La Chiesa segno e mistero di fede

Gesù Figlio di Dio assumendo un volto umano è sacramento originario, continua come segno e mistero di fede nella Chiesa come sacramento universale di salvezza: Lui scrive dritto anche su eventuali righe storte dei suoi pur costituiti in autorità

Il venerabile Giuseppe Carraro, vescovo di Verona, ha voluto presentare i sedici documenti conciliari la domenica successiva all’8 dicembre 1965 a conclusione dell’assise,  affermando che l’”ecclesiologia fu al centro di tutto il
Concilio”. Rispetto al passato non ha segnato discontinuità, “antitesi”, bensì sviluppo dinamico, “riequilibrio”: “La Costituzione dogmatica Lumen gentium che la costituzione ci propone non è certamente in antitesi con la Ecclesiologia del Concilio di Trento elaborata dal Bellarmino e presentata nei manuali correnti di teologia, che sottolineavano, in funzione antiprotestante, soprattutto l’aspetto esteriore, giuridico e gerarchico della Chiesa; ma piuttosto il riequilibrio con la sottolineatura sacramentale misterica, dichiarando che il visibile della Chiesa, l’esteriore, l’organizzazione gerarchica e le azioni sono in funzione dell’invisibile (presenza e azione sacramentale del Risorto), dell’interiore, della contemplazione, e che il presente prepara, anticipa significativamnete il futuro” (Carraro).
Tra gli aspetti più innovativi della Lumen gentium c’era nel capitolo secondo la definizione di Chiesa “popolo di Dio”. Essa integrava la sottolineatura apologetica istituzionale giuridica con la concezione che rischiava di identificarla con la gerarchia, il clero, relegando i fedeli laici a un ruolo prevalentemente ricettivo. Carraro scelse questa novità sacramentale di segno e mistero nel capitolo quinto: esso “potrebbe dirsi la ‘chiave di volta’, sul piano esecutivo, di tutta la stessa costituzione, anzi di tutto il movimento rinnovatore nella fedeltà predisposto e promosso dal concilio” cristocentrico. E con una domanda retorica argomentava:
“L’aspetto spirituale e misterioso della Chiesa dove meglio si riflette che nel capitolo quinto, cioè nella esposizione del movimento sacramentale che la fa santa nella sua essenza, e sollecita la santità da parte di tutti i suoi componenti, qualunque sia il loro grado ed ufficio nella grande famiglia cattolica (attorno alla presenza del Risorto, cioè alla continuità dell’incarnazione)?”
“Dottrina nuova la sacramentalità della Chiesa, segno e mistero di fede? No”, insisteva Carraro; piuttosto la più conforme “alle origini”: “in certi periodi storici, per la concomitanza di varie cause che la storia illustra e spiega, la santità apparve condizionata alla vita claustrale. La “novità sacramentale” richiede la consapevolezza del dono della presenza di Cristo unito a tutti e quindi un “esplicito e preciso” impegno.
Joseph Ratzinger in Fede, Ragione, Verità e Amore (pp. 319 -356) offre una panoramica storica dell’ecclesiologia dal Concilio di Trento al Vaticano II. Ritengo utile questo contributo ecclesiologico in un momento in cui si parla di “fedeltà e cambiamento” anziché di “fedeltà e rinnovamento” come risuonava al Concilio
La Chiesa sacramento cioè segno e mistero di fede nella presenza e nell’azione sacramentale in lei per tutti e per tutto.
Pubblicando i suoi celebri scritti polemici sui problemi della fede cristiana, negli anni 1586-1593, e dando inizio così anche al trattato moderno sulla Chiesa, Roberto Bellarmino intese essenzialmente una precisazione e una delimitazione rispetto alla concezione della Riforma su cristianesimo e chiesa. Fu quindi ovvio che contro la nuova dottrina di una essenziale invisibilità della chiesa se ne contrapponesse soprattutto il lato esterno visibile, mediante il quale essa si legittimava anche nell’ordine visibile quale vera chiesa di Gesù Cristo. In effetti è uno dei suoi compiti irrinunciabili l’essere “segno di Dio tra i popoli”, come sottolineò il Concilio Vaticano I nel 1870, che vede in essa l’adempimento della profezia di Isaia: “avverrà in quel giorno: il Signore stenderà di nuovo la mano… Isserà un vessillo per le nazioni e raccoglierà i cacciati di Israele, radunerà i dispersi di Giuda dai quattro angoli della terra” (Is 11, 11 sgg.). La ecclesiologia dell’era moderna si preoccupò quindi soprattutto di dimostrare la visibilità della Chiesa e la sua concentrazione nel papa, di rendere comprensibile la chiesa quale segno visibile di Dio, quale vessillo che Dio issa sul monte santo per indicare la giusta via a tutta l’umanità errante.
