'Regolare' il fine vita, l'illusione che accelera la deriva
Una norma più o meno permissiva non fa che sancire la legalizzazione della morte. Ecco perché i cattolici che vorrebbero "frenarla" con una legge finiranno per istituzionarla.
Daniele Trabucco nella "Nuova Bussola" – 2 agosto 2025
L'idea secondo cui una disciplina normativa sul c.d. "fine vita" sarebbe necessaria al fine di garantire certezza giuridica e tutela dei diritti fondamentali, poggia su un presupposto ambiguo e pericoloso: quello secondo cui la giuridicizzazione di una prassi moralmente inaccettabile costituirebbe di per sé una garanzia per il soggetto debole. In realtà, l'approccio filosofico-giuridico al tema della legittimità di una legge sulla morte medicalmente assistita mostra con chiarezza come tale normazione non solo non sia necessaria, ma si riveli anzi lesiva della struttura razionale e naturale del diritto, contribuendo ad accelerare quella deriva post-positivista che ha già mostrato i propri esiti disgreganti nell'evoluzione giurisprudenziale in materia bioetica.
La sentenza n. 242/2019 della Corte costituzionale, con cui si è dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 580 del Codice penale italiano (reato di aiuto al suicidio assistito) nella parte in cui non esclude la punibilità in presenza di determinate condizioni, ha già prodotto un significativo mutamento dell'orizzonte giuridico italiano. Tale mutamento non richiede, né legittima, un intervento legislativo volto a consolidare o definire in via generale una pratica intrinsecamente ingiusta.
Dal punto di vista filosofico, ogni ordinamento giuridico davvero giusto deve tendere alla promozione del bene comune secondo ragione, tutelando la vita umana in ogni sua fase come bene indisponibile, non in quanto feticcio astratto o dogma confessionale, bensì in quanto fondamento ontologico del soggetto di diritto. La vita, quale principio primo e radicale di ogni esistenza personale, non può essere oggetto di un bilanciamento tra interessi, né sottoposta a criteri soggettivistici di qualità o dignità "percepita".
Ogni legge che pretenda di "regolare" il suicidio assistito, pur con limiti e condizioni, finisce per riconoscere in via positiva un preteso diritto a morire, che nega radicalmente il dovere primario dello Stato di proteggere la vita e che trasforma il diritto da ordinamento della giustizia a strumento di legalizzazione della volontà individuale. Dal punto di vista giuridico, il nostro ordinamento già dispone di un sistema (da smantellare) complesso e articolato di fonti e prassi interpretative che, anche in ragione dell'intervento manipolativo del giudice delle leggi, hanno prodotto un assetto normativo sufficientemente chiaro sul punto, senza che vi sia alcun obbligo di intervenire legislativamente.
La cosiddetta "zona grigia", denunciata da alcuni commentatori come fonte di incertezza, è in realtà il frutto della progressiva decostruzione del principio personalista dell'art. 2 Cost., piegato a una visione neo-individualista e autodeterminista, che misconosce il fondamento relazionale e comunitario del diritto stesso. La Corte costituzionale, nel pronunciarsi sul caso Cappato, ha introdotto una serie di condizioni tassative per l'accesso alla non punibilità dell'aiuto al suicidio (paziente affetto da patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, mantenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale).
Eppure questi paletti, presentati come rigorosi, non sono che una soglia transitoria. L'esperienza giurisprudenziale e legislativa dimostra, infatti, che ogni "paletto" fissato in un primo momento viene poi relativizzato e superato in nome della coerenza sistemica e del principio di uguaglianza. Lo si è visto nel caso della legge formale n. 40/2004 inerente alla procreazione medicalmente assistita: nati come presidi di garanzia (divieto di eterologa, limite al numero di embrioni impiantabili, divieto di selezione genetica), i vincoli iniziali sono stati progressivamente demoliti dalla giurisprudenza costituzionale e ordinaria in nome del diritto alla genitorialità, dell'eguaglianza e della non discriminazione.
Ogni volta, la narrazione ha presentato l'allargamento interpretativo come una logica "evoluzione" del diritto, lasciando indietro il riferimento a un fondamento stabile e oggettivo. Allo stesso modo, i paletti introdotti dalla sentenza n. 242/2019 sono, nonostante gli interventi di perimetrazione successivi da parte di Palazzo della Consulta, destinati ad essere erosi. E come per la legge ordinaria dello Stato n. 40/2004, le richieste di estensione giungeranno a partire da casi-limite e situazioni particolari che fungeranno da grimaldello etico.
Di fronte a tale dinamica, è filosoficamente e giuridicamente infondato ritenere che una legge sul "fine vita" possa costituire un argine. Al contrario, l'esperienza dimostra che la legislazione positiva su questioni bioetiche è il primo passo verso una progressiva destrutturazione del limite ontologico. Il diritto, per sua natura, deve essere misura della giustizia e non strumento di trasformazione dell'umano. Una legge che "recepisca" la sentenza n. 242/2019 finirebbe per cristallizzare una visione della persona fondata sulla sovranità assoluta dell'io sul proprio corpo, rafforzando la logica dell'autodeterminazione assoluta e riducendo lo Stato a garante notarile della volontà soggettiva, anche quando autodistruttiva.
Sul piano dell'ordinamento giuridico positivo, il principio di legalità non impone l'adozione di una legge in ogni ambito in cui si registri una pronuncia della Corte costituzionale, nonostante l'invito ad intervenire in questa direzione (si veda, da ultimo, anche la sentenza n. 66/2025). Anzi, proprio l'assenza di una legge consente ancora, in linea di principio, la possibilità di recuperare un'interpretazione conforme alla Costituzione intesa nella sua integralità, cioè in quanto fondata su una visione della persona come essere razionale, relazionale, titolare di diritti che non derivano dalla volontà individuale ma dalla sua intrinseca dignità.
Pertanto, da un punto di vista coerente con il giusnaturalismo classico e con una concezione "boeziana" della persona, l'assenza di una legge sul "fine vita" rappresenta non una lacuna, quanto una resistenza necessaria contro la logica dello smantellamento della tutela oggettiva della vita umana. Ogni tentativo di "regolare" l'eccezione finirà per istituzionalizzarla, accelerando quella deriva per cui ciò che è eccezione diventa norma, ciò che è tollerato diventa diritto, e ciò che è diritto diventa dovere. La presunta necessità di regolare la materia de qua costituisce un cedimento strutturale alla concezione volontaristica del diritto. La vera esigenza del nostro tempo non è quella di legiferare l'ingiustizia in modo ordinato, ma di riscoprire il fondamento oggettivo del diritto nella verità della persona umana. L'assenza di una legge è, in questo senso, l'ultimo presidio contro la legalizzazione della morte. Lo ricordino i "cattolici adulti".
Commenti
Posta un commento