dio e, su questo cammino necessario a tutti, sollecitarla a scorgere le utili luci sorte lungo la storia della fede cristiana e a percepire così Gesù Cristo come la Luce che illumina la storia di tutti e di tutto ed aiuta a trovare la via verso il futuro.

“Può spiegare – viene chiesto al Segretario di Stato – anche con qualche esempio, come nella Chiesa di Benedetto XVI la libertà di pensiero e di ricerca vada di pari passo con la responsabilità della fede?”

“In relazione a questo tema – che è assai importante e centrale nella chiesa, e tocca altri binomi strettamente connessi, come fede e ragione, fede e cultura, scienza e fede, obbedienza e libertà – occorre riandare all’esempio della vita e dell’esperienza di Joseph Ratzinger, pensatore, teologo e maestro di dottrina riconosciuto, come ho appena detto. Non si può ovviamente scindere la sua prassi e il suo stile di governo dalle convinzioni più profonde che hanno nutrito e segnato il suo comportamento di studioso e di ricercatore. Nel suo lungo percorso di intellettuale, assai attivo sulle cattedre universitarie e sui media, si sono aggiunte successivamente due formidabili responsabilità: dapprima quella di prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede e poi quella di Pastore supremo della Chiesa cattolica. E’ evidente che queste due funzioni hanno segnato gli insegnamenti e gli atti del cardinale e del Papa, orientandoli anche più efficacemente, se così si può dire, a una interazione e a una sinergia fra la libertà fondamentale di pensiero e di ricerca e la responsabilità dell’atto di fede e dell’adesione di fede a Dio che si rivela, che parla e chiama a essere “nuova creatura”. Non quindi una contrapposizione o una “secessione”, ma una armonia da ricercare, da costruire con intelligenza d’amore. Tale è l’atteggiamento di Joseph Ratzinger quando parla a organismi come la Pontificia Commissione Teologica Internazionale, la Pontificia Accademia delle Scienze, la Pontificia Accademia per la Vita, e così via, oppure quando dialoga con singoli studiosi e pensatori. Chiede ai teologi di non essere sradicati dalla fede della Chiesa (cioè da quella esperienza ecclesiale di fede che fonda come avvenimento la conoscenza), per essere veri teologi cattolici, e ha elogiato – ad Aosta, lo scorso 25 luglio – “la grande visione che ha avuto Teillard de Chardin -: l’idea paolina che alla fine avremo una vera liturgia cosmica, e il cosmo diventerà essere vivente”. E vorrei ancora citare una bella pagina della Caritas in veritate ove parla “dell’impegno per fare integrare i diversi livelli del sapere umano in vista della promozione di un vero sviluppo dei popoli”. Dopo aver spiegato che il sapere non è mai solo opera dell’intelligenza, e che il sapere è sterile senza l’amore , conclude: “Le esigenze dell’amore non contraddicono quelle della ragione. Il sapere umano è insufficiente e le conclusioni delle scienze non potranno indicare da sole la via verso lo sviluppo integrale dell’uomo. C’è sempre bisogno di spingersi più in là: lo richiede la carità nella verità. Andare oltre, però, non significa mai prescindere dalle conclusioni della ragione né contraddire i suoi risultati. Non c’è l’intelligenza e poi l’amore: ci sono l’amore ricco di intelligenza e l’intelligenza piena di amore” (n.30). Ma a monte di questa metodologia teologica c’è il carisma di Giussani, come ha riconosciuto Ratzinger Benedetto XVI nell’omelia del suo funerale e nella prima enciclica con l’affermazione che all’inizio, nella crescita, nella testimonianza di essere cristiani c’è l’avvenimento dell’incontro, del conoscere, del pensare, del vedere la persona di Gesù Cristo nelle varie mediazioni sacramentali e questa è la continuità della Tradizione cattolica. “Così la fede – osserva Jiulian Carron “Dalla fede il Metodo”- può tornare a essere conoscenza (e quindi rilevanza pubblica). La fede è un metodo di conoscenza! Questo cammino drammatico fa parte della certezza, del superamento della separazione fra sapere e credere. La storia non è inutile, le circostanze attraverso cui il Mistero ci fa passare non sono inutili; sono la possibilità di vedere, che si sveli davanti ai nostri occhi chi è Colui in cui crediamo. Crediamo, come i discepoli, perché abbiamo visto; non crediamo per un sentimentalismo o perché abbiamo deciso di credere, di creare la fede (nel Risorto, presente). Lo abbiamo visto all’opera, le Sue opere parlano di Lui. Questo è il superamento della separazione tra sapere e credere. Noi abbiamo visto, quando abbiamo fatto questo percorso, i tratti inconfondibili della Sua presenza. Altro che riduzione della fede al senso religioso e al sentimento” (p.28).

In questa luce non è difficile raccontare l’azione, l’esperienza e quindi il pensiero di Benedetto XVI. Ha una visione limpida e punta a spingere i singoli e le comunità alla sua stessa esperienza di fede nell’incontro con il Risorto, al conseguente nuovo orizzonte di vita con la teologia dell’et…et, la spiritualità del “con”, mai del “contro”, a meno che si tratti di intaccare la dottrina o di ideologie che hanno portato l’Europa nei baratri del secolo scorso.

Come è nata l’idea dell’Anno sacerdotale?

La ricorrenza del centocinquantesimo anniversario della morte del curato d’Ars e l’emergenza delle problematiche che hanno investito tanti sacerdoti, hanno mosso Benedetto XVI a promulgare l’Anno sacerdotale, dimostrando così una speciale attenzione ai sacerdoti, alle vocazioni sacerdotali e promuovendo in tutto il popolo di Dio un movimento di crescente affetto e vicinanza ai ministri ordinati. Essi sono senza dubbio la spina dorsale delle chiese locali e i primi collaboratori del vescovo nell’annuncio della fede, della santificazione mediante i sacramenti e della guida del popolo di Dio in concreti vissuti ecclesiali di comunione. L’Anno sacerdotale sta suscitando un grande entusiasmo in tutte le Chiese locali e un movimento straordinario di preghiera, di fraternità sacramentale verso e fra i sacerdoti, e sta crescendo una attenzione speciale anche verso i sacerdoti ridotti a una condizione marginale nell’azione pastorale. Molte iniziative sono indirizzate a rafforzare la coscienza dell’identità e della missione sacerdotale, che è essenzialmente una missione sacramentale della presenza e dell’azione sacramentale del Risorto, una missione educativa nella Chiesa e nella società.

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