XXXIII Domenica A

 

Ciascuno ha una vocazione da realizzare, dei compiti da assolvere, un ambito in cui agire.

È necessario operare con saggezza, con avvedutezza in costante riferimento a Dio creatore di ogni essere umano non solo degli inizi e quindi come risposta di amore a Lui.

Egli attende ogni creatura in un momento di rendiconto che è non possibile prevedere e al quale pertanto occorre essere sempre preparati.

Ciò impone un'operosità perseverante, che non ceda a sonnolenza o ubriacatura di sorta verso mete temporali.

Un'operosità fruttuosa adeguata, corrispondente alle capacità di ciascuno.

Dio affida i suoi doni, ingenti, perché siano messi a profitto. Doni materiali e doni spirituali, la grazia che Dio aumenta in chi la fa fruttificare e che invece finisce per togliere a chi l'ha sepolta nella neghittosità spirituale.

 

A conclusione del discorso escatologico avviato all'uscita dal tempio di Gerusalemme (Mt 24,1ss.) Gesù aggiunge – secondo la redazione dell'evangelista – tre parabole, con le quali intende icasticamente richiamare ciascuno alle proprie responsabilità in vista della fine dell'esistenza e quindi del giudizio divino. Con la parabola del "servo fedele" (Mt 24, 47-51) ha già affermato che ogni uomo sarà giudicato in base alla fedeltà con cui ha assolto i propri compiti, la propria vocazione; nella parabola delle "vergini sagge e delle vergini stolte" (Mt 25,10-13 - cfr domenica precedente) ha ribadito la necessità di essere sempre pronti all'incontro con il Signore; ora con la parabola dei "talenti" rimarca il dovere dell'operosità, in corrispondenza ai doni del Signore.

Le somme affidate dal padrone ai servi sono veramente cospicue: il talento infatti equivale a circa 35 chilogrammi d'argento oppure a seimila denari (un denaro, all'epoca, è il prezzo di una giornata lavorativa).

Si tratta dunque di un signore indubbiamente generoso, anche nei confronti di chi ha ricevuto un solo talento. È pure saggio e giusto: nella distribuzione della ricchezza e quindi della responsabilità tiene conto delle capacità di ciascuno dei servi.

Due di essi agiscono, appunto, in corrispondenza delle loro capacità, mentre il terzo non fa quanto potrebbe e quindi dovrebbe, quindi non porta a frutto il capitale.

Il tempo a disposizione dei servi è "molto", però viene il giorno in cui il padrone torna e chiede conto dell'operato.

Due servi presentano al padrone una capitalizzazione adeguata al cento per cento: in premio della loro fedeltà "nel poco" (espressione veramente signorile, perché in realtà riferita ad un cospicuo patrimonio) sono ammessi alla "gioia del padrone", cioè a fruire – e in maniera stabile, definitiva – di tutte le sue ricchezze (ovviamente immense, se egli chiama "poco" ciò che ha affidato temporaneamente).

Il terzo servo restituisce al padrone la stessa somma, non fruttificata, per non aver impegnato le proprie capacità personali.

In più pensa di giustificare la sua inattività lucrativa, tacciando il padrone di durezza, di severità esagerata, di sfruttamento indebito ("mieti dove non hai seminato, raccogli dove non hai sparso"). Il padrone allora giudica e condanna il dipendente con le sue stesse parole: lo estromette dalla sua presenza, relegandolo "nelle tenebre" dove non c'è letizia, ma "pianto", né pace, ma disperazione ("stridore di denti").

Il padrone aggiunge che il talento non trafficato venga assegnato al servo che ne ha capitalizzati dieci, quindi con espressione di sapore proverbiale e intenzionalmente scioccante sentenzia: "a chiunque ha, sarà dato e sarà nell'abbondanza, ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha", intendendo che la ricchezza viene accresciuta a chi ha saputo utilizzarla, mentre viene tolta a chi la lascia infruttuosa. Sarebbe ingiusto e poco saggio lasciargliela.

 

Commenti

Post popolari in questo blog

Anglicani

I peccati che mandano più anime all'inferno

Nove mesi di novena alla Madonna, fino al 25 dicembre