Anche se questo fu certo un compito molto necessario, non si disse tutto ciò che della chiesa va detto, anzi, il suo mistero sacramentale più intimo, il suo essere più proprio cioè il rimando alla presenza e all’azione del Risorto in ogni fedele restò inespresso. Sorse così il pericolo che il singolo cristiano intendesse la chiesa come un’organizzazione giuridica, da lui distinta, nella stessa forma in cui egli avverte l’apparato statale come qualcosa di distinto che gli sta davanti. “La chiesa”: questo significava il papa, i vescovi, i sacerdoti: il singolo fedele non era più cosciente del fatto che ogni battezzato è esso stesso come figlio nel Figlio percorso dal flusso di vita di questa chiesa, esso stesso un pezzo di “chiesa”. Sembrò quindi l’inizio di una nuova primavera, una grande e promettente rinascita, quando la nuova generazione dopo la prima guerra mondiale, rifacendosi ad alcuni teologi rimasti isolati del secolo XIX, ridiede vita alla parola del corpo mistico di Cristo e cominciò a vivere decisamente con la nuova consapevolezza: “noi siamo la chiesa, il misterioso corpo sacramentale della presenza e dell’azione continua del Signore”. Romano Guardini disse allora una parola colma di speranza e di ardire: “Ha avuto inizio un processo di portata imprevedibile; la chiesa si ridesta nelle anime”. Da parte protestante, Otto Dibelius parlò del “secolo della chiesa”, e Gertrud von le Fort cantò nei suoi inni imperituri alla chiesa la madre ritrovata, la chiesa cattolica. Si era scoperto che la chiesa non è solo segno di fede, ma anche mistero cioè sacramento di fede, una parte della gloria nascosta di Cristo, e che questo secondo aspetto è ancora più grande del primo.
Dopo la seconda guerra mondiale non ci fu risveglio per questa sensibilità sacramentale. Il posto fu ceduto a un senso di scetticismo, di abbandono e di critica. La critica alla chiesa era ormai quasi parte d’obbligo di un atteggiamento-bene tra quei cristiani, che preferivano ora di nuovo improvvisamente intendere la chiesa come autorità e organizzazione, a cui poter accollare la responsabilità del loro proprio fallire. In questa situazione di disinganno è riservato all’ecclesiologia un nuovo compito. Tutto dipende dal saper vedere nuovamente in unità il lato interno ed esterno della chiesa. Nel primo entusiasmo per la realtà riscoperta della presenza del corpo di Cristo ci si era preoccupati di questa unità. Si cominciò semplicemente ad affiancare al vecchio trattato apologetico della chiesa la  nuova dottrina dogmatica del mistero di fede della chiesa. Sorse però il pericolo di una spaccatura funesta, di una divisione della chiesa in “Chiesa del diritto e Chiesa dell’amore”, come si esprime Rudolf Sohm in una sua ormai celebre definizione. Il termine “corpo d Cristo” rasentò il pericolo di affermare la incorporeità della chiesa. Ma in verità esiste solo una chiesa, indivisibile, che è allo stesso tempo mistero di fede e segno di fede, vita misteriosa del risorto presente e operante in lei e manifestazione visibile di questa vita. Vogliamo sviluppare nelle pagine seguenti questa unità essenziale di visibile e invisibile nella chiesa muovendoci dal centro autentico del suo essere sacramentale.
L’origine della chiesa
Tra i molti complicati problemi, che si ricollegano alla questione della istituzione della chiesa da parte di Gesù, ne possiamo prendere in esame solo una piccola parte, quella cioè, che caratterizza il nucleo della idea di chiesa di Gesù. Che Gesù volesse essere più che un propagandista di una nuova moralità, del resto non impegnante e lasciata all’arbitrio del singolo, che Egli mirasse piuttosto a una nuova comunità religiosa, a un “nuovo popolo”, lo ha fatto capire con un solo semplice gesto, così formulato da Marco: “Chiamò a sé quelli che Egli volle… e ne costituì dodici…” (Mc 3, 13 sgg). Molto prima che esistesse il nome di “apostoli” (che emerse appunto solo dopo la resurrezione), esisteva la comunità dei “dodici”, il cui nome e la cui essenza consisteva precisamente e visibilmente nell’essere “i dodici”. Quanto importante fosse stato quel numero di dodici, lo si vede dai fatti dopo il tradimento di Giuda: gli apostoli (sotto la guida di Pietro) intesero come loro primo compito quello di ristabilire il numero di dodici andato perduto (At 1, 15-16). Quel numero era in effetti per loro tutt’altro che indifferente o casuale. Israele si concepiva ancora sempre come il popolo delle dodici tribù, che sperava appunto per il tempo messianico della salvezza la ricostituzione delle dodici tribù di Israele, derivate un tempo dai dodici figli di Giacobbe-Israele. “Costituendone dodici”, Gesù si professò come il nuovo Giacobbe (in merito anche Gv 1, 51;4, 12 sgg.), che poneva ora il fondamento per il nuovo Israele, per il nuovo popolo di Dio, che da questi dodici progenitori sarebbe cresciuto fino al vero popolo delle dodici tribù attraverso la forza della parola di Dio; e a questi uomini era affidato il compito perenne di diffonderne il seme.
