Nel nuovo paradigma la famiglia non sempre sul matrimonio

 Il nuovo preside monsignor Sequeri, a proposito del cosiddetto "nuovo paradigma": abbiamo elaborato per tanti anni una teologia del matrimonio, perché abbiamo sempre pensato alla famiglia radicata sul matrimonio naturale e sacramentale; invece oggi dobbiamo pensare alla realtà di famiglia che non sempre nascono dal matrimonio, ci sono tante forme di familiarità e tutte ne hanno dei valori
Mi rifaccio al professor Livio Melina, già preside dell'Istituto ed ex professore ordinario di teologia morale fondamentale della famiglia fondata sul matrimonio cioè sull'amore del creatore e del redentore in LaVerità del 3 agosto 2019
"Licenziato senza potermi difendere. Trattano meglio chi nega la dottrina". Questo sfogo di don Livio Melina mi ha fatto soffrire e mi ha ricordato il dolore del cardinale Caffarra che nella amicizia mi ha confidato prima di morire di dolore
"avrei preferito qualunque accusa, non quella di essere contro il Papa". Il paradigma di Giovanni Paolo II nell'avviare gli studi per la famiglia fondata sul matrimonio naturale e sacramentale cioè sulla verità dell'amore coniugale lo insegnava come decisivo sia per la Chiesa e sia per la società. Direttore del Centro diocesano Giuseppe Toniolo di Verona abbiamo potuto contribuire fin dal 1981 anche durante il referendum che a Verona ha avuto il 78 per la vita diversamente dal 32 per cento a livello nazionale. Qualche settimana prima a Verona abbiamo potuto avere un'intervista al Papa dal suo studio da parte di Telepace con il richiamo all'antropologia cristiana a fondamento della morale per la vita e un'altra da parte  di Caffarra. Totale l'adesione all'Humanae vitae di Paolo VI e come dopo gli anni 90' alla Veritatis splendor di Giovanni Paolo II. Ecco perché l'intervista mi fa rivivere un paradigma ecclesiale proprio di chi punta a non separare mai il Cristo "Maestro" dal Cristo "Pastore", come ci fossero due Gesù.
I sospetti seminati da persone come Moia su "Avvenire" come Melina si permettesse di "correggere" il Papa in merito all'esortazione Amoris laetitia gli ha dato la possibilità di conoscere "la differenza – richiama Melina - tra due parole diverse: 'correggere' e 'interpretare'. Ogni testo ha bisogno di interpretazione, come ci ha insegnato in modo particolare la filosofia contemporanea. Ma l'interpretazione che cerca di essere fedele al testo non è una correzione. Una parte del lavoro teologico è proprio questa interpretazione, che nel caso del Magistero ha, come chiave una lettura in sintonia con il resto dei testi magisteriali. Amoris laetitia, si potrebbe dire, non è un libro in sé, ma un capitolo di un grande libro che nella Tradizione contiene tutti i testi del Magistero. Chi pensa che l'interpretazione di un altro non è vera, deve offrire argomenti, e non accusare di fare una 'correzione', poiché in questo caso ciò che sta facendo colui che accusa è assolutizzare la propria interpretazione, come se fosse l'unica lettura ovvia del testo. Inoltre, nel caso di Amoris laetitia molti hanno preso la strada di interpretarlo come se "superasse" o addirittura "correggesse" altri testi magisteriali, come Familiaris consortio, il Catechismo della Chiesa cattolica oppure Sacramentum caritatis. Parlare di "rottura" e di "rivoluzione" nel Magistero non è linguaggio cattolico. In realtà, c'è una grande libertà nell'interpretare i testi, l'unica vera norma è quella di rispettare la "regola di fede". In altre parole, la cosa essenziale, che si chiede nell'interpretare, è che legga il testo in continuità dinamica con il resto del Magistero anteriore".
