Una parola chiara e in piena continuità con il precedente magistero della Chiesa

Si aspetta da papa Francesco, riguardo ai vari tempi discussi dal Sinodo, una parola chiara e in piena continuità con il precedente magistero della Chiesa

Ed ecco la critica del cardinale Sarah al direttore de “La Civiltà Cattolica” in un’ampia intervista raccolta da Armin Schwbach, professore di Filosofia al Pontificio Ateneo Regina Apostolorum di Roma  per l’agenzia austriaca Kath.net e pubblicata da Sandro Magister il 7
dicembre 2015.
D. – Nel suo libro “Dio o niente” lei afferma: “Il divorzio è un’offesa grave alla legge naturale e un’ingiuria all’alleanza di salvezza di cui il matrimonio è il segno”. Uno dei temi che negli anni 2014 e 2015 ha occupato tanti cattolici e molti media secolari sono stati i due sinodi sulla famiglia, durante i quali all’opinione pubblica è stato presentato innanzitutto il problema dei sacramenti per i divorziati risposati.
Secondo lei, per quale ragione si metteva in risalto in maniera così accentuata un tema che mette in pericolo il fondamento dell’intera dottrina cattolica, benché questo secondo le statistiche riguardi soltanto un’esigua minoranza di fedeli?
R. – Perché purtroppo, oggi anche nella Chiesa e tra molti sacerdoti, vescovi e cardinali, si ritiene che per andare incontro ai problemi del mondo ci si debba adeguare ad esso, ignorando la parola senza ambiguità di Gesù sull’indissolubilità del matrimonio e staccando, per misericordia, la pastorale dalla dottrina. E lo si fa per comodità, per non rischiare, per non apparire politicamente scorretti. Questo si chiama mondanità, che è quanto di peggio possa colpire i cristiani, laici o consacrati, ed è il pericolo a cui ci richiama sempre papa Francesco. Consiglio a tutti una bella lettura, il romanzo “Il potere e la gloria” di Graham Greene, per verificare quanto dico. Eppure proprio Gesù ci ha chiesto di essere “nel” mondo, non “del” mondo (Gv 15, 18-21). Oggi anziché affermare la bellezza di un sacramento come il matrimonio, la sua apertura alla vita, l’essere base della società di domani, ci incartiamo sulle cose che non funzionano.
È come se io dicessi che è meglio non costruire una casa per paura del terremoto, pur avendo gli strumenti per prevenirlo e per rendere quella casa più solida. È lo stesso nel matrimonio, che Gesù ha donato all’uomo e alla donna come unione indissolubile con lui. Siamo così terrorizzati dall’avere Dio nella nostra vita, che preferiamo “ucciderlo” per governare tutto da noi stessi, con risultati sconfortanti, come si vede. Purtroppo la cultura positivista ci ha inculcato solamente i criteri dell’opportunità e dell’efficienza, per cui una cosa si fa solo se e finché è utile, e questa utilità è applicata purtroppo anche ai rapporti umani e ai sacramenti. Dall’altro lato un diffuso “umanesimo senza Dio” ci ha inoculato il morbo del sentimentalismo, per cui una cosa va avanti solo finché è sopportabile e finché siamo pervasi dall’afflato dell’emozione e della passione. Passate queste circostanze l’alleanza si può rompere: e non importa che rompendola, noi mettiamo Dio fuori da casa nostra. Ma è uno scandalo che ragioniamo così! Il cristiano ha come proprio riferimento la Croce, che non vuol dire solo la sofferenza, ma il contrario: il dono di sé nell’amore fino alla fine, perché solo questo salva. È chiaro che il Vangelo è esigente: Gesù ci chiede tutto, ma allo stesso tempo ci offre tutto. Ci può essere una realtà più bella di questa?
Invece oggi ci siamo persuasi del fatto che gli uomini non puntino più alle cose alte e durature. E allora, anche nella Chiesa, per comodità e per paura, preferiamo educarli al contingente. E qui veniamo a un altro punto chiave: l’educazione. La Chiesa deve educare alla bellezza e alla scoperta del proprio percorso battesimale, non all’accettazione del male e del peccato. Questo non significa sottovalutare la crisi antropologica in atto. Esattamente il contrario, anzi io dico: e se questo deserto fosse oggi una grazia da sfruttare per tornare ad annunciare Dio e il Vangelo?
D. – In un articolo de “La Civiltà Cattolica” il suo direttore Antonio Spadaro parla in maniera esplicita di una “porta aperta” per l’eucaristia ai divorziati risposati. Il gesuita scrive: “Sarà sempre dovere del pastore trovare un cammino che corrisponda alla verità e alla vita delle persone che egli accompagna, senza poter forse spiegare a tutti perché essi assumano una decisione piuttosto che un’altra. La Chiesa è sacramento di salvezza. Ci sono molti percorsi e molte dimensioni da esplorare a favore della ‘salus animarum’. Circa l’accesso ai sacramenti, il sinodo ordinario ne ha dunque effettivamente posto le basi, aprendo una porta che invece nel sinodo precedente era rimasta chiusa”.