Tutto l’agire di Gesù nella cerchia di questi dodici fu così sempre anche fondamentalmente orientato a impiantare la chiesa, nel senso che tutto mirava a renderli capaci di diventare i padri spirituali del nuovo popolo di Dio. Si è fatto notare che il titolo di Figlio dell’uomo, attribuitosi da Gesù, includeva pure il momento della fondazione della chiesa, poiché questa parola era per sua origine, in Dn 7, un’espressione simbolica per il popolo di Dio negli ultimi tempi. Attribuendola a sé stesso, Gesù si qualifica anche implicitamente come creatore e Signore presente in questo nuovo popolo, cosa per cui la sua esistenza di Verbo incarnato si presenta come rapportata alla chiesa dove continua l’incarnazione. Ci sono però naturalmente determinati momenti della sua vita, nei quali si concentra con particolare chiarezza questo suo intento di istituire una chiesa. Questi momenti sono l’attribuzione a Pietro del potere di legare e sciogliere (Mt 16,18 sgg. e Gv 21,15-17), così come agli stessi apostoli (Mt 18,18), e più ancora l’ultima cena. Si deve intendere l’ultima cena come il vero e proprio atto di istituzione della chiesa sacramentale da parte di Gesù. Certo, c’era già stata la chiamata dei dodici e il particolare innalzamento personale di Pietro: ambedue le cose non vengono eliminate nell’ultima cena, ma presupposte; ambedue hanno però il loro senso autentico e vero solo in forza e alla luce dell’ultima cena poiché solo con l’ultima cena Gesù dà alla sua futura comunità una piattaforma di genere specifico, un evento particolare, che a essa sola è proprio, che la distingue inconfondibilmente da ogni altra comunità religiosa, che unisce i suoi membri e i membri del loro Signore in una nuova comunità come suo corpo. È qui però soprattutto istruttivo il rapporto con la pasqua giudaica. Non sappiamo con sicurezza se la stessa ultima cena di Gesù sia stata un convito pasquale o se Egli fosse già ormai immolato sulla croce nel momento in cui venivano uccisi gli agnelli pasquali. Esiste comunque uno stretto rapporto con la pasqua giudaica: o ha istituito il suo nuovo convito nell’antico convito pasquale, dichiarando così che la sua cena è la vera pasqua, oppure morì egli stesso nell’ora in cui nel tempio scorreva il sangue degli agnelli pasquali, dimostrandosi così con tanta più forza come il nuovo, vero agnello pasquale (cfr. Gv 19,36 e Es 12,46; 1 Cor 5,7). La prima notte di pasqua fu la vera ora di nascita del popolo Israele. Fu la notte, in cui gli angeli di Dio uccisero i primogeniti di Egitto e risparmiarono i figli di Israele, sulle cui porte c’era il sangue dell’agnello (Es 11-12). Ciò diede finalmente al popolo oppresso di Israele la libertà di uscire dall’Egitto e di diventare un popolo indipendente come luce delle genti. Celebrando ogni anno la pasqua, Israele ricordava la sua nascita come popolo, che gli era stata data in tale notte. Pasqua era certo più che un semplice ricordo: era ancora sempre il fondamento originario, di cui in continuità Israele viveva e da cui aveva tratto e traeva la sua unità come popolo di Dio. Esso si sapeva ancora sempre immerso nell’avvento di pasqua, per ricavarne sempre di nuovo la sua fonazione sacramentale. Alla festa di pasqua tutto il popolo di Israele si ritrova da ogni parte nel suo unico tempio, per incontrare qui, in questo solo luogo di culto, il suo Dio ed esperimentarne il centro unificante. “Il culto è nell’antico Israele un fatto creativo, attraverso il quale si rende presente la redenzione storica ed escatologica e Israele viene continuamente creato di nuovo come popolo di Dio”. 
E ora riflettiamo: Cristo si intende il nuovo, vera agnello pasquale, che muore in rappresentanza per tutto il mondo ed eleva quindi la cena, in cui viene mangiata sacramentalmente la sua carne e bevuto il suo sangue, a vero e definitivo convito pasquale. Ciò significa che ora proprio questo convito ciò che fu caratteristico un tempo per la celebrazione giudaica della pasqua. È quindi ovvio che questo convito si presenta come il fondamento originario di un nuovo Israele e come il suo centro sacramentale permanente. Come l’antico Israele venerò allora nel tempio il suo centro e il pegno della sua unità, riproducendo vitalmente questa unità nella celebrazione della Pasqua, così questo nuovo convito deve essere ora il legame di unità di un nuovo popolo di Dio. Non occorre più il centro locale di un unico tempio esterno, poiché il nuovo popolo di Dio ha trovato in questo nuovo convito sacramentale un’unità interna molto più profonda: in questa cena è tra di loro la presenza e l’azione dell’unico e lo stesso Signore, ovunque essi convengano cioè siano chiesa; tutti godono dell’unico Signore, in cui essi così si confondono: il corpo eucaristico del Signore, che è il centro della cena del Signore, è l’unico nuovo tempio, che lega i cristiani di tutti i luoghi e tempi in una unità molto più reale di quanto potesse ottenere il tempio di pietra. Con molta più efficace realtà si può quindi dire della nuova pasqua ciò che già si disse dell’antica: che non solo fu, ma è e rimane fonte e centro sacramentale del popolo di Dio.
