La Verità è sintetica

La teologia è a servizio della fede e della Chiesa

L’Editore Cantagalli ha pubblicato un grosso volume La VERITA’ è sintetica. Teologia dogmatica cattolica di Mauro Gagliardi, Professore Ordinario di Teologia Dogmatica presso l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum. Riteniamo utile pubblicare la panoramica iniziale del volume.
Post - Concilio
“Il beato Paolo VI, che pieno di gioia aveva ripreso il Concilio Vaticano II e lo aveva felicemente condotto alla sua conclusione, dovette negli anni seguenti prendere atto che non tutto è poi andato come si sperava. Celebri sono alcune
sue espressioni al riguardo, che non è neanche necessario riprendere, essendo quasi a tutti note. Lo stesso ha rilevato san Giovanni Paolo II in diversi suoi testi ed interventi, come pure Benedetto XVI in qualche occasione.
Nel cinquantesimo anniversario del celebre Discorso alla luna  che san Giovanni XXIII pronunciò all’inizio del Vaticano II, l’11  ottobre 1962, Benedetto XVI, dalla finestra del Palazzo Apostolico, ha detto:
“Cinquant’anni fa, in questo giorno, anche io sono stato qui in Piazza, con lo sguardo verso questa finestra, dove si è affacciato il buon Papa, il beato Papa Giovanni e ha parlato a noi con parole indimenticabili, parole piene di poesia, di bontà, parole del cuore.
Eravamo felici – direi – e pieni di entusiasmo, il grande Concilio Ecumenico era inaugurato; eravamo sicuri che doveva venire una nuova primavera della Chiesa, una nuova Pentecoste, con una nuova presenza forte della grazia liberatrice del Vangelo.
Anche oggi siamo felici, portiamo gioia nel nostro cuore, ma direi una gioia forse più sobria, una gioia umile. In questi cinquant’anni abbiamo imparato ed esperito che il peccato originale esiste e si traduce, sempre di nuovo, in peccati personali, che possono anche divenire strutture del peccato. Abbiamo visto che nel campo del Signore c’è sempre anche la zizzania. Abbiamo visto che nella rete di Pietro si trovano anche pesci cattivi. Abbiamo visto che la fragilità umana è presente anche nella Chiesa, che la nave della Chiesa sta navigando anche con vento contrario, con tempeste che minacciano la nave e qualche volta abbiamo pensato: ‘Il Signore dorme e ci ha dimenticato’” (11.102012).
Naturalmente, nella seconda parte del suo saluto, il Papa ha ricordato anche gli innegabili frutti positivi che ci sono nella vita della Chiesa oggi. Di tutto il bene che c’è stato dopo il Concilio e c’è oggi, non possiamo fare altro che essere grati, perché, come ha detto Benedetto XVI a conclusione del medesimo intervento, ciò è avvenuto e avviene perché ‘il Signore non ci dimentica’.
Eppure è innegabile la difficoltà che la Chiesa sperimenta ormai da alcuni decenni: il calo drastico delle vocazioni (il numero assoluto è stato sempre in aumento, ma in costante diminuzione, se comparato alla curva dell’incremento demografico generale ed ecclesiale), il raffreddarsi della vita di fede, di penitenza e di preghiera, il venir meno della devozione, un’interpretazione quanto mai larga di alcune virtù fondamentali, come si può notare in ampi settori della vita consacrata …ma a tutto ciò e a tanto altro fa da sfondo il vero problema: il venir meno di una visione unitaria e solida sulla fede.
E’ certo che, ‘alla sera della vita, saremo giudicati sull’amore’ (CCC, n. 1022), come si evince da Mt 25. Ma è anche vero che l’amore si vive mettendo in pratica la verità. E’ la mancanza di verità, o forse meglio il disinteresse per essa, che caratterizza larghi settori della Chiesa oggi. La dottrina è ritenuta un elemento di secondo piano nella vita cristiana. Importante sarebbe solo la carità.
Perciò è utile ricordare il passo evangelico in cui un giovane si avvicina a Gesù e gli chiede cosa debba fare per ottenere la vita eterna. E il Maestro gli risponde: ‘Tu conosci i comandamenti … (Mc 10,17-22). Come a dire che, se egli vuol vivere nell’amore, deve conoscere cioè amare la verità. Solo tale conoscenza potrà guidarlo in una vita di carità, che gli otterrà alla fine la vita eterna. Ma oggi: siamo sicuri che tutti i cattolici conoscano cioè amino i comandamenti? Ci sono indizi che lasciano pensare di no. Infatti, è stato comprovato che persino alcuni sacerdoti – i quali ascoltano le Confessioni – interrogati al riguardo, non siano stati in grado di ripetere a memoria i dieci comandamenti.
Ora, nel nostro tempo, forse la teologia può dare una mano, piena di carità, alla Chiesa di cui è ancella, incoraggiando i battezzati a riscoprire la bellezza e l’importanza della verità, che può anche chiamarsi ‘sana dottrina’. Sì, bisogna avere il coraggio di dirlo: abbiamo un estremo, urgente bisogno di ortodossia nella fede!  E abbiamo bisogno, pertanto, di una teologia seria, solida e credente.
