Un libro. Quando Dio non perdona, o ella necessità del pentimento
Fabrizio Cannone nella "Nuova Bussola" – 17 ottobre 2023
Il Paradiso e l'Inferno, la salvezza e la dannazione sono al centro della Rivelazione cristiana, perché il messaggio di Cristo, che invita a convertirsi nella vita presente, è finalizzato all'eternità, la quale per ciascuno di noi inizierà alla fine di questa vita mortale. E lo stesso dicasi per il Giudizio divino (particolare al momento della morte e universale alla fine del mondo). Esso non può essere espunto dall'insegnamento cristiano, e neppure sottaciuto o sostituito con una sorta di auto-giudizio di comodo o un impossibile pentimento post-mortem.
Da moltissimo tempo, però, è proprio quello che si fa e che si sente in molte omelie, prediche e catechesi. E ciò accade in nome di un attributo del Signore, tanto grande e nobile quanto frainteso: la Misericordia. Un teologo dei Missionari di Maria, padre Salvatore Maurizio Sessa, in un libro denso, preciso e controcorrente - Quando Dio non perdona (EDB, 2021, pp. 178) - ci aiuta a fare chiarezza sulla giusta correlazione tra giustizia e misericordia, perdono e castigo, volontà salvifica universale e necessità del pentimento.
Come spiega monsignor Daniele Libanori nella presentazione, «la misericordia non è la negazione della giustizia, non confonde il colpevole con l'innocente». E dunque, «si può parlare di misericordia soltanto nella verità» (p. 7). Del resto, nota sempre il vescovo ausiliare di Roma, «il bisogno di mostrare il volto benevolo del Padre», bisogno sempre urgente e doveroso, «ha lasciato nell'ombra altri aspetti non meno importanti del mistero della salvezza» (p. 8). Come la necessità del pentimento, la richiesta di essere perdonati, per il riscatto delle colpe.
Padre Sessa, che ha raccolto in questo testo alcune riflessioni svolte per la formazione del clero di Roma, entra subito nel vivo chiedendosi: «Dio perdona sempre?» e rispondendo in modo netto: «No, Dio non perdona sempre» (p. 11). Da biblista e docente mostra, attraverso la citazione e la corretta interpretazione di alcuni passaggi chiave dell'Antico e del Nuovo Testamento, la certezza di questa verità assiomatica. Che in fondo è la garanzia ultima della coerenza del cristianesimo, della distinzione radicale tra bene e male e perfino, si potrebbe dire, della "serietà" di Cristo il quale, se minaccia e prospetta castighi ai suoi discepoli, non lo fa a cuor leggero o per celia.
Secondo il teologo è vero che «Dio vuole perdonare sempre», ma è anche vero che nell'economia della salvezza il Signore «non può rendere effettivo tale atto di grazia senza la nostra partecipazione» (p. 12), ovvero senza pentimento. E il pentimento «non può essere imposto in alcun modo dall'esterno, può solo essere favorito, suggerito, sperato, invocato» (p. 59). Imporre il pentimento sarebbe come imporre la fede o la carità: una contraddizione in termini.
La stessa "ira di Dio", espressione presente in molte pagine della Scrittura e che «abbiamo ormai censurato ed estromesso dal panorama dell'attuale catechesi» (p. 13), è finalizzata alla responsabilizzazione e quindi alla salvezza del peccatore, non alla sua perdita. Addirittura, secondo padre Salvatore, il rifiuto (ereticale) del castigo e della dannazione eterna avrebbe portato, «nei testi liturgici attualmente in uso» ad una inconcepibile «soluzione delle forbici». Brani biblici non allineati al perdono gratuito universale e illimitato «vengono il più delle volte sistematicamente tagliati» (p. 36).
Una brevissima digressione teologica. Secondo il Catechismo della Chiesa cattolica la Chiesa «afferma l'esistenza dell'inferno e la sua eternità» (n. 1035). Ammettiamo, per ipotesi, che da Adamo ed Eva sino ad oggi quella triste sorte sia toccata a mille persone: quindi, almeno mille volte, Dio non avrebbe perdonato. E lo stesso ragionamento varrebbe con qualunque altro numero di dannati, numero che, per fortuna, non conosciamo. Se invece Dio perdonasse sempre, cioè anche senza il pentimento del peccatore, come pensano gli ultras della "misericordia", l'Inferno non ci sarebbe. Esso invece è reale e consiste in uno «stato di definitiva auto-esclusione dalla comunione con Dio e con i beati» (CCC 1033).
Negare quindi l'esistenza dell'Inferno o dire che sia vuoto è un palese errore di fede. E lo è anche l'idea che si possa credere o sperare in una salvezza universale di tutti. «Il male - nota padre - Sessa, ha bisogno di autogiustificarsi e tende a organizzarsi in strutture che ne consentano il perpetuarsi» (p. 98). E se tra queste "strutture" ci fosse anche l'ideologia della falsa misericordia che illude i credenti e li conferma nella "via larga"?
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