E qui Melina affronta la questione dello "sviluppo della dottrina". "Sì, lo sapeva bene il cardinale Newman – continua Melina -, quando determinò come una delle note di un vero sviluppo della dottrina (opposto a una sua corruzione), proprio l'effetto conservatore sul passato. Moia pensa che noi forziamo il testo di Amoris laetitia per adattarlo al resto del Magistero. Ciò che Moia non ci spiega è il modo in cui egli deve forzare (correggere?) il resto del Magistero pontificio per adattarlo alla sua lettura di "Amoris laetitia"".
Si parla tanto di libertà di riflessione teologica (largamente praticata in dissenso alle encicliche Humanae vitae e Veritatis splendor) e si censurano i professori dell'Istituto Giovanni Paolo II. "Quello che si è fatto all'Istituto con vari professori – continua Melina che nel suo ultimo anno è arrivato ad avere 516 studenti a Roma e 3200 distribuiti nel mondo – è una condanna senza giudizio, a partire dai sospetti seminati durante questi anni da parte di persone come Moia. C'è tutto questo paradosso. Alcuni teologi del dissenso alla teologia morale cattolica, che si opponevano chiaramente al Magistero, hanno ricevuto un divieto di insegnare, ma questo è avvenuto dopo un regolare processo, in cui si assegnava loro un difensore e c'era la possibilità di replicare alle accuse. E anche così essi hanno continuato ad accusare la Congregazione per la dottrina della fede di un comportamento ingiusto e abusivo. Nel caso dei professori dell'Istituto Giovanni Paolo II l'accusa non è quella di negare la dottrina cattolica, ma solo non seguire un'interpretazione determinata del Magistero di papa Francesco. Ma, soprattutto, siamo stati privati della nostra cattedra senza possibilità alcuna di difenderci. Il quotidiano Avvenire ha avuto il merito di mettere in luce le vere ragioni del nostro licenziamento, che non ci erano state comunicate, e così ha smascherato la manovra che si vuole portare a termine all'Istituto fondato da san Giovanni Paolo II".
 Ma il paradigma di questa "ristrutturazione" sopprimendo l'orizzonte prioritario della teologia morale fondamentale e speciale con l'antropologia cristiana, l'ontologia della teologia del corpo coniugando tra loro scienze fisiche, psicologiche, sociali nella consapevolezza dell'unità che le tiene insieme, cela un problema importante già profetizzato da Suor Lucia nella lettera a Caffarra. "Infatti – continua Melina – crediamo che la difesa dell'Istituto Giovanni Paolo II tocca tutti, e la sorte dell'Istituto è decisiva per la Chiesa. Se non si revocano le decisioni prese da Paglia, allora si sta dicendo: "E' intollerabile nella Chiesa quell'interpretazione del Magistero di papa Francesco che è in continuità con il Magistero anteriore". Anzi, chi fa questa interpretazione perde perfino il diritto a difendersi in un processo, è semplicemente allontanato, secondo una particolare versione di quella "cultura dello scarto", tante volte condannata dallo stesso Papa Francesco".
Certo oggi, data la fatica del concetto nella ricerca della verità, è molto diffuso il paradigma facile della priorità della pastorale sulla priorità, che va precisata, del paradigma della dottrina in tutta la Tradizione. "E' abbastanza comune oggi questo approccio – continua Melina -, che separa il Cristo "Maestro" dal Cristo "Pastore", come se ci fossero due Gesù. Ma la misericordia di Gesù e la sua pastorale passavano tramite la sua dottrina. Il rapporto tra dottrina e pastorale è stato studiato nella tradizione (37 anni) dell'Istituto Giovanni Paolo II nella prospettiva del rapporto tra verità e amore. La verità, contenuta nella dottrina, è la verità di un amore, e l'amore ha bisogno di verità per superare la mera emozione e durare nel tempo, come ci ha insegnato anche papa Francesco in Lumen fidei".
