Il magistero cristocentrico di Benedetto XVI è una crescita ecclesiale perenne

Georg Ganswein in "Nient'altro che la Verità" da pag.149 a pag.182  

Un pontificato cristocentrico

Ovviamente non è possibile sintetizzare in poche pagine un Magistero come quello di Benedetto XVI, così denso dal punto di vista qualitativo, come ampio dal punto di vista quantitativo. Però vorrei almeno sottolineare alcuni punti essenziali del pontificato, che già rappresentano la sua più significativa eredità. E il cuore decisivo, a mio parere, è stata la testimonianza cristocentrica nel suo annuncio e nel suo operare.

La parola di Dio è Cristo stesso, che è e deve essere al centro della Chiesa e della sua vita. Considerato sotto questa luce, è cristiano colui che crede in Gesù Cristo e vive un'amicizia personale con Lui. Anche e proprio per questo motivo, un Papa non può precedere il Signore e voler stabilire egli la via che Gesù stesso ha definito. Come ogni cristiano, anzi più di chiunque altro, il Papa deve seguire Cristo, anteponendolo alla propria persona e ai propri interessi e obiettivi.

In questo permanente rimando al Salvatore e all'annuncio cristocentrico, si può individuare il motivo più profondo per cui Benedetto sottrasse al logorante la voro quotidiano del servizio petrino il tempo e l'energia per scrivere il libro in tre volumi su Gesù di Nazaret. Come Pietro a Cesarea di Filippi, a nome di tutti gli apostoli, testimoniò Signore "Messia, Figlio del Dio vivo", così anche Benedetto, come successore di Pietro, ha voluto confessare la personale professione di fede in Cristo nell'odierna Cesarea di Filippi, per convincere gli uomini della verità e della bellezza della fede cristiana, per introdurli a un rapporto personale con il Signore.

Nella testimonianza del Papa per Gesù Cristo si rendono ancora una volta visibili il significato e la necessità del servizio petrino nella Chiesa, cosicché il ministero papale, illuminato dalla luce della fede, appare come dono dello Spirito Santo alla comunità ecclesiale.

Papa Ratzinger è stato fermamente convinto di dover scrivere la trilogia su Cristo come una sintesi della propria visione teologica incentrata sulla convinzione che il messaggio salvifico di Gesù non è semplicemente una dottrina, bensì il concreto incontro con la sua persona, con il Dio che si è realmente fatto uomo e che continua a essere presente in ogni tempo. E lo ha voluto fare firmando con il proprio nome, poiché metteva in gioco l'autorevolezza della competenza e non l'autorità magisteriale.

La cosa per me impressionante era la capacità che manifestava ogni martedì, dopo una settimana di sospensione, quando si sedeva sulla scrivania e riprendeva immediatamente a scrivere seguendo il precedente filo del discorso, come se avesse interrotto il lavoro appena un attimo prima. Scherzando, gli dicevo che il suo modo di agire era come quello di una ricamatrice, che poteva fermare in qualsiasi momento la propria opera per poi riprenderla senza difficoltà. Di fatto, il progetto è diventato una trilogia soltanto perché Papa Ratzinger volle spezzettare l'opera in modo da essere certo di portarne a termine almeno una parte, nella preoccupazione che l'età e le forze non gli consentissero il definitivo completamento.

Come egli stesso scrisse nella premessa al primo volume, la riflessione sul rapporto tra il Gesù della fede e il Gesù della storia rappresentò per lui "un lungo cammino interiore" nella "ricerca personale del volto del Signore". Ripensandoci, mi tornano alla mente le parole pronunciate davanti al Volto Santo durante il pellegrinaggio privato del 1° settembre 2006 nel santuario di Manoppello: "Per "vedere Dio" bisogna conoscere Cristo e lasciarsi plasmare dal suo Spirito che guida i credenti "alla verità tutta intera". Chi incontra Gesù, chi si lascia da Lui attrarre ed è disposto a seguirlo sino al sacrificio della vita, come Egli ha fatto sulla croce, che solo il "chicco di grano" che cade nella terra e muore porta "molto frutto". Questa è la via di Cristo, la via dell'amore totale che vince la morte".