Ci si deve qui ancora richiamare a un’altra serie di pensieri, che possono ulteriormente illustrare il tutto. Tanto Matteo e Marco quanto Giovanni tramandano (anche se in diversi contesti) un’affermazione di Gesù secondo cui Egli avrebbe ricostruito in tra giorni il tempio distrutto rimpiazzandolo con uno migliore (Mt 14,58 e Mt 26,61; Mt 15,29 e Mt 27,40; Gv 2,19; Mt 11,15-19; Mt 12,6). Sia nei sinottici che in Giovanni è chiaro che il nuovo tempio “non fatto da mano d’uomo” è il corpo glorificato di Gesù stesso che si fa presente e agisce sacramentalmente. Il senso di tutto il discorso, dopo quanto abbiamo detto finora, può essere soltanto: Gesù annuncia il crollo dell’antico culto e, perciò, dell’antico popolo e dell’antico ordinamento della salvezza, e promette un culto nuovo, più elevato, il cui centro sarà il suo proprio corpo glorificato. In questa luce acquista anche il suo senso preciso la notizia che alla morte di Gesù si è spaccato il velo davanti al Santo dei Santi (Mt 15,38). In questo spaccarsi viene anticipato simbolicamente il crollo dell’antico tempio. Il Santo dei Santi, di cui si spacca il velo, cessa di essere il luogo della presenza di Dio – il tempio ha perso il suo cuore, e il culto che vi si svolge ancora per qualche tempo, è diventato quindi un gesto vuoto. Con la morte di Gesù l’antico tempio e con esso il culto e il popolo, di cui esso è il centro, perdono la loro legittimità; è nato infatti il nuovo culto e il nuovo popolo cultuale di Dio, il cui centro è il nuovo tempio: il corpo glorificato di Gesù, che rappresenta ora il luogo della presenza di Dio tra gli uomini e il suo nuovo santuario.
Si può dire riassumendo: Gesù ha creato una “chiesa”, cioè una nuova, visibile comunità di salvezza. Egli la intende come un nuovo Israele, come un nuovo popolo di Dio, che ha il suo centro nelle celebrazione della cena, da cui è sorto e in cui ha il suo permanente centro vitale. O, detto diversamente: il nuovo popolo di Dio è popolo in forza del corpo di Cristo.
La configurazione del concetto di chiesa in san Paolo
Il problema del concetto di chiesa paolino è straordinariamente ampio e stratificato. Vogliamo solo cercare brevemente di mostrare come Paolo sia rimasto fedele all’idea centrale di Gesù e l’abbia ulteriormente illuminata. Per questo scopo dobbiamo prendere in esame il concetto di “corpo di Cristo”, oggi ancora molto discusso, che Paolo ha coniato per definire la chiesa. Ci limitiamo qui alle lettere principali (soprattutto Rm e 1 Cor, ma anche Gal) e lasciamo da parte il problema particolare posto dalle lettere della cattività (Ef e Col); ma anche per quanto riguarda le lettere principali accenniamo soltanto a punti ben determinati, che rientrano nel nostro tema più stretto. 
Paolo parla esplicitamente della chiesa come “corpo di Cristo” e dei cristiani come “membra di Cristo” in 1 Cor 6,12-20; 10,14-22; 12,12-31; Rm 12,4-8; senza un richiamo esplicito di questi termini si ha pur la stessa realtà in Rm 5,12-21; 6,1-11; 1 Cor 15,21 sgg. 44-49; Gal 3,16.26-28, solo per citare i testi principali.  Se si dà uno sguardo d’insieme a questi testi, se ne possono ricavare tre gruppi riuniti ad altrettanti motivi, che confluiscono chiaramente nel far denominare la chiesa come corpo di Cristo:
- Il motivo delle nozze (vedi soprattutto 1 Cor 6, 12-20). Come uomo e donna, secondo Gn 2,24, diventano “una sola carne” nell’attuare la comunione di amore matrimoniale, così Cristo e il cristiano sono insieme “un solo spirito”, cioè una unica nuova esistenza “spirituale”. Paolo riprende così una immagine, già cara nell’Antico Testamento fin dal tempo del profeta Osea: si era raffigurato il popolo di Dio come sposa di Jahvé  per poter così dichiarare l’idolatria un allontanarsi in prostituzione dalla fedeltà di patto con lo sposo-signore Jahvé. Se ora la comunità dei credenti (non il singolo cristiano) appare quale “sposa” (2 Cor 11,2); Ef 5,22-33), allora ciò significa anzitutto che questa comunità rivendica il diritto di essere il nuovo popolo di Dio, al Nuova Alleanza, la Nuova Storia di amore. Ma l’idea vetero - testamentaria viene notevolmente modificata, poiché ora si dice: la comunità è popolo di Dio per il fatto che è sposa di Cristo e converge a costituire con lui, con il Figlio, l’unità di un unico corpo spirituale. L’antica idea di popolo, che stava un tempo dietro l’immagine della sposa, è così ampiamente abbandonata e superata verso un’unità del tutto nuova: la chiesa è “popolo” in quanto è una cosa sola Con Cristo Gesù, realmente unita a lui.
