Sviluppo in Veritate

Dalla Caritas in veritate una prospettiva di grande respiro per la vita della società e della Chiesa

“La terza enciclica di Benedetto XVI si snoda con coerente linearità rispetto alle due precedenti (Deus caritas est e Spe salvi) e porta alla luce una connessione che è presente già nello stesso titolo e cioè che “solo nella verità la carità risplende e può essere autenticamente vissuta” (n. 3). Come è noto il Papa parte da questa persuasione per rileggere in modo critico la “res socialis” di oggi, che va sotto il nome di globalizzazione e che pone una sfida inedita. Infatti “il rischio del nostro tempo è che all’interdipendenza di fatto tra gli uomini non corrisponda l’interazione etica delle coscienze e delle intelligenze” (n. 9). Per questo si richiede non solo una volontà determinata, ma ancor prima un pensiero lucido che sappia proporre “una visione chiara di tutti gli aspetti economici, sociali, culturali e spirituali” (n. 31) dello sviluppo. Insomma si richiede “l’allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa”, secondo il pressante appello che muove – sin dal suo inizio – il magistero di Benedetto XVI (cfr. Discorso di Ratisbona). Il richiamo esplicito a Paolo VI e alla Populorum progressio (1967), così come quello indiretto alla Sollicitudo rei socialis (1987) di Giovanni Paolo II, diventa nella riflessione di Benedetto XVI lo spunto per una importante affermazione di carattere generale e cioè la riaffermazione della Dottrina sociale come un “corpus dottrinale” (n. 12) che affonda le sue radici nella fede apostolica e si colloca pieno titolo nell’alveo della Tradizione, secondo un processo di rigorosa continuità. Così facendo il Santo Padre intende chiarire un suo punto di vista, che non si è ispirato da alcuna situazione sociologicamente intesa, ma rispecchia una prospettiva teologica e cioè che “l’annuncio di Cristo è il primo e principale fattore di sviluppo” (n. 8). La percezione della sfida e l’esigenza di un nuovo pensiero (non solo economico – sociale) in grado di dire al meglio la novità dei fatti che sono sotto gli occhi di tutti e che proprio la recente crisi finanziaria ha ancor più aggravato, spinge a riconsiderare luoghi comuni e pregiudizi inveterati per addentrarci dentro una interpretazione originale del fatto umano della globalizzazione. Guidano la riflessione della Caritas in veirtate due presupposti, da cui scaturisce una prospettiva di grande respiro per la vita della società e della Chiesa. I due presupposti di fondo sono

- da un lato la convinzione (delle utili luci sorte lungo la storia della fede cristiana e a percepire che anche oggi “l’annuncio di Cristo è il primo e principale fattore di sviluppo” (n.8) poiché) lo sviluppo non è solo una questione quantitativa, ma risponde piuttosto ad una vocazione,

- e dall’altra il fatto che la giustizia, pure necessaria, non è autosufficiente perché esige la carità, così come la ragione ha bisogno della fede.

La prospettiva che emerge è dunque “una visione articolata dello sviluppo” (n. 21), che porta a ritenere come la questione sociale sia oggi indiscindibilmente legata alla questione antropologica (e quindi cristologica, teologica).