E anche il 2 maggio 2010, nella meditazione dinnanzi alla Sacra Sindone durante la visita pastorale a Torino, sottolineò che "dal buio della morte del Figlio di Dio, è spuntata la luce della speranza nuova: la luce della risurrezione. Ed ecco, mi sembra che guardando questo sacro Telo con gli occhi della fede si percepisca qualcosa di questa luce. […] Questo è il potere della Sindone: dal volto di questo "Uomo dei dolori" - che porta in sé la passione dell'uomo di ogni tempo e di ogni luogo, anche le nostre passioni, le nostre sofferenze, le nostre difficoltà, i nostri peccati -  promana una solenne maestà, una signoria paradossale".

Nel secondo volume, a calamitare l'attenzione di Benedetto fu il tema della risurrezione del Signore, in quanto punto decisivo del cristianesimo: "Se Gesù sia soltanto esistito nel passato o invece esista anche nel presente, ciò dipende dalla risurrezione. Nel "sì" o "no" a questo interrogativo non ci si pronuncia su di un singolo avvenimento accanto ad altri, ma sulla figura di Gesù come tale. […] La fede cristiana sta o cade con la verità della testimonianza secondo cui Cristo è risorto dai morti". Per di più, se commentando l'Ultima Cena il Pontefice aveva già affermato che "con l'Eucaristia, la Chiesa stessa è stata istituita", qui andò ancor più a fondo precisando che "il racconto della risurrezione diviene per se stesso ecclesiologia: l'incontro con il Signore risorto è missione e dà alla Chiesa nascente sua forma".

Insieme con la risurrezione, è la nascita verginale di Gesù il tema più scandaloso per lo spirito moderno. Cosicché nel volume conclusivo della trilogia, quello sull'infanzia di Gesù, Papa Ratzinger volle proporre una convinta dichiarazione: "Naturalmente non si possono attribuire a Dio cose insensate e irragionevoli o in contrasto con la sua creazione. Ma qui non si tratta di qualcosa di irragionevole e di contraddittorio, bensì proprio di qualcosa di positivo: del potere creatore di Dio, che abbraccia tutto l'essere. Perciò questi due punti - il parto verginale e la reale risurrezione dal sepolcro – sono pietre di paragone per la fede. Se Dio non ha anche potere sulla materia, allora Egli non è Dio. Ma Egli possiede questo potere, e con il concepimento e la risurrezione di Gesù Cristo ha inaugurato una nuova creazione. Così, in quanto Creatore, è anche il nostro Redentore. Per questo, il concepimento e la nascita di Gesù dalla Vergine Maria sono un elemento fondamentale della nostra fede e un segnale luminoso di speranza".

Di qui la sua ammirazione e devozione per la Madonna che, nel momento dell'annuncio dell'Angelo, diviene Madre di Dio e della Chiesa esprimendo il suo "sì" a Dio con "l'obbedienza libera, umile e insieme magnanima, nella quale si realizza la decisione più elevate della libertà umana". Per Papa Ratzinger, nell'Immacolata incontriamo l'essenza della Chiesa in modo non deformato" e da Lei "dobbiamo imparare a diventare noi      stessi "anime ecclesiali", così di esprimevano i Padri, per poter anche noi, secondo la Parola di san Paolo, presentarci "immacolati" al cospetto del Signore, così come Egli ci ha voluto fin da principio".

L'evangelico servizio petrino

Vigorosa e ferma in tutto il pontificato è stata la sollecitazione di Benedetto XVI affinché al centro della vita della Chiesa tornasse ad esserci una realtà della quale soltanto la Chiesa conserva l'identità: la Parola di Dio. Essa di certo non risiede semplicemente in un passato lontano, in un mero ricordo storico; piuttosto, la Parola parla "al" e "nel" nostro presente e ci sollecita nel vissuto personale e quotidiano.