- Questo dato di fatto risulta ancora più accentuato nel secondo gruppo, imperniato sul motivo del progenitore (Rm 5; 1 Cor 15; Gal 3; vedi anche Rm 4). Cristo viene qui descritto come il progenitore, sia quale nuovo Adamo, sia quale unico seme di Abramo. Per una maggiore comprensione dobbiamo chiarire il concetto giudaico di progenitore. Per il pensiero ebraico il progenitore non è un uomo accanto ad altri, non è uno di una lunga serie, ma è l’unità interna di tutti. Egli li porta tutti in sé. Egli è quasi qualcosa come una realtà collettiva. L’Antico Testamento non conosce l’universale astratto “uomo”, che è un concetto (naturalmente, anche per Platone e ancora per Aristotele era molto più che un semplice concetto), ma piuttosto l’universale concreto “Adamo”, un uomo, nella cui materia corporea dono contenuti tutti gli uomini. Noi tutti fummo realmente “in” Adamo. Tra progenitore e discendenza sussiste la reale unità di un albero: i discendenti sono l’albero che si sviluppa e si ramifica, ma vive tuttavia della radice e resta una cosa sola con essa. In questa luce la stirpe, il popolo, si presenta come “grande personalità”, come unità. L’intero popolo può portare in questa luce il nome di progenitore, esso è “Israele”. In questo senso di radicale unità Cristo viene ora descritto come secondo Adamo: noi siamo con lui un solo nuovo uomo. E si ottiene così infine lo stesso senso di prima: i cristiani sono certo il nuovo popolo di Dio, ma lo sono soltanto in forza dei loro essere una persona sola con Cristo, “figli nel Figlio”. “Poiché voi siete un essere in Cristo Gesù”, dice Paolo (Gal 3,28). Si potrebbe anche dire: i cristiani sono un popolo di Dio soltanto in forza del loro essere corpo di Cristo.
- Finora è ancora sempre rimasto aperto un problema importante, che trova la sua risposta in una terza serie di pensieri. Si può infatti domandare: come si realizza la nostra unità con Cristo? La nostra “unità con Adamo” si fonda sul nostro esistere corporeo, naturale in Lui, sulla nostra derivazione corporea da Lui. Con Cristo non ci unisce niente di simile. Come si attua quindi il nostro divenire una cosa sola con Cristo? Paolo vi risponde con un gruppo di concetti di tipo cultuale (1 Cor 10,14-22; 12,13; Rm 6,1-11). Si potrebbe forse così riprodurre la concezione dell’apostolo: mentre siamo per così dire scaturiti dalla massa corporea di Adamo, siamo ora, viceversa, per coì dire innestati sulla realtà spirituale di Cristo, il secondo Adamo (Rm 11,16-19), risultandone così trasformati in un nuovo organismo, in un nuovo corpo. Questo innesto in Cristo, che è per così dire una nuova nascita, dal momento che ci ricrea in un nuovo Adamo avviene mediante il battesimo (Rm 6,1-11; 1 Cor 12,13 sgg.). E poiché la nascita dello stesso nuovo Adamo avvenne sulla croce, attraverso l’uccisione del vecchio Adamo, la nostra propria rinascita può sempre solo avvenire ogni volta che ci uniamo alla morte in croce di Cristo, la quale significa appunto l’unico e solo punto di penetrazione del nuovo Adamo in questo mondo. La chiesa diviene quindi sempre ancora in forza della croce, e la croce, attualizzata in ogni celebrazione eucaristica, è ancora sempre la fonte della chiesa. Ma con questo non è ancora tutto detto. Si è solo descritto il sorgere della chiesa, si è mostrato come il singolo venga generato nel nuovo Adamo, come venga strappato al suo isolamento e inserito nel corpo di Cristo. Resta però la domanda come attua la chiesa stessa il suo essere chiesa? In che modo resta una cosa sola con il suo Signore, in che cosa consiste la realtà della sua nuova esistenza? Paolo risponde in 1 Cor 10,14-22 e 12,13 sgg: la chiesa è il corpo di Cristo e diventa continuamente nuova forza dell’eucaristia. Nell’eucaristia mangiamo tutti il pane, per sua natura numericamente uno-Cristo, il quale non si lascia assimilare nella nostra sostanza corporea, ma al contrario, ci assimila nel suo corpo e fa così di noi tutti un unico Cristo. “Dal momento che vi è un solo pane, noi, che siamo molti, formiamo un solo corpo” (1 Cor 10,17 sgg.). Siccome la cena eucaristica, attraverso la quale ci si unisce al Signore glorificato, crea questo corpo, si tratta qui appunto del corpo mistico-sacramentale di Cristo. Va qui fortemente sottolineato: Paolo pensa anche qui al corpo di Cristo, non a una comunità, a un corpo che appartiene a Cristo. Per il fatto che i cristiani mangiano dell’unico pane, in cui è presente il Cristo pneumatico cioè risorto, essi diventano un solo corpo, e cioè il suo corpo. Si potrebbe quindi così precisare il rapporto di questo terzo gruppo di concetti, cultuali, con i due precedenti: ciò che costituisce idealmente l’immagine del progenitore, viene realmente attuato nel battesimo: la nostra nuova nascita in Cristo; e ciò che costituisce concettualmente l’immagine della sposa, viene realizzato nell’eucaristia: la nostra unione di amore con Cristo, che ci fa diventare un solo corpo (corpo pneumatico cioè corpo trasfigurato dalla risurrezione) con Lui. 