Il Santo Padre Francesco, in più di un’occasione, ha invitato a vivere la ‘parresia’, vale a dire la chiarezza nel parlare, orientata all’edificazione dei fratelli. La teologia cattolica oggi deve assolutamente ascoltare questo richiamo del Papa e vivere la parresia nel modo ad essa proprio, quello dottrinale.
La teologia poche volte nella storia è stata lontana dalla vita della Chiesa quanto lo è attualmente. Essa si è ridotta troppo spesso a ciò che il medesimo Papa Francesco ha definito ‘teologia de escritorio’ – teologia da tavolino’:
La Chiesa impegna nell’evangelizzazione, apprezza e incoraggia il carisma dei teologi e il loro sforzo nell’investigazione teologica, che promuove il dialogo con il mondo della cultura e della scienza. Faccio appello ai teologi affinché compiano questo servizio come parte della missione salvifica della Chiesa. Ma è necessario che, per tale scopo, abbiano a cuore la finalità dell’evangelizzazione della Chiesa e della stessa teologia e non si accontentino di una teologia da tavolino’ (Evangelii gaudium, n. 133).
La teologia è a servizio della fede e della Chiesa. Essa, come scienza della fede e della Rivelazione divina, deve offrire strumenti e contenuti per la preservazione e la diffusione di entrambe. Non è sempre facile per un parroco trovare in libreria testi recenti di esegesi (cioè di analisi storico-critica) e di teologia (cioè di interpretazione ecclesiale) che gli forniscano una buona ispirazione per l’omiletica e la catechesi. Cosa che invece non succede leggendo i Padri, i Dottori, o i probati auctores, anche recenti. La scarsa qualità di parecchie omelie e catechesi di oggi  può forse dipendere dalla pigrizia di alcuni, che non si preparano bene, o per nulla. Ma non è solo questa la causa. Molti sacerdoti e catechisti sono coscienziosi e si preparano adeguatamente: il problema in questo caso sono i testi su cui tali volenterosi si preparano. A volte si tratta dei suddetti libri specialistici, che non danno molta luce, anche se offrono molta erudizione o speculazione. Più spesso si leggono sussidi catechistici o pastorali, che rappresentano una traduzione popolare delle correnti teologiche in voga. E anche da questi, anzi ancor meno dai precedenti, si può sperare un’ispirazione positiva per l’evangelizzazione. La teologia è non di rado ripiegata su se stessa, autocompiaciuta, o –per dirlo ancora con Papa Francesco –narcisista. Insomma tutto è, tranne una ancella che serve la fede e la Chiesa.
Il recente Direttorio omiletico cerca di correre ai ripari, collegando la predicazione liturgica ai vari temi insegnati dal Catechismo della Chiesa Cattolica, quasi a ricordare che bisogna predicare l’interpretazione del Vangelo nella forma dottrinale in cui esso viene esposto dalla Chiesa, e non secondo idee personali, fantasiose o alla moda che siano (dando agli esegeti non solo il compito storico-critico ma anche interpretativo). Anche Papa Francesco avverte l’urgenza del problema, al punto di aver dedicato una generosa sezione della sua Esortazione apostolica Evangelii gaudium proprio sul tema dell’omelia e della catechesi.
E d’altro canto, un buon numero di sacerdoti più sensibili, già da tempo avverte il problema. Alcuni si lamentano di non trovare ‘alimento’ un molte pubblicazioni recenti. Certo questo può accadere anche a motivo di un fraintendimento su ciò che bisogna aspettarsi da un libro di teologia. Al di là di questi casi, però, diversi sacerdoti amanti per il proprio ministero anche dello studio e della lettura – che quindi sanno maneggiare i libri – lamentano il problema or ora accennato: per trovare qualcosa che alimenti l’anima e sia utile alla predicazione e alla catechesi, si vedono costretti a rifarsi a pubblicazioni di almeno cinquant’anni fa. Non che questo sia male, naturalmente, ma per quale motivo non dovrebbe essere possibile scrivere oggi dei libri che siano di solida teologia e al contempo orientati all’evangelizzazione, nel senso più consistente dell’espressione?
Fideismo e pragmatismo
Se ciò non viene fatto, il rischio è di avvallare due possibili opinioni erronee. La prima è il fideismo che si riconosce nel credo quia absurdum tertullianeo. La seconda potremmo esprimerla con la formula credo quia practicum. Nel primo caso, il rigetto della teologia è più teorico: la teologia non può conoscere Dio, né farcelo conoscere; quindi essa è una scienza impossibile. Nel secondo caso, la teologia è rigettata per via pastorale: ciò che scrivono i teologi nei libri sarà forse anche vero, ma non serve a niente; quindi la teologia è inutile.
