La presenza di Cristo negli oranti
Una interpretazione superficiale delle parole evangeliche – “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a
loro” (Mt 18,20) – crea
notevoli equivoci sul valore stesso del radunarsi in orazione e sulle
condizioni della presenza di Cristo negli oranti.
“Il punto di partenza della liturgia
(…) sarebbe costituito dalla riunione di due o tre che stanno insieme nel
nome di Cristo. Questo riferimento alla
promessa del Signore di Mt 18,20 appare a prima vista innocuo e tradizionale.
Acquista però una portata rivoluzionaria per il fatto che quest’unico
testo biblico viene isolato e messo in contrasto con l’intera tradizione
liturgica. Questi ‘due o tre’, infatti, vengono ora messi in
contrapposizione ad un’istituzione con ruoli istituzionali e ad ogni
‘programma codificato’. Conseguentemente tale definizione
significa: non è la
Chiesa a precedere il gruppo, ma il gruppo la Chiesa. Non è la liturgia della
Chiesa come realtà
d’insieme a sostenere la liturgia del singolo gruppo o
della singola comunità, bensì il gruppo è esso stesso il luogo dove di volta in
volta nasce la liturgia. La liturgia pertanto non si
sviluppa neanche partendo da un modello comune prestabilito, da un
‘rito’ (che ora come ‘programma codificato’ assume
l’immagine negativa della mancanza di libertà); essa nasce sul posto
della creatività di quanti sono riuniti (…). L’aver isolato Mt
18,20 dall’intera tradizione biblica ed ecclesiale della preghiera
comunitaria della Chiesa produce (…) conseguenze che vanno lontano: la
promessa del Signore agli oranti di tutti i luoghi viene trasformata nella
dogmatizzazione del gruppo autonomo (…) in tale prospettiva, ogni modello
prestabilito sulla base di una visione d’insieme appare come vincolo
contro il quale bisogna opporre resistenza, per amore della novità e libertà
della celebrazione liturgica. Non l’obbedienza di
fronte ad un tutto unitario, bensì la creatività del momento la forma
determinante” (J. Ratzinger, Opera
omnia, XI, pp.605-607).
“
Una – da Don Enrico Finotti, Vaticano II 50 anni dopo, pp.375-378 - interpretazione
superficiale delle parole evangeliche – “Dove sono
due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Mt 18,20)
– crea notevoli equivoci sul valore stesso del radunarsi in orazione e sullel condizioni della presenza di Cristo negli oranti.
Taluni credono che basti una vaga intenzione soggettiva e una qualunque
convocazione spontanea di due o più nel
nome di Cristo per assicurare comunque la Sua presenza e l’efficacia soprannaturale
della loro preghiera. Con tale pregiudizio ogni preghiera in un qualsiasi
gruppo di fedeli avrebbe la certezza della presenza del Signore e la forza
della sua orazione. In altri termini il fondamento della preghiera cristiana
sarebbe legato semplicemente a una volontà soggettiva degli oranti che si
radunano ‘ nominalmente’ nel nome del Signore. Anzi proprio questa
spontaneità e assenza di regole e di condizioni predeterminate rappresenterebbe
la garanzia più sicura e più autentica della preghiera stessa. In questa luce la liturgia ufficiale, invece, preformata, stabilita e normata, sarebbe la modalità maggiormente inadeguata a
creare le condizioni adatte a quella presenza che il Signore stesso avrebbe
stabilito nei termini di una ben più semplice e immediata realizzazione. La
liturgia della Chiesa allora finisce per essere ritenuta un’inutile
complicazione e un’indebita imposizione in contrasto con quella semplicità
evangelica contenuta nelle parole del Signore. Su questa strada si fugge dalle
determinazioni liturgiche stabilite dalla Chiesa e dal suo magistero per
attingere direttamente alla sorgente individuata nella ‘semplicità’
delle parole del Signore e abbeverarsi, si crede, alle ‘mozioni’
genuine dello Spirito. In questo orizzonte, ingannevole e apparentemente affascinante,
si dà grande importanza a tutto ciò che è spontaneo e anche forti spiritualità
contemporanee pagano il prezzo di questo miraggio (..)La
celebrazione liturgica fedele, nobile, solenne e oggettiva non trova mai motivo
per essere proposta come tale, ma quanto più grande è la circostanza e più
larga la partecipazione tanto più deve subire rifacimenti e alterazioni
conformi, si dice, alle ‘esigenze pastorali’. Non sono neppure
esenti da questa tentazione ormai diffusa e quasi ovvia gli itinerari di
movimenti di impegno e i luoghi a forte richiamo spirituale, che alla legge
liturgica con relative espressioni simboliche – rituali. In questa
situazione i fedeli rischiano di non avere più un incontro regolare o almeno
sufficiente con la ‘forma’ liturgica della Chiesa, ma di ricevere
stimoli esclusivamente da molti surrogati che innervano il tessuto ecclesiale
assumendo i tratti sempre mutevoli delle differenti contingenze. Ma non è così.
