Il significato dei valori religiosi e morali nella società pluralistica

Non è la prassi a "creare" la verità, la dottrina, ma è la verità, la dottrina sociale che rende possibile un'autentica prassi anche politica
Di Joseph Ratzinger in Communio,
anno 21, quaderno n.6, 1992
Libertà, democrazia e relativismo
"Nel corso di questa riflessione si sono fatte avanti, accanto all'idea di libertà, due altre nozioni: quella di diritto e quella di bene. Tutte e tre insieme, cioè la libertà come struttura esistenziale tipica della democrazia, e il bene e il diritto come contenuti della libertà medesima, si dispongono
in una certa dialettica vicendevole. Quest'ultima costituisce il nocciolo essenziale del dibattito odierno intorno alle forme autentiche di democrazia e di politica.
A dire il vero, noi pensiamo qui in primo luogo soprattutto alla libertà, intendendola come il vero bene dell'uomo; tutti gli altri beni ci appaiono oggi piuttosto controversi e troppo facilmente soggetti ad abuso. Noi non desideriamo che lo Stato ci imponga una determinata idea del bene. E questo è un problema che si fa ulteriormente manifesto, nel momento in cui si cerca di chiarificare la nozione di "bene" mediante quella di "verità". L'attenzione alla libertà di ciascun individuo ci sembra oggi consistere essenzialmente, e in linea di principio, nel fatto che lo Stato non pretenda di risolvere il problema della verità: la verità - dunque anche la verità circa il bene – non appare conoscibile nella  sfera sociale. Essa è piuttosto controversa. IL tentativo di imporre a tutti ciò che ad una parte dei membri della società sembra essere "verità" è perciò reputato come asservimento delle coscienze: la nozione di verità viene risospinta nel dominio dell'intolleranza e di quanto è profondamente antidemocratico. Essa non è un bene "pubblico", bensì soltanto "privato" o, tutt'al più, un bene "di parte", non universale. In altri termini, la nozione moderna di democrazia sembra essere indissolubilmente legata all'opzione relativista; e il relativismo appare come l'unica vera garanzia della libertà e proprio del suo nucleo essenziale: la libertà religiosa e di coscienza.
Il nucleo non – relativistico della democrazia
Questa è oggi per noi tutti un'evidenza incontrovertibile. Ciò nonostante, ad una più attenta considerazione viene da domandarsi se anche nella democrazia non debba pur esistere un nucleo non – relativistico. Se essa, infatti, non fosse in ultimo compaginata sulla base dei diritti dell'uomo – così che proprio la loro garanzia e salvaguardia ne costituiscono il fondamento più profondo – perché dovrebbe sembra – re qualcosa di cui non si può fare a meno? I diritti umani non stanno in subordine all'imperativo della tolleranza e a quello del pluralismo: essi sono il contenuto della tolleranza e della libertà. Derubare l'altro dei suoi diritti non può mai divenire legittima materia di statuizione positiva e meno che mai essere contenuto della libertà.
Ciò significa che un fondamento di verità – di verità in senso morale – appare irrinunciabile per la stessa sopravvivenza della democrazia. A questo proposito per non entrare in conflitto con l'idea di tolleranza e con il relativismo democratico, oggi si parla più volentieri di "valori" che di "verità". Ma non si può eludere la questione or ora accennata semplicemente con questa traslazione sul piano lessicale: i valori infatti devono la loro inviolabilità sul fatto che essi sono davvero "valori" cioè "principi", e per questo corrispondono alle autentiche esigenze della natura umana.
A maggior ragione dunque è necessario ora chiedersi: come si possono fondare dei valori socialmente ed universalmente validi? O, per esprimerci in una terminologia più attuale: come devono potersi legittimare i valori o principi di fondo, che non soggiacciono al gioco delle maggioranze e delle minoranze? Da quale fonte li attingiamo? Che cosa si sottrae al relativismo, come e perché?
Due orientamenti di fondo radicalmente contrapposti
Questi interrogativi rappresentano il cuore delle odierne discussioni della filosofia politica nella nostra battaglia per un'autentica democrazia. Semplificando un poco, si può dire che sono due gli orientamenti di fondo che si contrappongono: di volta in volta, essi si fanno avanti in diverse versioni, mostrando però anche in parte, significativi punti di contatto.