Sul primo di questi due errati atteggiamenti si è espresso Benedetto XVI:
“La tradizione cattolica sin dall’inizio ha rigettato il cosi detto fideismo, che è la volontà di credere contro la ragione. Credo quia absurdum ( credo perché è assurdo) non è formula che interpreti la fede cattolica. Dio, infatti, non è assurdo, semmai è mistero. Il mistero, a sua volta, non è irrazionale, ma sovrabbondanza di senso, di significato, di verità. Se, guardando al mistero, la ragione vede buio, non è perché nel mistero non ci sia luce, ma piuttosto perché ce n’è troppa. Così come quando gli occhi dell’uomo si dirigono direttamente al sole per guardarlo, vedono solo tenebra; ma chi direbbe che il sole non è luminoso, anzi la fonte della luce? La fede permette di guardare il “sole” , Dio, (la sua vita intima trinitaria nell’unico essere divino,) perché è accoglienza della sua Rivelazione nella storia e, per così dire, riceve veramente tutta la luminosità del mistero di Dio, riconoscendo il grande miracolo: Dio si è avvicinato all’uomo, si è offerto alla sua conoscenza, accondiscendendo al limite creaturale della sua ragione” (Udienza generale, 21.11.2012).
“Il Logos diventa carne: ci siamo così abituati a questa parola, che neppure notiamo più la straordinaria, inimmaginabile sintesi divina di ciò che appare separato da un abisso incolmabile e in cui i Padri si sono addentrati passo dopo passo con la loro riflessione. Qui stava e sta la novità propriamente cristiana, che allo spirto greco appariva insensata e impensabile.  Quel che qui si dice non viene da una determinata cultura, quella semitica o quella greca, come oggi si ripete in continuazione senza alcuna approfondita riflessione. Questa sintesi va contro tutte le forme di cultura che noi conosciamo. Per i giudei era altrettanto erronea come lo era, per ragioni del tutto diverse, anche per i greci o per la civiltà indiana o per lo spirito moderno, al quale questa sintesi di mondo fenomenico e noumenale appare del tutto irreale al punto da combatterla con tutta l’autocoscienza critica della razionalità moderna. Quel che qui vien detto è ‘nuovo’, poiché viene da Dio e poteva essere operato solo da Dio stesso. Si tratta di qualcosa di radicalmente nuovo e sconosciuto per tutta la storia e per tutte le culture, in cui noi possiamo entrare nella fede e solo nella fede che ci dischiude orizzonti del tutto nuovi di pensiero e di vita” (Opera Omnia, pp. 293-294).
Quanto al secondo rischio, esso deriva da un atteggiamento molto diffuso: il pragmatismo nella pastorale della Chiesa. A motivo di esso, si ritiene utile solo ciò che produce un fatto immediato, e anche la predicazione e la catechesi spesso non sono più ‘gratuite’, bensì ‘orientate’ ad un problema o ad uno scopo particolare. Ora, è corretto affermare che la verità comporta sempre delle conseguenze in campo pratico, al pari dell’errore. Ma ciò non implica l’inutilità di predicare o spiegare la verità evangelica in modo “gratuito”, cioè per se stessa. Il Verbo (cioè Dio che ha assunto un volto umano e che ci ha amato sino alla fine, l’umanità nel suo insieme e ogni singolo) va predicato per amore del Verbo, non solo per esigenze praxis. Dalla verità, certo, risulta sempre una prassi, ma questo avviene nel modo giusto solo quando il risvolto pratico non è cercato, o almeno non è cercato per primo, (fatto diventare un idolo). Bisogna predicare la fede per la fede (cioè  della Rivelazione della verità della creazione e dell’amore di Dio fino al perdono); per il gusto e il bisogno di far conoscere la Verità divina a tutti, non solo per risolvere ogni volta un problema particolare: (la verità è lo sguardo unitario, di sintesi, alla globalità dei fattori). Quando si orientano la predicazione e la catechesi solo a fini particolari da risolvere, magari in fretta o in modo agevole, avviene una “prostituzione della Parola”. Per quanto l’espressione possa apparire forte, essa è stata pronunciata da Benedetto XVI nell’Omelia della Messa con la Commissione Teologica Internazionale il 06.10.2006:
“Mi viene in mente una bellissima parola della Prima Lettera di san Pietro, nel primo capitolo, versetto 22. In latino suona così: ‘Castificantes animas nostras in oboediantia veritatis’. L’obbedienza alla verità dovrebbe ‘castificare’ la nostra anima, e così guidare alla retta parola e alla retta azione. In altri termini, parlare per trovare applausi, parlare orientandosi a quanto gli uomini vogliono sentire, parlare in obbedienza alla dittatura delle opinioni comuni. È considerato come una specie di prostituzione della Parola e dell’anima”.
 Ma il Vangelo non può essere sottoposto a questo genere di commercio. Ora è chiaro che chi invece pensasse in modo solo pragmatico e impostasse di conseguenza la propria attività pastorale, troverebbe la teologia inutile, (difficile la fraternità e l’unità tra ministri a livello pastorale).