In quanto padre sinodale che conosce i controversi paragrafi 84-86 della “Relatio synodi”: come giudica queste affermazioni di un altro membro del sinodo che interpreta in questo modo i risultati? Il discorso di “aprire una porta” non equivale a un sempre negato “cambiamento” della dottrina sull’indissolubilità del matrimonio, che è impossibile? Affermazioni del genere non aumentano incertezze e perplessità tra i fedeli, come si sono verificate in maniera particolarmente sensibile durante questi due anni?
R. – Il Sinodo ha voluto aiutare e accompagnare questi battezzati che si trovano in una situazione di vita contraria alle parole di Gesù. E ha annunciato che la porta per loro è sempre aperta, in quanto Dio continua a chiamare alla conversione e ad agire nel loro cuore per rigenerare il loro desiderio verso la vita piena che Gesù ci ha annunciato.
Certamente, proporre delle strade che non conducano a questa vita piena non è "aprire le porte". La porta che Dio apre ci conduce sempre a lui, alla sua dimora in cui possiamo vivere la sua vita. Il peccato chiude la porta della vita. Ammettere una persona alla comunione eucaristica quando vive in manifesta contraddizione con le parole di Gesù significa aprire una porta che non conduce verso Cristo, ovvero chiudere la vera porta della vita. Ricordiamo: la porta è Gesù, la Chiesa può solo aprire questa porta; il pastore che non vuole entrare per questa porta, diceva Gesù stesso, non è un vero pastore. Perché “chi non entra nel recinto delle pecore per la porta, ma vi sale da un'altra parte, è un ladro ed un brigante. Chi invece entra per la porta, è il pastore delle pecore... In verità, in verità vi dico: io sono la porta delle pecore” (Gv 10, 1-2. 7).
Il documento del sinodo (nn. 84-86) non dice altro, e il testo scritto è l’unico sicuro per interpretare rettamente ciò che il ainodo ha voluto dire. Il documento parla del dovere del pastore di accompagnare le persone sotto la guida del vescovo, ma aggiunge anche, e questo è molto importante, che l’accompagnamento deve avvenire “secondo l’insegnamento della Chiesa”. Questo insegnamento include senz’altro la lettura non adulterata, ma completa e fedele della "Familiaris consortio" n. 84 e di "Sacramentum caritatis" n. 29, insieme al Catechismo della Chiesa Cattolica. L’accompagnamento, che terrà conto delle circostanze concrete, ha una meta comune: condurre la persona a una vita in accordo con la vita e la parola di Gesù; e alla fine del cammino la decisione di abbandonare la nuova unione o di vivere in assoluta continenza in essa. Rinunciare a questa meta è rinunciare anche al cammino.
È vero che il testo non ripete esplicitamente questo insegnamento, e in questo senso è stato interpretato in diversi modi dalla stampa. Ma è un interpretazione abusiva, ingannatrice, che ne deforma il significato. Il testo non parla mai di concedere l’eucaristia a chi continua a vivere in modo manifestamente contrario ad essa. Se ci sono dei silenzi, essi devono essere interpretati secondo l’ermeneutica cattolica, vale a dire alla luce del magistero precedente e costante, un magistero che il testo mai nega. In altre parole, ai divorziati risposati civilmente la porta alla comunione eucaristica rimane chiusa da Gesù stesso che ha detto: “Chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di concubinato, e ne sposa un’altra, commette adulterio. Perciò l’uomo non separi ciò che Dio ha unito” (Mt 19, 6. 9). È chiusa da "Familiaris consortio" n. 84, da "Sacramentum caritatis" n. 29 e dal Catechismo della Chiesa cattolica. Sfondare questa porta o arrampicarsi da qualche altra parte significa riscrivere un altro vangelo ed opporsi a Gesù Cristo Nostro Signore. Sono sicurissimo che papa Francesco interpreta i numeri 84-86 della “Relatio synodi” in perfetta continuità e fedeltà ai suoi predecessori. Infatti in un intervista al quotidiano argentino “La Nación” ha affermato: “Che facciamo con loro, che porta si può aprire? C’è un’inquietudine pastorale: e allora andiamo a dare loro la comunione? Non è una soluzione dare loro la comunione. Questo soltanto non è la soluzione, la soluzione è l’integrazione”.
