Sulla Evangelii nuntiandi

Papa Francesco vuole che si "testimoni" silenziosamente la fede cristiana con la vita, con il comportamento, in primo luogo con l'amore del prossimo, in alternativa al proselitismo, citando l'"Evangelii nuntiandi" di Paolo VI "il documento pastorale - secondo Papa Francesco - più grande del dopo Concilio"
 Il 28 ottobre del 1974 mi trovavo a Roma in aiuto a Mons. Giuseppe Carraro, invitato al Sinodo sull'Evangelizzazione nel mondo contemporaneo da Paolo VI. I Sinodali pensavano, con l'aiuto di Padre Grasso, a un documento sinodale e non post-sinodale. Non essendo riusciti hanno consegnato tutto al Papa che ha chiesto a mons. Carraro chi
avrebbe potuto stendergli un aiuto. Carraro , entusiasta delle due relazioni, introduttiva e conclusiva, di Wojtyla glielo ha indicato. In otto giorni gli ha steso tutto il contributo partendo da Cristo che rivela contemporaneamente  chi è Dio e chi è l'uomo superando la dialettica partire da Dio o partire dall'uomo. L'Esortazione post-sinodale è uscita nel 1975, a dieci anni dalla chiusura del Concilio, superando la dialettica già forte per la Gaudium et spes.
Paolo VI assegna una "importanza primordiale" alla testimonianza silenziosa di vita, nella speranza che essa tocchi le menti e i cuori e accenda un'attesa".
Ma subito dopo scrive:
"Tuttavia ciò resta sempre insufficiente, perché anche la più bella testimonianza si rivelerà a lungo impotente, se non è illuminata, giustificata – ciò che Pietro chiamava 'dare le ragioni della propria speranza' –, esplicitata da un annuncio chiaro e inequivocabile del Signore Gesù. La Buona Novella, proclamata dalla testimonianza di vita, dovrà dunque essere presto o tardi annunziata dalla parola di vita. Non c'è vera evangelizzazione se il nome, l'insegnamento, la vita, le promesse, il Regno, il mistero di Gesù di Nazareth, Figlio di Dio, non siano proclamati".
E non è tutto. Perché l'annuncio non basta – prosegue Paolo VI – se non "fa sorgere in colui che l'ha ricevuto un'adesione" alla Chiesa e una volontà di farsi a sua volta evangelizzatore. "Testimonianza, annuncio esplicito, adesione del cuore, ingresso nella comunità, accoglimento dei segni, iniziative di apostolato": è tutto questo, per Paolo VI, il "processo complesso" dell'evangelizzazione.
Su tutto questo Francesco sistematicamente sorvola. E anche l'invito da lui rivolto ai missionari del Pontificio Istituto Missioni Estere di rileggere negli ultimi paragrafi di "Evangelici nuntiandi" i moniti di Paolo VI contro "i peccati dell'evangelizzatore" appare contraddittorio.
Se ad esempio si rilegge il paragrafo 80 dell'esortazione, si vedrà che Paolo VI bolla come errori proprio quei modi di pensare che vanno per la maggiore tra molti sostenitori dell'attuale pontificato e che di fatto paralizzano qualsiasi spinta missionaria:
"Avviene che si sente dire troppo spesso, sotto diverse forme: imporre una verità, sia pure quella del Vangelo, imporre una via, sia pure quella della salvezza, non può essere che una violenza alla libertà religiosa. Del resto, aggiungono, perché annunziare il Vangelo dal momento che tutti sono salvati dalla rettitudine del cuore? Se, d'altra parte, il mondo e la storia sono pieni dei 'germi del Verbo', non è una illusione pretendere di portare il Vangelo là dove esso già si trova nei semi, che il Signore stesso vi ha sparsi?".
E ancora, nel paragrafo 78, contro certi facili addomesticamenti delle verità di fede:
"Il predicatore del Vangelo sarà colui che, anche a prezzo della rinuncia personale e della sofferenza, ricerca sempre la verità che deve trasmettere agli altri. Egli non tradisce né dissimula mai la verità per piacere agli uomini, per stupire o sbalordire, né per originalità o desiderio di mettersi in mostra. Egli non rifiuta la verità; non offusca la verità rivelata per pigrizia nel ricercarla, per comodità o per paura".


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