Questi due rischi sono dovuti a mentalità sbagliate, che non dipendono dalla teologia. Ma un certo modo di fare teologia (da circolo ermeneutico anziché dalla metafisica dell’essere secondo la tradizione dogmatica) può incoraggiarli o persino giustificarli. Molta letteratura teologica attuale, di fatto, ha questo effetto. Essa perciò sarà considerata o infondata o superata o inutile. Ma comunque resterà una “teologia da tavolino”. Invece, scrivendo ai futuri sacerdoti, Benedetto XVI aveva raccomandato esattamente di curare la “gratuità” dello studio della teologia, l’unico modo di prepararsi intellettualmente ad un ministero pratico vero, condiviso che sia davvero fecondo:
“Il tempo del seminario è anche e soprattutto tempo di studio.( …) Certo, spesso le materie di studio sembrano molto lontane dalla pratica della vita cristiana e dal servizio pastorale. Tuttavia è completamente sbagliato porre sempre subito la domanda pragmatica (cioè relativa): Mi potrà servire questo in futuro? Sarà di utilità pratica, pastorale? Non si tratta appunto soltanto di imparare le cose immediatamente, evidentemente utili, ma di conoscere e comprendere la struttura interna della fede nella sua totalità (o verità che libera dalla schiavitù dell’ignoranza), così che essa diventi risposta alle domande degli uomini, i quali cambiano, dal punto di vista esteriore, di generazione in generazione, e tuttavia restano in fondo gli stessi. Perciò è importante andare oltre le mutevoli domande del momento per comprendere le domande vere e proprie e capire così anche le risposte come vere risposte” (Lettera ai seminaristi, 18.10.2010, n.5).
Per rimanere al solo caso dell’Italia, la Conferenza Episcopale nazionale ha ammesso che esiste oggi una chiara emergenza educativa. Gli Orientamenti Pastorali dell’Episcopato Italiano per il decennio presente 2010-1020 sono strutturati attorno al tema dell’educazione. La Chiesa in Italia ha preso atto che anche al proprio interno, e non solo nella società occidentale odierna, spesso non si educa più. Emergenza educativa, tradotto in termini più semplici, significa: servono maestri! Tutti conoscono l’espressione di Paolo VI: “L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono testimoni” (Evangelii nuntiandi, n.41). Se è vero che il compito didattico e la testimonianza di vita devono andare insieme, è anche vero che l’indiscriminata ripetizione per quarant’anni ormai, di questa affermazione tanto fortunata ha provocato –magari senza intenzione – una situazione in cui tutti vogliono essere o almeno cercano i testimoni, e nessuno più è stato o ha ascoltato i maestri. Emergenza educativa, dunque: cercansi maestri!
Ecco su cosa dobbiamo impegnare la teologia, oggi: nel recupero del munus docendi nella Chiesa, a tutti i livelli. Non che la Chiesa nel suo insieme l’abbia perso – è chiaro! Ma l’esercizio di tale munus è stato, per così dire, sotto certi aspetti ridotto, anche se a livello materiale si è invece moltiplicato il numero di testi e la mole di documenti di vario genere. Ma noi ci riferiamo al munus docendi come la predicazione, fatta con totale parresia, dello "scandalo" del Vangelo. Abbiamo in altre parole bisogno che lo spirito di San Paolo aleggi di nuovo nella Chiesa. Abbiamo bisogno di Pastori che, ad ogni livello della sacra gerarchia, non si stanchino di dire a tutti, a tempo opportuno e non opportuno (2 Tm 4,2), che noi crediamo davvero in una serie di cose che per i sapienti di questo mondo sono insensate. Noi professiamo con ferma fede e senza dubbio che Dio è uno e trino. Noi crediamo che Dio si è davvero fatto carne da una Vergine. Noi crediamo fermamente che quest’Uomo-Dio ha versato il suo sangue in espiazione dei nostri peccati. Noi crediamo senza tentennamenti  al peccato originale e alle sue conseguenze. Noi crediamo che Cristo è davvero risorto dal sepolcro con il suo corpo fisico e che anche per noi, alla fine die tempi, ci sarà la risurrezione della carne. Noi crediamo senza ombra di dubbio e senza edulcorazione alcuna della fede che nell’Eucaristia validamente consacrata c’è la presenza “vera, reale e sostanziale” del Corpo, Sangue, Anima e Divinità di Nostro Signore Gesù Cristo…
La teologia è oggi capace di esprimersi con questa parresia, con questa chiarezza? Oppure essa si nasconde dietro giri di parole, roboanti e vuote di senso al tempo stesso? I teologi e i Pastori annunciano sempre con tutta franchezza il contenuto  della nostra fede? Nel rito del Battesimo si dice: “Questa è la nostra fede. Questa è la fede della Chiesa e noi ci gloriamo di professarla in Cristo Gesù Nostro Signore”. I libri di teologia attuali corrispondono sempre a questo spirito? La teologia e quindi la pastorale di oggi si gloriano della fede cattolica? Oppure in fondo se ne vergognano? L’Incarnazione, Passione, morte e risurrezione di Gesù, (ascensione presenza e azione sacramentale di Lui vivo attraverso la Chiesa); oppure il dogma della Santissima Trinità ed altri ancora, sono al centro del nostro annuncio, oppure pensiamo che “c’è ben altro” di cui occuparsi? Ci può essere qualcosa di più importante di Dio e della sua verità?  Eppure questa è l’impressione in molti casi: che la fede sia marginale e il resto essenziale, mentre è vero il contrario. Infatti, Cristo mandò gli Apostoli ad evangelizzare nel nome della Trinità ed a battezzare e pascere i popoli (Mt 28,19-20). Il resto è, casomai, secondario, o almeno consequenziale. Si sono rovesciati i parametri.