Si arriva a dire che il vecchio Istituto e la pastorale che scaturiva dal magistero di Giovanni Paolo II fosse fredda e lontana dalle ferite terribili dell'uomo d'oggi, quasi pietre lanciate su chi è da ospedale da campo. "Tutta la visione di san Giovanni Paolo II - continua Melina – nasce da una vicinanza estrema alla situazione di ogni uomo. E questo vuol dire, certo, vicinanza alle sue ferite. Ma vuol dire, soprattutto, vicinanza all'esperienza più originaria di ogni uomo, che non è quella di essere ferito, ma di essere comunque amato da Dio e da lui reso capace di una risposta di amore. La distinzione non è tra chi vede le ferite e chi vede solo le dottrine fredde e, data l'impotenza dell'uomo di farcela da solo, cerca di giustificarlo, da una parte; e chi vede, insieme e prima delle ferite, la grande chiamata di Dio ad ogni uomo e la capacità che ogni uomo ha di tendere ad essere redento da Dio. Da qui scaturiscono due modi di fare pastorale, che sono in contrasto radicale, perché il primo, vedendo solo le ferite insuperabili, cerca di tollerarle: misura l'uomo a partire dalla sua debolezza e dalla sua caduta; e l'altro modo che, vedendo la grande chiamata di Dio, cerca, tenta e ritenta di far maturare ogni uomo perché sia capace di una risposta di amore".
E qui ricordo due interventi: uno di Paolo VI nel 1978 in un incontro personale dopo la sua omelia testamentaria Fidem servavi e quello del 1980 di Giovanni Paolo II a Torino sul paradigma della morale cristiana non come riuscita ma come un tentare ritentare, come tensione lasciandosi continuamente riconciliare, ricreare e ricominciare certi che se trovati in tensione addirittura fino al momento terminale Lui porterà a compimento. Mi incontrai con Paolo VI assieme a Mons. Salvetti con il quale   abbiamo portato avanti l'azione pastorale familiare con il paradigma dei due elementi della Humanae vitae: quello oggettivo dell'atto sessuale mai disgiunto artificialmente all'apertura alla fecondità, indisgiungibile dall'amore nella coniugalità, e nell'invito ai sacerdoti al termine dell'enciclica alla dimensione soggettiva di chi tenta e ritenta senza riuscire. Paolo VI di questo connubio pastorale ci ha ringraziato lamentando che dell'Humanae vitae si sia presentato solo l'elemento oggettivo senza il connubio con l'attenzione al soggettivo. Oggi, con il presunto paradigma di Amoris laetitia attraverso la priorità non della teologia morale ma delle Scienze del Matrimonio e della Famiglia ci si aprirebbe finalmente alla logica del cosiddetto "bene possibile". "Prendo - continua Melina – quello usato dal professor Maurizio Chiodi qualche giorno fa, proprio in una intervista con Luciano Moia. Lì si dice che la vita all'interno di una coppia omosessuale potrebbe essere per una persona in determinate circostanze un bene possibile. La dottrina della Chiesa insegna invece che si tratta di un male, di qualcosa che danneggia la persona che lo compie e lo porta sempre più verso il male. Non si tratta di un contrasto tra due visioni, di cui una sarebbe pastorale e l'altra dottrinale. Si tratta piuttosto di due diagnosi di una situazione, due diagnosi che si aprono a terapie molto diverse. Secondo la prima si potrebbe dire che questa persona, pur compiendo atti omosessuali, sta vivendo secondo il volere di Dio, il quale non ci chiede più di ciò che possiamo. Gli atti che realizza sarebbero umanizzanti, porterebbero addirittura verso il Vangelo, anche se ad un certo punto dovrà rendersi conto che non sono atti perfetti, e che c'è un cammino migliore. La dottrina cattolica, insegnando che si tratta di atti intrinsecamente cattivi, propone una diagnosi e di conseguenza una terapia diversa. Questi atti omosessuali non sono ordinabili a Dio, e quindi non portano verso il bene della persona. Allo stesso tempo dice: ma in te risuona sempre la chiamata ad un amore vero, e tu puoi tentare e ritentare di seguire questo amore, e io sono qui pastoralmente per accompagnarti in questa tensione di conversione, che ti domanda di tentare e ritentare di lasciare dietro di te il male e di abbracciare il bene".

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