Ma con questo è raggiunto un risultato molto importante. I tre gruppi concettuali, di cui dovrebbe ora essere apparsa chiaramente l’unità nascosta, lasciano infatti chiaramente capire alla fine: per Paolo la chiesa non è semplicemente corpo “mistico”, ma corpo “vero di Cristo”, o, in termini meno scandalistici: per Paolo l’espressione “corpo di Cristo”, che sono i cristiani, non esprime soltanto un paragone, ma una realtà fondamentale dell’essenza della chiesa. Si è troppo poco preso atto che Paolo non parla mai di “corpo mistico di Cristo”, ma sempre direttamente di “corpo di Cristo”. H. de Lubac ha mostrato inoltre in un’analisi approfondita che l’espressione dell’antichità cristiana e del primo Medioevo era a questo proposito esattamente capovolta rispetto alla nostra. Si intendeva per corpus verum (corpo vero) la chiesa, per corpus mysticum (mistico sacramentale) l’eucaristia. Il pensiero dominante è il seguente: attraverso il suo corpo sacramentale Cristo trae in sé i cristiani che continuano così a portare la sua esistenza attraverso i tempi. Solo in essi si realizza il senso pieno di ciò che Dio aveva inteso con l’incarnazione che continua nel suo corpo che è la chiesa, in essi prosegue l’incarnazione, in essi Gesù diventa pienamente il “Cristo intero”, come dicono i Padri fatto di “capo e corpo”. Quand’anche fosse esagerato in particolari, A. Schweitzer coglie certamente l’essenziale quando afferma che tutti i tentativi di distinguere in Paolo il corpo personale dal corpo mistico di Cristo sono destinati al fallimento. Il corpo di Cristo non ha più senso per Paolo come qualcosa che sussiste di per sé, ma viene preso in considerazione soltanto come il luogo, nella cui luce la morte e la risurrezione, facendo capo a Gesù Cristo passano alla corporeità degli eletti che formano una cosa sola con Lui, così come pure questi non esistono più per sé, ma sono solo più corpo di Cristo: non sono più io che vivo ma Cristo in me, nel nuovo io nel noi della Chiesa. 
Ciò significa in sintesi: “corpo di Cristo” non dice una realtà profonda mistico-invisibile dell’esistenza cristiana, ma è la realtà visibile e constatabile nella celebrazione dell’eucaristia, che parte poi certo di qui verso profondità più grandi. Ma l’essere-corpo-di Cristo della Chiesa ha qui un punto di partenza realmente constatabile, quasi giuridicamente configurabile, in cui esso si concretizza in modo determinante. Se si poté quindi rimproverare al concetto di “corpo mistico”, quale fu inteso tra le due guerre mondiali, e con un certo diritto, di condurre allo spiritualismo, questo rimprovero non può certo valere per l’originario concetto paolino e patristico di corpo di Cristo. E se si vuole sostituire l’immagine di corpo di Cristo, come troppo nebulosa, con il più sobrio concetto  materiale di popolo di Dio, quel vero e autentico concetto di Chiesa, si deve obiettare che “popolo di Dio” soltanto non è in grado di esprimere l’essenza della chiesa neotestamentaria. “Popolo di Dio” fu anche l’antico Israele, e non è solo un caso che Paolo usi questo termine unicamente in citazioni dell’Antico Testamento. La particolare proprietà di questo popolo preciso, ciò che costituisce suo proprio carattere di popolo a differenza non solo dei “popoli del mondo” profani, ma anche della teocrazia politica dell’Antica Alleanza, questo inconfondibilmente nuovo si esprime nel concetto di corpo di Cristo. Come abbiamo visto, la stessa cosa è già espressa chiaramente nell’idea di Chiesa di Gesù stesso, che non si esaurisce nella chiamata degli apostoli e di Pietro, ma ha nell’ultima cena il suo centro evidente. Gesù stesso ha quindi fatto del suo corpo sacramentale il centro modellante della chiesa e ha elevato l’eucaristia a vera e propria attualizzazione di questa chiesa. Nella celebrazione eucaristica, per volontà di Gesù, la comunità di coloro che credono in lui deve sempre di nuovo diventare  ciò che essa è: popolo di Dio in forza del corpo di Cristo. Il concetto che Paolo ha di corpo di Cristo è quindi solo un’esplicazione più precisa e più diffusa dell’idea di chiesa di Gesù stesso. Quanto Gesù ha presentato per così dire in un solo semplice gesto, viene qui approfondito e spiegato. Certo, confluiscono una quantità di nuovi motivi, che non trovano in Gesù nessun riferimento diretto. Ma tutto questo si muove intorno allo stesso centro, che non solo resta invariato, ma acquista ora un’evidenza ancora più spiccata. Dopo quanto abbiamo detto e senza voler imprigionare la pienezza dei motivi paolini in una formula, possiamo così riassumere il nucleo della sua idea di chiesa: la chiesa è quella comunità, che nella visibile e ordinata assemblea di culto conferma e porta a compimento la sua essenza invisibile come corpo di Cristo. 