Teologia “sintetica”
A cosa è dovuto simile rovesciamento? Anche a riguardo a ciò, non ci proponiamo affatto una analisi completa delle cause. Ma limitandoci all’ambito teologico, riconosciamo che la teologia ha una parte di responsabilità in tale rovesciamento. Molti problemi della teologia –e, di riflesso, della predicazione e della catechesi – sono oggi dovuti alla tendenza ad accentuare un aspetto, dimenticando il suo corrispondente “sintetico”, (senza lo sguardo alla totalità dei fattori e quindi alla verità).  Cosa si intenda qui con quest’ultima parola, emergerà dalle pagine seguenti. Per ora soffermiamoci solo a notare che ampi settori della teologia contemporanea hanno commesso quello che potremmo definire un “errore di accento”. Con questa semplice espressione vogliamo che in tempi recenti il discorso teologico è stato sviluppato non sempre scrivendo parole sbagliate (c’è stato abbondante esempio pure di ciò); è bastato anche solo orientarle in un senso errato. Sarebbe come scrivere correttamente una parola dal punto di vista ortografico, pronunciandola però in modo scorretto, ponendo l’accento lì dove esso non cade.
 La teologia contemporanea ha voluto svilupparsi non poche volte come  contraltare delle epoche precedenti e, per far questo, non si accontentata di approfondire le acquisizioni già ottenute, cercando – come è doveroso – di portare avanti l’intelligenza della fede. Essa ha invece voluto sovvertirei paradigmi. Al cambio metodologico è corrisposto un cambio contenutistico, lì dove alle accentuazioni del passato ne sono state sostituite altre, In apparenza, il più delle volte, il discorso resta lo stesso, ma il modo di pronunciarlo (l’orientamento) è radicalmente diverso. A motivo di ciò, anche se l’ascoltatore o il lettore rimane perplesso dal nuovo orientamento, gli è difficile indicare chiaramente l’erroneità dell’esposizione proposta. In termini più semplici e chiari: non pochi avanzano dubbi circa le posizioni di diversi teologi recenti; ma pochissimi si sentono di indicare con certezza dove e qual è l’errore di volta in volta sostenuto. I vari errori od omissioni, d’altro canto, derivano spesso da quello fondamentale, che sopra abbiamo chiamato “errore di accento”: si sottolineano aspetti secondari come se fossero principali, e viceversa si interpretano gli elementi essenziali e primari come se fossero accessori ed opzionali. In base a questo metodo di procedere, poi, non poche volte si finisce per eliminare del tutto, dimenticandolo, l’elemento principale, dopo averlo relegato ad una posizione di secondo piano. Il tutto, però, è fatto in maniera ovattata, quasi indolore.
Chi, oggi, scriverebbe chiaramente che l’Ostia consacrata non è il Corpo di Cristo? Probabilmente nessuno. Ma è sufficiente sviluppare una teologia eucaristica in cui questo punto non è fondamentale e se ne privilegiano altri – importanti, sì, ma come aspetti consequenziali – quali: l’attenzione privilegiata per il corpo sofferente del povero, in cui pure c’è la “presenza” di Gesù; oppure l’amore per il creato, dato che il pane e il vino eucaristici provengono dalla creazione, e via di seguito …Basta dare il primato a ciò che è conseguente, secondario, perché ciò che è in realtà primario scompaia dall’orizzonte. E così, la Chiesa si trasforma davvero in quella ONG di cui Papa Francesco ha parlato, in termini critici, sin dall’indomani della sua elezione:
“Noi possiamo camminare quanto vogliamo, noi possiamo edificare tante cose, ma se non confessiamo Gesù Cristo, la cosa non va. Diventeremo una ONG esistenziale, ma non la Chiesa, Sposa del Signore. Quando non si cammina, ci si ferma. Quando non si edifica sulle pietre cosa succede? Succede quello che succede ai bambini sulla spiaggia quando fanno die palazzi di sabbia, tutto viene giù, senza consistenza. Quando non si confessa Gesù Cristo, mi sovviene la farse di Léon Bloy: ‘Chi non prega il Signore, prega il diavolo’: Quando non si confessa Gesù Cristo, si confessa la mondanità del diavolo, la mondanità del demonio” (Omelia nella S. Messa coi Cardinali, 14.03.2013).