Lo sviluppo è una vocazione

“Affermare che “il primo capitale da salvaguardare e valorizzare è l’uomo, ogni persona, nella sua integrità: l’uomo infatti è l’autore, il centro e il fine di tutta la vita economico – sociale” (n. 25) significa sottrarre ad un cieco determinismo la lettura della gòbalizzazione e ribadire che anche questo complesso fenomeno è legato alla variabile umana. Non si dà cioè la fatalità di attenersi solo a dati ritenuti oggettivi e scientifici dimenticando quanto la componente umana giochi un ruolo decisivo nelle scelte che di volta in volta vengono prese. Ciò fa comprendere che lo sviluppo non è un processo rettilineo quasi automatico e di per sé illimitato, ma è determinato dalla qualità umana degli attori chiamati in causa. Per questo Benedetto XVI invita ad una interpretazione che non si accontenta della semplice analisi delle strutture umane, ma rimanda ad un livello più profondo. “In realtà – egli scrive – le istituzioni da sole non bastano, perché lo sviluppo umano integrale è anzitutto vocazione e, quindi, comporta una libera e solidale assunzione di responsabilità da parte di tutti. Un tale sviluppo richiede, inoltre, una visione trascendente della persona (nella sua originaria ricerca del vero, del bene, del senso e compimento della vita), ha bisogno di Dio: senza di Lui lo sviluppo o viene negato o viene affidato unicamente nelle mani dell’uomo, che cade nella presunzione dell’autosalvezza e finisce per promuovere uno sviluppo disumanizzato”” (n. 11). Ciò richiede un preciso esame di coscienza, cui l’enciclica non si sottrae, facendo riferimento ai progressi. Effettivamente fatti o non fatti nella direzione auspicata dalla Populorum progressio. Certamente molti risultati sono stati raggiunti, ma la Fao – ancora lo scorso 19 giugno – ha comunicato le sue nuove stime: la fame nel mondo raggiungerà un livello storico nel 2009 con 1,02 miliardi di persone in stato di sotto nutrizione. La pericolosa combinazione della recessione economica mondiale e dei persistenti alti prezzi dei beni alimentari in molti Paesi ha portato circa 100 milioni di persone in più rispetto all’anno scorso oltre la soglia della denutrizione e delle povertà croniche. L’enciclica rende avvertiti che “gli attori e le cause sia del sottosviluppo sia dello sviluppo sono molteplici, le colpe e i meriti sono differenziati”. Per poi aggiungere: “Questo dato dovrebbe spingersi a liberarsi dalle ideologie, che semplificano in modo spesso artificioso la realtà e indurre a esaminare con obiettività lo spessore umano dei problemi” (n. 21). Infatti “i costi umani sono sempre anche costi economici e le disfunzioni economiche comportano sempre anche costi umani” (m. 32). Non si fatica d’altra parte a capire che “l’aumento massiccio della povertà…non solo tende ad erodere la coesione sociale, e per questa via mette in crisi la democrazia, ma ha anche un impatto negativo sul piano economico, attraverso la progressiva erosione del “capitale sociale”, ossia dell’insieme delle relazioni di fiducia, di affidabilità, di rispetto delle regole, indispensabili ad ogni convivenza civile”. Solo se lo sviluppo è una vocazione e non un destino si può sperare di avere ancora margini di cambiamento e soprattutto di trasformazione. Infatti “nonostante alcune sue dimensioni strutturali che non vanno negate ma nemmeno assolutizzate, “la globalizzazione, a priori, non è né buona né cattiva. Sarà ciò che le persone ne faranno. Non dobbiamo esserne vittime, ma protagonisti, procedendo con ragionevolezza, guidati dalla carità e dalla verità” (n. 42).