La voce dei padri
Soprattutto E. Mersch ha dimostrato con una numerosa serie di testimonianze che l’idea della chiesa quale corpo di Cristo ha nel pensiero dei padri un rango dominante. Naturalmente sono molto diverse nei particolari le sfumature, che questo concetto viene ad assumere. Ma il nucleo dell’affermazione resta immutato. I cristiani continuano ad essere intesi come vero corpo di Cristo, cioè come uniti realmente con il Signore, e la celebrazione eucaristica è ancora sempre considerata come la forma concreta di attuazione del nostro essere incorporati in Cristo. Vogliamo fermare l’attenzione su un’idea, che emerge ora in modo particolare: ed è nesso indistruttibile, che viene visto tra l’unità di tutti i cristiani raffigurata nell’eucaristia e l’effettivo amore e concordia tra questi stessi cristiani nella vita quotidiana. Così si esprime Giovanni Crisostomo, rifacendosi direttamente all’affermazione secondo cui “attraverso questo pane” non otteniamo soltanto una “partecipazione”, ma anche una “unione” a Cristo: “Che cos’è il pane? Corpo di Cristo. Non molti corpi, ma un solo corpo. Se esistiamo quindi tutti in forza della stessa cosa e se diventiamo tutti la stessa realtà, perché non riscontriamo allora anche lo stesso amore, perché non diventiamo  anche in questo senso una cosa sola?”. Ciò significa: un fatto così radicalmente sconvolgente come quello di una nostra unità reale in un unico corpo deve avere conseguenze veramente reali nella nostra vita di tutti i giorni. Detto diversamente: se l’essenza dell’eucaristia consiste nell’unirci con Cristo e quindi anche realmente tra di noi, allora questo vuol dire che l’eucaristia non può mai essere semplicemente rito e liturgia, che essa non viene mai celebrata fino in fondo nell’ambito dell’edificio della Chiesa, poiché il semplice amore quotidiano reciproco è esso pure parte essenziale dell’eucaristia, che questa bontà quotidiana è veramente “liturgia” e culto a Dio, anzi, che la liturgia  viene celebrata realmente solo da chi è disponibile a tentare e ritentare di portarla a compimento nel quotidiano culto divino dell’amore fraterno. Ignazio di Antiochia esprime tutto questo in modo inimitabile, quando dice che la fede è il corpo e il sangue di Cristo (Trall. 8,1): indivisibilità di liturgia e vita! Ed è ancora Crisostomo ad affermare che i poveri sono l’altare vivo del sacrificio neotestamentario, fatto con le membra di Cristo. “Questo altare è ancora più impressionante di quello che sta nella nostra chiesa, e non solo di quello dell’Antica Alleanza, dell’Antica Storia di amore. L’altare è qui (nell’edificio della chiesa) miracoloso per l’offerta sacrificale che vi è riposta; quell’altro  -l’altare dell’elemosina – non lo è solo per questo, ma poiché esso stesso è l’offerta sacrificale, che opera una tale santificazione. Di nuovo: l’altare è qui miracoloso, poiché, per quanto sia di pietra per sua natura, diventa santo nel portare il corpo di Cristo; quell’altro altare (cioè, i poveri; potremmo dire in generale: il prossimo) è invece santo, poiché è esso stesso corpo di Cristo”. Ciò significa: la liturgia di Cristo viene attuata in un certo senso più realisticamente nella vita quotidiana che non nella celebrazione rituale. Tommaso d’Aquino ha conservato questa prospettiva dei padri, quando dice che il vero contenuto dell’eucaristia (res sacramenti) è la “comunione dei santi”. O quando afferma in un’altra circostanza: “Nel sacramento dell’altare è significata una doppia cosa, il corpo vero e il corpo mistico di Cristo”. Per i padri, lo ripetiamo ancora una volta, l’amore cristiano della vita di tutti i giorni è una parte essenziale del fatto, del momento eucaristico: soltanto in esso giunge a pienezza l’essere corpo di Cristo dei cristiani, che ha nella celebrazione eucaristica il suo centro determinante, ma proprio anche per questo impegnante.
Riflessioni conclusive
Cerchiamo ora di sintetizzare ancora brevemente in una prospettiva unitaria i diversi elementi ottenuti finora. Se ci muoviamo da quanto abbiamo detto per ultimo, si vede che la celebrazione eucaristica assicura certamente al concetto di corpo di Cristo una piattaforma concreta, difendendolo da una vanificazione spiritualistica e facendone un ordine visibile, una realtà “corporea”. E’ però ugualmente chiaro che essa esclude ogni irrigidimento giuridico e ritualistico e tende con una potente dinamica all’interna e personale pienezza dell’essere cristiano. Qui non esiste più in effetti divisione tra amore e diritto, tra chiesa visibile e invisibile, ma si aggiunge il vero centro della chiesa, in cui i suoi due aspetti, di fatto spesso divergenti, convergono nell’unità.