 Dando il primato a ciò che è consequenziale, che è secondario e derivato, e viceversa ponendo in ombra ciò che è più importante, la Chiesa si trasforma in quell’agenzia di servizi nella quale, rispetto alle verità della fede da annunciare, si dice: “c’è ben altro di cui occuparsi” (e la Teologia diventa scienza umana).
Ora, in questo libro noi intendiamo presentare una teologia intesa come rilevazione della “sintesi”, la quale è unione di aspetti che hanno, tra loro, un ordine gerarchico oggettivo; un’unione non estrinsecamente operata, ma che costituisce la realtà (in tutti i fattori) e da essa viene appresa. Vi sono alcuni elementi che sono più importanti di altri. Nonostante ciò, (per la verità) entrambi sono necessari. Tutta la fede, come si vedrà, appare strutturata in questo modo”.
Penso utile aggiungere in questo punto al testo di Gagliardi quanto Benedetto XVI ha detto nel Discorso al Convegno Ecclesiale Nazionale nel 2016 a Verona:
“Come ho scritto nell’Enciclica Deus caritas est, all’inizio dell’essere cristiano – e quindi all’origine della nostra testimonianza di credenti –non c’è una decisione etica o una grande idea, ma l’incontro con la Persona di Gesù Cristo, ‘che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva’ (n.1). La fecondità di questo incontro si manifesta in maniera peculiare e creativa, anche nell’attuale contesto umano e culturale, anzitutto in rapporto alla ragione che ha dato vita alle scienze moderne e alle relative tecnologie. Una caratteristica fondamentale di queste ultime è infatti l’impiego sistematico degli strumenti della matematica per poter operare con la natura e mettere al nostro servizio le sue immense energie. La matematica come tale è una creazione della nostra intelligenza: la corrispondenza tra le sue strutture e le strutture reali dell’universo – che è il presupposto di tutti i moderni sviluppi scientifici e tecnologici, già espressamente formulato da Galileo Galilei con la celebre affermazione che il libro della natura è scritto con linguaggio matematico – suscita la nostra ammirazione e pone una grande domanda. Implica che l’universo stesso sia strutturato in maniera intelligente, in modo che esista una corrispondenza profonda tra la nostra ragione soggettiva e la ragione oggettivata nella natura. Diventa allora inevitabile chiedersi se non debba esservi un’unica intelligenza originaria, che sia la comune fonte dell’una e dell’altra. Così proprio la riflessione sullo sviluppo delle scienze ci riporta verso il Logos creatore. Viene capovolta la tendenza a dare il primato all’irrazionale, al caso e alla necessità, a ricondurre ad esso anche la nostra intelligenza e la nostra libertà. Su queste basi diventa  anche di nuovo possibile allargare gli spazi della nostra razionalità, riaprirla alle grandi questioni del vero e del bene, coniugare tra loro (et-et) la teologia, la filosofia e le scienze, nel pieno rispetto dei loro metodi propri e della loro reciproca autonomia, ma anche nella consapevolezza dell’intrinseca unità (dono del Donatore divino) che le tiene insieme. E’ questo un compito che sta davanti a noi, un’avventura affascinante nella quale spendersi, per dare di nuovo slancio alla cultura del nostro tempo e per restituire in essa alla fede cristiana piena cittadinanza”. E’ un esempio meraviglioso di Teologia oggi.
“La Tradizione di pensiero cattolica contrappone l’altro modello di Cristianesimo occidentale, quello protestante, che invece si rifà all’aut-aut, o “l’uno o l’altro”. Nella visione cattolica, però, scegliere un aspetto ed esaltarlo al punto di negare il suo corrispettivo sintetico è eresia, nel senso etimologico del termine, dal greco, airesis: scelta (cioè senza l’intrinseca unità). In questo senso, pur condividendo l’invito del Concilio Vaticano II ad essere rispettosi nel rivolgerci ai nostri fratelli cristiani separati, bisognerà riconoscere con onestà il carattere “ereticale” soprattutto del Protestantesimo. Senza voler arrecare offesa personale ad alcun fratello protestante – con il quale condividiamo sia elementi fondamentali della fede sia il Battesimo, ed al quale ci unisce la carità di Cristo -, dobbiamo esercitare la parresia evangelica anche nel dire che il modello fondamentale dell’aut-aut, proprio costringendo ad una scelta, è un modello “ereticale”, che non consente quindi una compiuta intelligenza del dato rivelato, come avremo modo di mostrare in seguito.