Lo sviluppo richiede la carità oltre la giustizia

Ma come aiutare la ragione a non cedere ad una lettura rassegnata della realtà soprattutto come aiutarla a far emergere le potenzialità che sono dentro la risorsa che è l’uomo? Una risposta sta certamente nel fatto che già nella Deus caritas est (n. 28) la Dottrina sociale della Chiesa venga presentata come il luogo in cui la carità purifica la giustizia. Questa purificazione, peraltro, non è altro che un momento di quella più ampia purificazione che la fede è chiamata ad esercitare nei riguardi della ragione. Il concetto di “purificazione” è tutt’altro che negativo, come potrebbe sembrare a prima vista, ed è agli antipodi della semplice negazione o della pura condanna. Ciò vuol dire che la giustizia è assunta ma allo stesso tempo potenziata dalla carità. Tra queste due realtà c’è insomma una relazione che va in entrambe le direzioni: per un verso non c’è carità senza giustizia perché si tratterebbe di semplice assistenzialismo, per altro verso non si dà giustizia senza carità perché si finirebbe nelle secche di un arido legalismo. Arrivare ad intuire l’eccedenza e ancor prima la necessità della carità, vista l’insufficienza della giustizia, è però il frutto di una intuizione che va ben oltre la semplice ragione. Si richiede il recupero di una categoria, quella della fraternità, che, non a caso, Benedetto XVI pone in testa alla relazione tra sviluppo economico e società civile al capitolo terzo della Caritas in veritate. La grande sfida che abbiamo davanti “è di mostrare, a livello sia di pensiero sia di comportamenti, che non solo i tradizionali principi dell’etica sociale, quali la trasparenza, l’onestà e la responsabilità non possono venire trascurati o attenuati, ma che anche nei rapporti mercantili il principio di gratuità e la logica del dono some espressione della fraternità devono trovare posto entro la normale attività economica” (n. 36). Nasce qui una interessante serie di riflessioni che spaziano dentro il ruolo del non profit e alludono all’ibridazione dei comportamenti economici delle imprese, aprendo ad approcci inabituali nell’interpretazione dei rapporti internazionali. Per arrivare ad un’affermazione forte: “Lo sviluppo dei popoli dipende soprattutto dal riconoscimento di essere una sola famiglia” (n. 53). Questa chiara affermazione del Vaticano II (Gaudium et spes, n. 77) è un punto fermo richiede in realtà “un nuovo slancio del pensiero” ed obbliga “ad un approfondimento critico e valoriale della categoria della relazione. Si tratta di un impegno che non può essere svolto dalle sole scienze sociali, in quanto richiede l’apporto dei saperi come la metafisica e la teologia, per cogliere in maniera illuminata la dignità trascendente di ogni uomo” (n. 53). In tal modo il Papa si fa carico, ancora una volta, di restituire dignità alla domanda su Dio e di aprire all’interno del dibattito pubblico la questione della fede (n. 56), che è chiamata a purificare la ragione, così come la carità orienta e finalizza la giustizia, se il mondo non vuole soccombere alle sue logiche disumanizzanti. Si comprende allora perché il Vangelo si riveli il maggior fattore di sviluppo e, di conseguenza, perché la Chiesa dia il proprio apporto allo sviluppi anzitutto quando annuncia, celebra e testimonia Cristo, quando cioè, adempie alla propria missione di evangelizzazione”.

Lo sviluppo sociale è la questione antropologica

“Il punto di approdo di quanto detto sul rapporto tra giustizia e carità e la prospettiva più originale del testo pontificio è ricondurre la questione sociale alla questione antropologica, marcando la necessaria correlazione che esiste tra queste due dimensioni che stanno o cadono insieme. Per questo Benedetto XVI propone con forza il collegamento tra etica della vita ed etica sociale, dal momento che non può “avere solide basi una società che – mentre afferma valori quali la dignità della persona, la giustizia e la pace – si contraddice radicalmente accettando e tollerando le più diverse forme di disistima e violazione della vita umana, soprattutto se debole ed emarginata” (n. 15). In concreto, questo vuol dire che lo sviluppo vero non può tenere separati i temi della giustizia sociale da quelli del rispetto della vita e della famiglia e che sbagliano quanti in questi anni, anche nel nostro Paese, si sono contrapposti tra difensori dell’etica individuale e propugnatori dell’etica sociale. In realtà le due cose stanno insieme. Un esempio eloquente è dato dalla consapevolezza che la questione demografica, che attiene certamente alla dinamica affettiva e familiare, rappresenti pure uno snodo decisivo delle politiche economiche e perfino del Welfare. Aver sottovalutato l’impatto della famiglia sul piano sociale ed economico riconducendola ad una questione privata, quando addirittura ad un retaggio culturale del passato, è stata una miopia di cui oggi pagano le conseguenze soprattutto le generazioni più giovani, sempre meno numerose e sempre meno importanti. La saldatura tra etica sociale ed etica della vita è un imperativo categorico anche in altri ambiti sensibili e porta a convincersi ad esempio che l’eugenetica è molto più preoccupante della perdita della biodiversità nell’ecosistema o che l’aborto e l’eutanasia corrodono il senso della legge e impediscono all’origine l’accoglienza dei più deboli, rappresentando una ferita alla comunità umana dalle enormi conseguenze di degrado. Come sottolinea con vigore il Papa: “Se si perde la sensibilità personale e sociale verso l’accoglienza di una nuova vita, anche altre forme di accoglienza utili alla vita sociale si inaridiscono” (n. 28). Ancora una volta l’enciclica aiuta a far emergere un più profondo senso dello sviluppo che sa porre in relazione i diritti individuali con un quadro di doveri più ampio, aiutando così ad intendere correttamente le libertà individuali con un quadro di doveri più ampio, aiutando così ad intendere correttamente la libertà individuale che deve sempre fare i conti anche con la responsabilità sociale. Taluni fenomeni di degrado politico cui assistiamo oggi e che rivelano mancanza di progettualità e resa ad interessi di corto respiro, così come recenti episodi di abbrutimento finanziario che hanno portato al collasso del sistema economico, colpendo fasce più deboli dei risparmiatori, confermano che l’etica sociale si regge soltanto sulla base delle qualità delle singole persone. Lo dice espressamente il Papa: “Lo sviluppo è impossibile senza uomini retti, senza operatori economici e uomini politici che vivano fortemente nelle coscienze l’appello del bene comune” (n. 71).