Papa Ratzinger si dedicò alla parola di Dio con la coscienza che, come disse nell'omelia della Messa per l'inizio del ministero petrino, egli non si proponeva alcun programma di governo, per lo meno non così come lo si intende comunemente. Piuttosto, vedendo come compito primario del proprio ministero quello di vincolare l'intera Chiesa alla parola di Dio e di garantirne l'obbedienza a essa, egli era cosciente del fatto che il suo primo dovere consisteva nel vivere lui stesso nell'obbedienza esemplare.

Poiché ha amato così tanto la Sacra Scrittura e ha guidato gli uomini, con l'annuncio e la predicazione, alla conoscenza del Vangelo, il suo servizio petrino si è caratterizzato come un pontificato in tutto e per tutto evangelico. Per questo motivo, nell'ultima udienza generale con la quale si congedò come vescovo di Roma, Benedetto poté confessare con franchezza di essere stato accompagnato sempre nel suo ministero di successore di Pietro dalla solida coscienza che "la Parola di verità del Vangelo è la forza della Chiesa, è la sua vita".

Egli intese il pontificato secondo il significato che a esso attribuiva sant'Ignazio di Antiochia, il quale, nella sua lettera ai Romani (circa nell'anno 110), indico e visse la Chiesa di Roma come colei che ha la "presidenza nell'amore", e questo nella  convinzione che la presidenza nella fede e nella sua dottrina  debba essere anche e soprattutto presidenza nell'amore; perché la fede senza amore non sarebbe fede nel Dio biblico e la dottrina della Chiesa raggiunge i cuori degli uomini soltanto se conduce All'amore.

Risplende qui il motivo più profondo per cui i Magistero di Benedetto XVI verità e amore non sono termini in contraddizione, piuttosto si esigono e si alimentano vicendevolmente, poiché la verità senza l'amore può diventare brutale e l'amore senza verità può diventare banale. Papa Benedetto ha, per questo riassunto nella loro unità inscindibile la verità della fede nell'amore di Dio per l'uomo, per ogni uomo comunque ridotto e nell'amore dell'uomo verso Dio verso i fratelli, ponendo tutto il suo pontificato al servizio dell'annuncio di questa fede.

Di fatto il primo Sinodo dei vescovi da lui personalmente indetto ebbe a tema "La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa" (ottobre 2008), con l'esplicito obiettivo di "indicare alcune linee fondamentali per una riscoperta della divina Parola nella vita della Chiesa, sorgente di costante rinnovamento". E nell'esortazione apostolica Verbum Domini, che sintetizzò i frutti di quel dibattito, Benedetto volle una specifica sottolineatura del dovere dei cristiani di annunciare la Parola di Dio nel mondo in cui vivono e operano.

Quattro gli aspetti di particolare attenzione. Innanzitutto, la consapevolezza che la missione della Chiesa ha come punti di partenza e di arrivo il mistero di Dio Padre: la sua Parola coinvolge tutti i battezzati non soltanto come destinatari ma anche suoi annunciatori, e la credibilità dell'annuncio della Buona Notizia dipende dalla testimonianza della vita cristiana. In secondo luogo, l'impegno nel mondo chiede un particolare servizio dei cristiani in favore della riconciliazione, della giustizia e della pace tra i popoli., con una carità operosa e creativa per alleviare le sofferenze, sia materiali sia spirituali, di quanti sono in difficoltà.

Importante, quindi, è il ruolo della parola di Dio nel rapporto con le culture, anche in ambienti secolarizzati e fra i non credenti, poiché la Bibbia è universalmente riconosciuta come un "grande codice" nel quale sono contenuti valori antropologici e filosofici che hanno influito positivamente su tutta l'umanità: di qui l'impegno per l'inculturazione, incrementando anche le traduzioni e la diffusione del testo. Infine, la spinta al dialogo interreligioso, in quanto parte essenziale dell'annuncio della Parola sono l'incontro e la collaborazione con tutti gli uomini di buona volontà, in particolare con le persone appartenenti alle diverse tradizioni religiose dell'umanità, ovviamente evitando forme di sincretismo e di relativismo e includendo sempre un autentico rispetto per la libertà religiosa di ogni persona.