In tempi recenti, però, anche ampi settori della teologia cattolica si sono più o meno  consapevolmente lasciati condizionare da tale modello. Va detto con convinzione, e non per mera captatio benevolentiae, che la teologia recente ha anche prodotto frutti notevoli e, probabilmente, duraturi. Ad esempio, essa ha cercato di riequilibrare meglio modi di esporre la dottrina, che pure correvano il rischio di essere unilaterali. Così, in teologia morale, vi è stata una certa sottolineatura dell’intenzione del soggetto accanto all’atto compiuto; in teologia sacramentaria e liturgica, un’enfatizzazione della grazia e della partecipazione interiore dei credenti rispetto alla celebrazione rituale; in ecclesiologia, un miglior recupero della componente misterica (di avvenimento) accanto a quella istituzionale, ecc. Ma, nel tentare tale riequilibrio, ci si è spesso spinti all’eccesso opposto. Ora questo, nel contesto attuale, ha prodotto una lettura spiritualistica della fede cristiana, che come ultimo esito, probabilmente non previsto e non voluto, nega la continuità dell’Incarnazione del Verbo. E’ tra l’altro questa la tentazione ricorrente, in ogni epoca, dello Gnosticismo: separare materia e spirito e, di fatto, negare l’Incarnazione.
La suprema sintesi che è stata infranta è allora, prima di ogni al tra, quella tra Dio e uomo in Gesù Cristo, causa e modello di ogni altra composizione sintetica della fede, Staccando il Verbo dalla carne, Gesù è rimasto un uomo palestinese del I secolo, un “profeta apocalittico” vissuto all’epoca del Secondo tempio. La Sacra Scrittura, poi, non è più la “materia” permeata (in continuità dinamica) della presenza invisibile dello Spirito santo che l’ha ispirata, ma resta solo un libro umano, da leggere ed interpretare al pari di tutti gli altri libri antichi del Medio e Vicino Oriente. L’esegesi diviene solo storico – critica, alla ricerca del senso letterale della Bibbia, mentre gli altri sensi della Scrittura sono completamente obliterati. Venuta meno la sintesi tra Spirito e materia, lo scritto rimane un prodotto solo umano e in essi non risuona più la Parola di Dio ( la cui interpretazione è affidata alla Chiesa: l’esegeta non solo analizza criticamente offrendo un contributo ma purtroppo interpreta).
E siccome lo Spirito è così impalpabile, allora è proprio sulla materia che anche la teologia si concentrerà: essa diviene teologia di questo mondo, delle realtà terrestri, della politica, della liberazione sociale, del femminismo… Dio è lassù in cielo, è lontano: occupiamoci della terra! Se la teologia deve essere significativa – questo slogan per la battaglia – allora bisogna occuparsi dell’uomo e del mondo, ( nell’antropocentrismo si pensa che parlare dell’uomo è parlare di Dio). Si può dire che, rotta la sintesi tra Cielo e terra, la teologia  diventa deista: Dio c’è e ha creato il mondo, ma è lontano e non s’interessa di noi (ritorna il deus otiosus dei miti, dei racconti pagani). Dobbiamo dunque pensarci noi. La responsabilità del teologo (e poi del pastore di anime; anzi, nel linguaggio oggi approvato si deve dire: leader di uomini) non è quella di parlare dello “spirituale” e dell’invisibile, ma è di lavorare ad un mondo migliore. Non si tratta di essere divinizzati (come figli nel Figlio e quindi fratelli), ma semmai umanizzati. Ecco il Cristianesimo da ONG, seppur proposto con grande eleganza e annotato a pié di pagina con ammirevole erudizione, da studiosi di grande cultura e di invidiabile intelligenza, messe purtroppo a servizio della causa sbagliata.
L’et – et ci salva da tutto ciò: esso ricorda che sono atteggiamenti errati sia lo spiritualismo che il materialismo, perché Spirito e materia vanno sempre insieme, come in Gesù Cristo, (il Dio che ha assunto un volto umano). E ricorda altresì che lo Spirito viene prima e poi la materia. C’è il primato del divino sull’umano, c’è una gerarchia di valori. Ciò, però, in nessun modo implica che il secondo membro del binomio sia facoltativo. La materia non è opzionale, né il mondo e l’uomo lo sono! Essi, però, nella visione cattolica, sono valorizzati nel giusto modo se rimangono al secondo posto, e Dio al primo: (non anteporre nessuno e niente a Lui). E’ possibile proporre oggi una teologia così? Non solo è possibile, ma è doveroso ed urgente farlo.