Sul primo versante troviamo l'opzione radicalmente relativistica, che vuole escludere totalmente dalla sfera politica qualunque pertinenza della nozione di bene (e con ciò a maggior ragione di quella di vero), in quanto pericolosa per la libertà. Il "diritto naturale" viene qui rifiutato come qualcosa che è sospetto di possibili nessi con dottrine metafisiche, per affermare coerentemente un perfetto relativismo. Secondo questo orientamento, non esiste in ultima istanza alcun altro principio della politica che la decisione della maggioranza, la quale nella vita statale occupa il posto che altrove sarebbe della verità. Il diritto dovrebbe essere inteso in una accezione solo ed esclusivamente politica: sarebbe cioè diritto quanto viene statuito come tale dagli organi a ciò preposti. Conseguentemente, della democrazia si dà una definizione non in senso sostanziale, bensì puramente formale: la si concepisce come insieme di regole che rendono possibile la formazione di maggioranze, la rappresentanza dei poteri e l'alternanza dei governi. Essa consisterebbe dunque essenzialmente nei meccanismi della scelta e della votazione.
A questa concezione si oppone diametralmente un'altra tesi, per la quale la verità non è un "prodotto" della politica (cioè della maggioranza), bensì ha un primato su quest'ultima e dunque la illumina: non è la prassi a "creare" la verità, ma è la verità che rende possibile un'autentica prassi. La politica è perciò giusta e favorisce effettivamente la libertà quando si pone al servizio di un insieme di valori  e di diritti che ci vengono attestati dalla ragione. Con l'esplicito scetticismo delle teorie relativistiche e positivistiche troviamo qui invece una fondamentale fiducia nella ragione, in grado di cogliere e mostrare la verità.
Un "osservatorio" privilegiato
Il processo a Gesù è un punto di osservazione molto adatto ad evidenziare i tratti essenziali di entrambe le opzioni – in modo particolare la domanda che Pilato pone al Salvatore: "Che cos'è la verità?" (Gv 18,38).
Nientemeno che Hans Kelsen – il maestro della scienza giuridica, di origine austriaca ma più tardi emigrato in America e considerato tra i più prestigiosi esponenti dell'opzione relativista in senso forte – ha esposto inequivocabilmente la sua concezione in una meditazione su questo testo biblico. Più avanti dovremo ancora tornare sulle tesi di fondo della sua filosofia politica; per ora ci è sufficiente gettare uno sguardo al modo in cui egli interpreta il testo biblico.
Per Kelsen, la domanda di Pilato è l'espressione del necessario scetticismo dell'uomo politico. Perciò la domanda è in qualche misura già anche risposta: la verità è fuori dall'umana portata. Che Pilato la intenda così la si vede dal fatto che egli non ha atteso affatto una risposta, ma si è rivolto invece immediatamente alla folla. In questo modo, secondo Kelsen egli avrebbe sottoposto la decisione del caso controverso al giudizio del popolo. Kelsen è dell'opinione che qui Pilato abbia agito da perfetto democratico. Poiché egli non sa che cosa è giusto, lascia che sia la maggioranza a decidere in merito.
In questo modo, nella esposizione dello studioso austriaco, Pilato diviene una figura emblematica della democrazia relativista e scettica, che non si fonda su valori né sulla verità, bensì sulle procedure. Che nel caso Gesù un uomo giusto e innocente venga condannato non sembra a Kelsen fattispecie che meriti impugnazione. Non esiste affatto alcuna altra verità se non quella della maggioranza. Voler risalire a monte di essa è assurdo. In un punto, Kelsen si spinse addirittura ad affermare che in caso di necessità questa certezza relativistica dovrebbe essere imposta a tutti anche a prezzo di lacrime e sangue; che se ne dovrebbe essere sicuri tanto quanto Gesù era sicuro della sua verità. Del tutto diversa e . anche da un punto di vista politico – molto più convincente è l'interpretazione del medesimo testo proposta dal grande esegeta Heinrich Schlier. Egli fece questo nel momento in cui il mazional socialismo si accingeva a prendere il potere in Germania. La sua interpretazione fu una consapevole contro-testimonianza avverso quei settori della cristianità evangelica che erano disposti a porre "fede" e "popolo" sullo stesso piano.
Schlier fa notare che, nel processo, Gesù riconosce pienamente la potestà giuridica dello Stato romano, rappresentato da Pilato. Ma egli nel contempo la limita, dicendo che Pilato non è titolare in proprio di tale potestà, bensì l'ha "ricevuta dall'alto" (Gv 19,11). Pilato falsa il proprio potere – e così quello dello Stato – nel momento in cui non lo percepisce più come amministrazione fiduciaria di un ordine che riposa su di un piano più elevato e che dipende dalla verità, bensì ne fa uso avendo di mira il suo tornaconto personale. Il governatore romano non si interroga più circa la verità, ma intende il potere come puro potere: "Nello stesso momento in cui legittima se stesso, Pilato dà il proprio assenso all'assassinio legale di Gesù".
                                                                                     Joseph Ratzinger

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