È vero che ci sono “molti percorsi e dimensioni da esplorare”, come segnala padre Spadaro. Vorrei solo aggiungere che questi sono percorsi verso una meta, e questa meta per la Chiesa può essere solo una: portare la persona a Gesù, mettere la vita in sintonia con Gesù e con il suo insegnamento sull’amore umano e coniugale. L’accesso all’eucaristia, che è la comunione con il corpo di Gesù, è aperto per tutti coloro che sono pronti a vivere nel loro corpo secondo la parola di Gesù. Se la Chiesa apre la porta verso un'altra meta, verso un altro luogo, allora questa non è la porta della misericordia. Allora si tratterebbe di un vero cambiamento della dottrina, perché ogni dottrina, come quella sull’indissolubilità del matrimonio, è confessata in primo luogo dove l'eucaristia è celebrata. Quando un cristiano dice “Amen” nel ricevere l’eucarestia, egli afferma, non solo che l’eucaristia è il corpo di Gesù, ma anche che vuole conformare a lui la sua vita nel corpo, conformare a Gesù le sue relazioni, perché crede che la parola di Gesù è parola di vera vita.
Questo significa che c’è un cammino, che c’è una speranza anche per chi vive lontano, e questo il sinodo ha voluto ribadirlo. Se queste persone non si sentono pronte a vivere secondo la parola di Gesù, allora è compito della Chiesa ricordare loro, con pazienza, delicatezza, misericordia, che appartengono alla Chiesa, che sono figli di Dio. È compito della Chiesa accompagnarle perché si possano avvicinare a Gesù in tanti modi, partecipando alla celebrazione liturgica, contribuendo alle opere di carità e di misericordia, alla missione della Chiesa... Una volta che sono più vicine a Gesù, potranno capire meglio le sue parole, potranno essere convinte della forza di Dio nella loro vita che rende possibile la conversione, l’abbandono del peccato e la rottura totale con esso.
Certo, l’accompagnamento si fa caso per caso, come anche si fa caso per caso la preparazione al matrimonio. Ma questo non vuol dire che a quelli che si preparano al matrimonio la Chiesa offra diversi tipi di matrimonio, di varia durata secondo i casi individuali. Il matrimonio a cui si preparano è sempre lo stesso, come è sempre la stessa la meta per i divorziati risposati. Ed  è così perché viviamo in comune, non siamo monadi, condividiamo la stessa chiamata alla santità e una stessa vocazione all’amore, quella appunto che è contenuta nel matrimonio monogamico, stabile e indissolubile.
D. – Secondo lei, almeno per quanto è stato presentato dai media, il sinodo è stato troppo determinato da temi europei o tedeschi? Come ha percepito i punti di vista in parte molto eurocentrici e in che cosa vede la possibilità di evitare una riduzione unilaterale della discussione?
R. – Senza voler offendere nessuno, si potrebbe parlare di una presentazione eurocentrica da parte dell’"Istrumentum laboris" e di certi media, non solo perché si sono scelti determinati temi che preoccupano più in Occidente (come la comunione ai divorziati in nuova unione civile), ma soprattutto per una insistenza eccessiva sull’individuo e sulla coscienza soggettiva. Il pericolo di eurocentrismo, in questo senso, vuole dire il pericolo di adeguarsi in modo eccessivo alla prospettiva della modernità o della postmodernità senza Dio, che ormai è globalizzata e che in tanti modi, come ha denunciato papa Francesco nel suo viaggio nelle Filippine, significa per gli altri paesi un “colonialismo ideologico”.
Secondo questa prospettiva “eurocentrica” la famiglia è vista come una realtà privatizzata, misurata solo secondo il desiderio di un soggetto individualista, che riduce l’amore a una emozione. Dare una risposta ai problemi della famiglia da questo punto di vista consisterebbe, come si è fatto, nel sottolineare il primato di una coscienza autonoma, di un soggettivismo della coscienza, che decide da sé. Ecco perché un punto di vista troppo eurocentrico vuole ad ogni costo giustificare situazioni che sono contrarie alla verità del matrimonio, come il concubinato o la convivenza o il matrimonio civile, e vederli come una strada verso la pienezza, invece di riconoscere il male che fanno alla persona, perché possiedono una logica contraria al vero amore. Inoltre, questo sguardo tende a contrapporre l’amore e la verità, la dottrina e la pastorale, secondo un punto di vista dualista che è proprio anche del pensiero postmoderno.
Penso che il sinodo abbia voluto proprio abbandonare questo punto di vista. È proprio nelle altre culture, che sono nelle periferie, che si possono vedere luci nuove per la famiglia, una visione della famiglia al centro della società e della Chiesa. La società e la Chiesa non sono formate da individui, ma da famiglie, da cellule di comunione viva. Questo corrisponde con una visione per così dire “familiare” dell’uomo, che non è coscienza isolata ma vive ricevendo tutto da altri e d è chiamato a donarsi ad altri. Nasce così una fiducia maggiore che l’amore di Dio è capace di rigenerare il cuore delle persone. Si capisce anche meglio che la luce della dottrina è unita alla pratica vitale e al rito liturgico: non è una luce solo teoretica, come l’ha concepita un certo dualismo moderno. Ma questo, in realtà corrisponde al vero pensiero europeo, che ha radici cristiane che l’Europa è chiamata a recuperare, se vuole sopravvivere.


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