Una teologia “sintetica” è capace di notare il nesso tra diversi aspetti che in apparenza si contraddicono, ma in realtà formano insieme la realtà delle cose in tutti fattori; è la verità ontologica e gnoseologica, ossia il vero essere delle cose come sono e come sono da noi conosciute. Sì, perché non bisogna dimenticare che la fede non è solo oscurità; essa è anche sapere e vedere come ricorda il cap. II dell’Enciclica Lumen fidei. E san Paolo poteva affermare “scio cui credidi – Io so a Chi ho creduto” (2 Tm 1,12). La fede è la risposta obbediente alla Rivelazione di Dio. Dio insegna e l’uomo accetta questo insegnamento, fidandosi di Colui che lo impartisce. L’uomo, dunque, impara, e sa ripetere quanto ha imparato. La fede non è solo mistero, ma anche conoscenza, e dobbiamo dire: la fede è anche una serie di nozioni che si conoscono! Anche Martin Lutero (1546), contro Erasmo da Rotterdam, scrive nel De servo arbitrio: “Tolle assrtiones et Christianismum tulisti – elimina le affermazioni nozionali della fede ed hai cancellato lo stesso Cristianesimo”. Non è solo questo (aut – aut), ma è anche questo (et-et). Perciò non fa parte della retta interpretazione della fede l’apofatismo radicale, ossia la tendenza a pensare che, in fondo, di Dio non possiamo sapere ed esprimere alcunché. Se così fosse, perché Dio si sarebbe rivelato? Le parole della Scrittura sono insensate? Oppure dobbiamo dar ragione al Modernismo, per cui le dottrine della fede non sono altro che formulazioni concettuali successive e secondarie, che tendono a tradurre esperienze spirituali previe e fondamentali? Ma questo significa, di nuovo, separare la lettera della Scrittura dallo Spirito divino. La Scrittura, in quest’ottica, resterebbe il prodotto “umano, troppo umano” di un autore o di una comunità, che trascrive in proprie idee, culturalmente determinate, una qualche esperienza del divino, che in altre tradizioni può essere espressa attraverso altri concetti (per cui tutto è relativo). Tutto questo è degno del Dio della Verità? Ed è degno dell’intelligenza che Dio ha dato all’Uomo? Non è invece una visione misera ed ingiusta sia di Dio che della sua creatura.
Se si coltiva l’apofatismo radicale, che in fondo è una forma di relativismo teologico, si finirà per sviluppare anche in teologia il metodo cartesiano del dubbio sistematico (assolutizzando l’ermeneutica anziché la filosofia dell’essere). Ogni affermazione della fede – anche i dogmi – verrà incessantemente sottoposta non a riflessione ed approfondimento (il che è doveroso), bensì a verifica e persino a contestazione. Sarà lecito mettere in dubbio ogni cosa, anche gli articoli del Credo; o almeno sarà lecito proporre nuove “interpretazioni”, che ne cambino anche radicalmente il contenuto. Questo in che modo si armonizza con quel carattere proprio della fede che è la certezza (in continuità dinamica o Tradizione)? Una certezza – si badi – che non è affatto umana, ma divina. L’uomo crede con sicurezza non confidando in sé, bensì in Dio. E’ fondandosi sull’autorità di Dio che egli crede. Perciò la fede non solo è un sapere, ma è un sapere certo. Dubitare delle verità di fede in che modo può essere parte del metodo teologico? Eppure non mancano libri e sussidi pastorali che fanno ciò. Stupisce ancora che molti sacerdoti non riescano a trovarli di vero aiuto nell’opera di evangelizzazione?
Infine, per concludere questo rapido sguardo sulla situazione della fede, della predicazione e della teologia nel nostro tempo, possiamo accennare al problema della frammentazione del sapere. La teologia, alla pari delle altre scienze, ha conosciuto in epoca moderna e contemporanea un’ampia specializzazione, che ha prodotto anche diversi frutti. Ciò che in questo processo è mancato spesso, però, è stata la capacità di condurre a unità i frammenti sparsi. Gli studiosi si sono specializzati su settori sempre più delimitati e ristretti, il che in sé è bene. Ma i  piccoli segmenti devono comunque alla fine comporsi in una figura (se si vuole, nel “poliedro” di cui a volte parla  Papa Francesco in Evangelii gaudium n. 236) (e Paolo VI ci ha lasciato con il Credo del Popolo di Dio) . Ecco perché la teologia, corrispondendo alla natura sintetica della fede, deve essere anch’essa sintetica: non nel senso che debba per forza essere breve, ma che deve mantenere l’organicità del proprio dettato, organicità che –almeno in questa nostra proposta – si fonda su quella caratteristica fondamentale che è espressa dalla bipolarità dell’et-et.
Con ciò non vogliamo qui aprire il discorso sull’opportunità e le modalità di una teologia ”sistematica”: questo termine, infatti, può essere utilizzato in modi anche molto diversi, secondo la matrice filosofica di riferimento. Di certo una sistematica nel senso hegeliano del termine non è affatto quello che noi auguriamo alla teologia cattolica! Più che parlare di sistema, parliamo di organicità. Nella fede vige un fondamentale nexus mysteriorum, detto anche analogia fidei: il fatto che tutti i misteri della fede sono collegati tra loro e raccolti attorno ad un nucleo centrale, come i petali della corolla formano un unico fiore essendo collegati al ricettacolo; o come i raggi del sole.   
La sintesi di cui parliamo non è dunque prodotta da noi speculativamente, bensì costitutiva della fede stessa: è la compresenza e unità di diversi elementi della fede (dogmatica e morale), i quali si raccolgono “gerarchicamente”, ossia “con ordine” attorno al centro, che è Gesù Cristo, il Quale è Unus de Trinitate. Cristo è il principio sintetico della fede e perciò lo sarà anche della teologia.

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