Non sarebbe difficile derivare di qui i due aspetti della esistenza ecclesiale, assegnando qui la loro sede unitaria. Come il concetto e la richiesta dell’amore derivino di qui e di qui ricavino il loro senso pieno, che si potrebbero facilmente moltiplicare. L’amore, che costituisce l’essenza spirituale del cristianesimo, è radicato nel suo dato più concreto nella celebrazione del corpo di Cristo; e chi lo distacca da questo centro, ne fa uno slogan umanitario non impegnante, che non ha più molto in comune con l’agape intesa da Cristo. Ma da una attenta considerazione della celebrazione eucaristica, non ne risulta soltanto la richiesta dell’amore, ma anche una richiesta di ordine. Proprio Paolo, che non si può certo sospettare di brame gerarchiche (si volle e si vuole sempre ancora trovare in Paolo la chiesa spirituale senza ufficio e istituzione), proprio questo Paolo, discutendo con i Corinzi la celebrazione dell’eucaristia, dovette avanzare una energica richiesta di ordine. E così, una chiesa che alla luce dell’eucaristia si intende come corpo di Cristo, non è solo una chiesa degli amanti, ma, con uguale necessità, una chiesa di ordine sacro, una chiesa strutturata gerarchicamente (gerarchia: ordine sacro). Si deve effettivamente cercare pure qui nella celebrazione eucaristica, la quale fu intesa come il vincolo di unità della chiesa, il più antico spunto di una concezione primaziale, che sembra poi ancora sempre il più indicato a esprimere il senso vero del primato papale e la sua giusta sede teologica…L’antica chiesa ha compreso in queste grandi linee la forma concreta della sua unità: essa era cosciente di sé come comunità della cena. Ogni singola comunità locale intendeva se stessa come rappresentazione, come forma espressiva della “Chiesa di Dio” e celebrava il mistero del corpo di Cristo sotto la presidenza del vescovo e del suo presbiterio. L’unità tra le singole “comunità”, di cui ciascuna si sentiva per suo conto rappresentazione della chiesa intera, non era di natura amministrativa, ma consisteva nel fatto che le singole comunità “comunicavano” tra di loro: e cioè, ammettevano a vicenda alla comunione presso di loro membri di altre comunità che vi fossero presenti. Con gli eretici ( che si trattasse di singoli individui o di comunità) non si comunicava, non erano ammessi a partecipare alla comunione delle comunità ortodosse ed erano esclusi dalla chiesa, dichiarati quali eretici. Viceversa, gruppi eretici formarono tra di loro tali complessi di comunione, che comunicavano appunto soltanto tra di loro e non con la grande chiesa. Ma come si poteva conoscere in un estraneo o pellegrino se appartenesse realmente o meno alla comunione ortodossa?   Qui divenne allora efficiente il principio episcopale di un ordine della celebrazione eucaristica. Il cristiano che si recava in un’altra comunità riceveva dal suo vescovo la lettera di comunione, la quale certificava la sua appartenenza alla comunione della grande chiesa. Come strumento – base per questo procedimento, i singoli vescovi avevano delle liste, su cui erano segnate le comunità appartenenti alla grande comunione ortodossa. E qui Roma valeva sempre, per così dire, quale indice della retta comunione. Era principio: chi comunica con Roma, comunica con la vera chiesa; chi non comunica con Roma, non fa nemmeno parte della retta communio, non è nemmeno membro nel senso pieno del “corpo di Cristo”. Roma, la città dei principi degli apostoli Pietro e Paolo ha la presidenza nella communio generale della chiesa; il vescovo di Roma concretizza e rappresenta l’unità, che la chiesa riceve dall’unica cena del Signore, dell’unica cena di Cristo e quini non è vera la comunione eucaristica. Ma questa unità della cena di Cristo è ordinata e ha il suo supremo punto di unità nel vescovo di Roma, il quale concretizza questa unità, la garantisce e ne conserva la purezza. Chi non è in concordia, si separa da sé dalla piena comunione della chiesa una e indivisibile. La sede teologica del primato è quindi nuovamente l’eucaristia, nella quale ufficio e spirito, diritto e amore hanno il loro centro comune e il loro punto di partenza.
Ambedue le funzioni della chiesa – di essere cioè segno di fede e mistero cioè sacramento universale di fede – hanno quindi la loro sede nell’eucaristia. La chiesa è perciò il popolo di Dio in forza del corpo di Cristo, ove “corpo di Cristo” va sempre inteso nel senso pieno che abbiamo cercato in queste pagine di delineare. Il compito sempre nuovo dei cristiani sarà quindi quello di impegnarsi perché la chiesa non perda mai la sua vera pienezza: l’amore, nel quale si compie ogni giorno di nuovo il mistero del corpo del Signore.
Dopo 55 anni di sacerdozio il venerabile Giuseppe Carraro vescovo di Verona, in una meditazione del 31 marzo 1978 a tredici anni dall’approvazione del Lumen gentium,  propone come lui ha vissuto l’ecclesiologia conciliare
“Donavi, o Dio onnipotente ed eterno di testimoniare nella vita il mistero che celebriamo”. 
Così abbiamo pregato nella colletta di questo venerdì di Pasqua alla pari di tutti i giorni che seguono la grande Solennità. Di quale “mistero” si parla? Del mistero pasquale di Cristo col quale il Padre celeste ha offerto agli uomini nel suo Figlio, il patto, l’alleanza della riconciliazione e della pace.
E tutta la liturgia di questo tempo alleluiatico va, per così dire, ricamando e dipingendo a colori festosi e inneggiando con canti gioiosi, questa realtà dell’amore divino, concretizzata nel Cristo risorto e negli effetti dell’opera redentrice.
Il frutto centrale è la S. Chiesa Sacramento di salvezza, uscita dal cuore di Cristo trafitto, donde sono scaturiti acqua e sangue, Battesimo ed Eucaristia.
La liturgia della Parola di questi giorni, da una parte nella pericope evangelica ci narra fatti, apparizioni, parole e gesti del Divino Risorto che ci rinsaldano nel fondamento incrollabile della nostra fede; dall’altra nel fatto che gli Atti degli Apostoli, ci descrive i primi passi del Sacramento della Chiesa nascente, le prime conversioni, i primi successi ma insieme le prime resistenze, opposizioni, persecuzioni”.

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