E’ assolutamente necessario riflettere sulle condizioni
della presenza di Cristo quando “due o tre”sono riuniti nel mio
nome”. Che cosa significa in realtà “nel mio nome”?
Non bisogna interpretare con frettolosa superficialità questa apparente
facile condizione posta dal Signore, quasi che la si possa
immediatamente comprendere del tutto e sia priva di una profondità che non è
subito e pienamente individuabile. Innanzitutto nel nome di Cristo significa
avere il Suo pensiero, come afferma l’Apostolo: “Ora noi abbiamo il
pensiero di Cristo” (1 Cor 2,16). Ciò implica
condividere la sua dottrina, accettare i contenuti oggettivi della sua parola,
accogliere da Lui stesso il pensiero del Padre dei cieli, quello che il Padre
ha voluto rivelare. Questo significa, in altri termini, avere l’ortodossia
della fede, che è pienamente garantita nell’aderire al pensiero del
Signore, mediante tutto ciò che la
Chiesa, sua sposa, propone di credere. Poi nel nome di Cristo
significa anche avere la sua preghiera, il suo culto, la sua liturgia, il suo specifico
modo di glorificare il Padre. Il nostro culto è fragile, debilitato dal
peccato, radicalmente insufficiente e incapace di penetrare nei cieli ed essere
gradito dalla maestà di Dio. E’ propriamente il culto “in spirito e
verità” (Gv 4,23), che il Figlio ha portato dal
cielo in questa terra d’esilio, che dobbiamo ricevere ed è la presenza in
noi, mediante lo Spirito Santo, di questo culto che ci assicura di essere
convocati nel nome del Signore. La liturgia di Cristo si unisce quindi all’ortodossia
della sua dottrina. Infine nel nome di Cristo significa vivere secondo i suoi
Comandamenti. Infatti, egli afferma, “Chi accoglie i
mie comandamenti e li osserva, questi mi ama” (Gv
14,21). Non vi è riunione vera nel nome del Signore senza condivisione della
sua vita. E’ lo stato di grazia santificante la condizione ultima e piena
per stare insieme nel nome di Cristo. In tal modo si comprende come le tre
condizioni – ortodossia, liturgia e morale (fede professata, celebrata e
vissuta-pregata) –siano indissolubilmente unite e intimamente
condizionate l’una all’altra, al punto che l’assenza di una
sola provoca l’incrinatura grave delle altre. Ed ecco che a questo punto
si può facilmente comprendere come proprio la liturgia della Chiesa sia in
grado di possedere nella maggiore intensità possibile su questa terra queste
tre condizioni, mediante le quali si realizza quella presenza e quel culto
soprannaturale che sono assicurati dalle parole di Cristo: “Dove sono due
o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Mt 18,20). Così si
rovescia l’impostazione iniziale: non più la spontaneità soggettiva, ma
la verifica oggettiva di queste condizioni fondano il culto accetto ed
efficace.
E’
evidente che anche coloro che insistono sul rapporto personale con Cristo,
quasi che questo consentisse un minor controllo delle suddette condizioni
oggettive, non possono riconoscere un’autentica intimità con Cristo senza
la verifica oggettiva dell’adesione al suo pensiero, al suo culto
e ai suoi comandamenti.
E così l’interpretazione
dell’espressione evangelica in spirito e verità, non può
risolversi in una eliminazione o comunque riduzione
delle esigenze intrinseche dell’ortodossia della fede, della liturgia
della Chiesa e della morale evangelica. Proprio la Verità, che è
Cristo e lo Spirito santo sono gli artefici del culto in spirito e verità e
la loro presenza e azione soprannaturali distolgono totalmente da ogni
interpretazione sentimentale, psicologica e soggettiva, che si vorrebbe applicare
indebitamente all’espressione
in spirito e verità.
Rimosse in tal modo queste difficoltà che ancora
oggi insidiano – conclude don Enrico Finotti –
con interpretazioni fuorvianti l’adesione al magistero in nome di una
maggiore ‘autenticità’ incontrata, si dice, fuori dai suoi confini
e libera dai suoi condizionamenti, si auspica un’accoglienza più
convinta e un’attuazione più fedele della liturgia della Chiesa”.
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