La questione ambientale: la priorità dell’ecologia umana

Concludo – cardinale Angelo Bagnasco, Lectio magistralis, Genova 19 settembre 2009 - , facendo riferimento ad un tema che ha colpito la pubblica opinione e che può rappresentare una sorta di controprova sperimentale della validità della lettura dello “sviluppo integrale”, che Benedetto XVI propone a tutti gli uomini di buona volontà, sulla scia della grande intuizione della Populorum progressio di Paolo VI. Mi riferisco al tema dell’ambiente, cui è espressamente dedicato una parte significativa del capitolo IV (nn. 48 – 52) e che rileva una ricorrente preoccupazione del magistero dell’attuale Pontefice. Scrive Benedetto XVI: “La Chiesa ha una responsabilità per il creato e deve far valere questa responsabilità anche in pubblico. E facendolo deve difendere non solo la terra, l’acqua e l’aria come doni della creazione appartenenti a tutti. Deve proteggere soprattutto l’uomo contro la distruzione di se stesso. E’ necessario che ci sia qualcosa come un’ecologia dell’uomo, intesa in senso giusto. Il degrado della natura è infatti strettamente connesso con la cultura che modella la convivenza umana: quando l’ecologia umana è rispettata dentro la società, anche l’ecologia ambientale ne trae beneficio” (n. 51). La crisi ecologica dunque non può essere interpretata come un fatto esclusivamente tecnico, ma rimanda ad una crisi più profonda perché ai “deserti esteriori” corrispondono “i deserti interiori”, così come alla morte dei boschi “attorno a noi” fanno da pendant le nevrosi psichiche e spirituali “dentro di noi”, all’inquinamento delle acque corrisponde l’atteggiamento nichilistico nei confronti della vita. Quando infatti l’uomo non viene considerato nell’integralità della sua vocazione e non si rispettano le esigenze di una vera “ecologia umana” si scatenano le dinamiche perverse della povertà, compromettendo fatalmente anche l’equilibrio della Terra. Una prova ulteriore, se ce ne fosse ancora bisogno, che “il problema decisivo dello sviluppo è la complessiva tenuta morale della società” (n. 51). La crisi in atto mette in evidenza dunque la necessità di ripensare il modello economico cosiddetto “occidentale”, come, del resto, già auspicato nella Centesimus annus (1991). Ma lo sguardo dell’enciclica è tutt’altro che pessimista o fatalista. Al contrario con realismo apre al futuro con il seguente invito:”La crisi ci obbliga a riprogettare il nostro cammino, a darci nuove regole e a trovare nuove forme di impegno, a puntare sulle esperienze positive e a rigettare quelle negative. La crisi diventa così occasione di discernimento e di nuova progettualità. In questa chiave, fiduciosa piuttosto che rassegnata, conviene affrontare le difficoltà del momento presente” (n. 21).

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