Humanae Vitae dopo cinquant'anni

A cinquant’anni dalla pubblicazione dell’enciclica di Paolo VI “Humanae vitae”. “ringrazierete Dio e me”
Da Settimo cielo di Sandro Magister 19 luglio 2018
Erano passati vent'anni dalla pubblicazione di "Humanae vitae" e papa Karol Wojtyla, il 12 novembre 1988, colse l'occasione per difenderla come di più non si può, scolpendo nella roccia parole come le seguenti:
"Non si tratta di una dottrina inventata dall’uomo: essa è stata inscritta dalla mano creatrice di Dio nella stessa natura delta persona umana ed è stata da lui confermata nella rivelazione. Metterla in discussione, pertanto, equivale a
rifiutare a Dio stesso l’obbedienza della nostra intelligenza. Equivale a preferire il lume della nostra ragione alla luce della divina sapienza, cadendo così nell’oscurità dell’errore e finendo per intaccare altri fondamentali capisaldi della dottrina cristiana".
Davanti a lui c'erano vescovi e teologi di tutto il mondo, convenuti a Roma per un grande congresso proprio su "Humanae vitae".
E Giovanni Paolo II volle precisamente individuare e confutare le ragioni che avevano portato tanti teologi e pastori a rifiutare quanto insegnato da Paolo VI in quell'enciclica.
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La prima di queste ragioni – disse – riguarda una sbagliata comprensione del ruolo della coscienza:
"Durante questi anni, a seguito della contestazione di 'Humanae vitae', è stata messa in discussione la stessa dottrina cristiana della coscienza morale, accettando l’idea di coscienza creatrice della norma morale. In tal modo è stato radicalmente spezzato quel vincolo di obbedienza alla santa volontà del Creatore, in cui consiste la stessa dignità dell’uomo. La coscienza, infatti, è il 'luogo' in cui l’uomo viene illuminato da una luce che non gli deriva dalla sua ragione creata e sempre fallibile, ma dalla sapienza stessa del Verbo, nel quale tutto è stato creato. 'La coscienza – scrive mirabilmente il Vaticano II – è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria' (Gaudium et Spes, 16)".
Da ciò – proseguì – scaturisce una cattiva comprensione del magistero della Chiesa:
"Poiché il Magistero della Chiesa è stato istituito da Cristo Signore per illuminare la coscienza, […] non si può, pertanto, dire che un fedele ha messo in atto una diligente ricerca del vero, se non tiene conto di ciò che il Magistero insegna; se, equiparandolo a qualsiasi altra fonte di conoscenza, egli se ne costituisce giudice; se, nel dubbio, insegue piuttosto la propria opinione o quella di teologi, preferendola all’insegnamento certo del Magistero".
Come anche viene intaccata la forza vincolante della norma morale:
"Paolo VI, qualificando l’atto contraccettivo come intrinsecamente illecito, ha inteso insegnare che la norma morale è tale da non ammettere eccezioni: nessuna circostanza personale o sociale ha mai potuto, può e potrà rendere in se stesso ordinato un tale atto. L’esistenza di norme particolari in ordine all’agire intra-mondano dell’uomo, dotate di una tale forza obbligante da escludere sempre e comunque la possibilità di eccezioni, è un insegnamento costante della Tradizione e del Magistero della Chiesa che non può essere messo in discussione dal teologo cattolico".
L'errore è tanto grave – proseguì Giovanni Paolo II – che mette in forse la santità di Dio:
"Si tocca qui un punto centrale della dottrina cristiana riguardante Dio e l’uomo. A ben guardare ciò che è messo in questione, rifiutando quell’insegnamento, è l’idea stessa della santità di Dio. Predestinandoci ad essere santi e immacolati al suo cospetto, egli ci ha creati 'in Cristo Gesù per le opere buone che ha predisposto perché noi le praticassimo' (Ef 2, 10): quelle norme morali sono semplicemente l’esigenza, dalla quale nessuna circostanza storica può dispensare, della santità di Dio che si partecipa in concreto, non già in astratto, alla singola persona umana".
Vanifica la croce di Cristo:
"Non solo, ma quella negazione rende vana la croce di Cristo (cf. 1 Cor 1, 17). Incarnandosi, il Verbo è entrato pienamente nella nostra quotidiana esistenza, che si articola in atti umani concreti; morendo per i nostri peccati, egli ci ha ri-creati nella santità originaria, che deve esprimersi nella nostra quotidiana attività intra-mondana".
E infine comporta la perdita dell'uomo:
"Ed ancora: quella negazione implica, come logica conseguenza, che non esiste alcuna verità dell’uomo sottratta al flusso del divenire storico. La vanificazione del mistero di Dio, come sempre, finisce nella vanificazione del mistero dell’uomo, ed il non riconoscimento dei diritti di Dio, come sempre, finisce nella negazione della dignità dell’uomo".
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In chiusura di questo suo discorso, Giovanni Paolo II esortò i docenti di teologia morale nei seminari a trasmettere con assoluta fedeltà il messaggio di "Humanae vitae". E in particolare affidò tale compito al Pontificio Istituto per Studi su Matrimonio e Famiglia, da lui fondato a Roma pochi anni prima e che proprio in quell'anno, il 1988, aveva creato la sua prima sezione estera, a Washington.

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