Da quel Sinodo venne un ulteriore impulso: "Il nostro dev'essere sempre più il tempo di un nuovo ascolto della Parola di Dio e di una nuova evangelizzazione. Riscoprire la centralità della divina Parola nella vita cristiana ci fa […] continuare la missio ad gentes e intraprendere con tutte le forze la nuova evangelizzazione". Perciò Benedetto XVI, nel giugno 2010, istituì u Pontificio Consiglio "con il compito preciso di promuovere una rinnovata evangelizzazione nei Paesi dove è già risuonato il primo annuncio della fede e sono presenti Chiese di antica fondazione, ma che stano vivendo una progressiva secolarizzazione della società e una sorta di "eclissi del senso di Dio", che costituiscono una sfida a trovare mezzi adeguati per riproporre la perenne verità del Vangelo di Cristo". Come Pontefice affermò nella prima assemblea plenaria del dicastero, "il Vangelo è il sempre nuovo annuncio della salvezza operata da Cristo per rendere l'umanità partecipe del mistero di Dio e della sua vita di amore e aprirla a un futuro di speranza affidabile e forte. Sottolineare che in questo momento della storia della Chiesa è chiamata a compiere una nuova evangelizzazione vuol dire intensificare l'azione missionaria per corrispondere pienamente al mandato del Signore".

Però mi sembra ancor più interessante e attuale riprendere quanto Benedetto affermò nell'ottobre del 2012, dando avvio al nuovo appuntamento del Sinodo dei vescovi proprio sul tema "Nuova evangelizzazione e trasmissione della fede cristiana". Si trattò di una sintetica ma acuta riflessione sul rapporto far nuova evangelizzazione, evangelizzazione ordinaria e missione ad gentes, "tre aspetti dell'unica realtà di evangelizzazione che si completano e fecondano a vicenda".

Però all'origine, chiarì, c'è sempre l'iniziativa dall'Alto: "La Chiesa non comincia con il "fare" nostro, ma con il "fare" e il "parlare" di Dio. Se Dio non agisce, le nostre cose sono solo le nostre e sono insufficienti; solo Dio può testimoniare che è Lui che parla e ha parlato. Pentecoste è la condizione della nascita della Chiesa: solo perché Dio prima ha agito, gli apostoli possono agire con Lui e con la sua presenza e far presente quanto fa Lui. Dio ha parlato e parla nella lettura della Bibbia e questo "ha parlato" e "parla" è il perfetto della fede, ma è sempre anche un presente: il perfetto di Dio non è solo un passato, perché è un passato vero che porta sempre in sé il presente e il futuro.

Il ministero dell'annuncio

  Già da professore e da cardinale, Ratzinger aveva ben chiaro il compito specifico del suo ministero, sempre a servizio della fede e della verità. Ancor più da papa maturò questa consapevolezza, come dichiarò esplicitamente a san Giovanni in Laterano il 7 maggio 2005, durante la celebrazione di insediamento sulla Cathedra romana quale vescovo di Roma: "La Cattedra è il simbolo della potestas docendi, quella potestà di insegnamento che è parte essenziale del mandato di legare e sciogliere conferito dal Signore a Pietro e, dopo di lui, ai Dodici". Di fatto, come ribadirà nel marzo del 2016 in una lettera al centro studi di Bydgoszcz, "non ho mai voluto sviluppare una teologia mia propria, ma ho voluto semplicemente servire la fede della Chiesa e la sua comprensione nel nostro tempo". 

Fu perciò una felice coincidenza che, proprio nella sua elezione al pontificato, si concludessero il lavori per la stesura del Compendio del Catechismo della Chiesa cattolica, avviato nel febbraio del 2003 da Giovanni paolo II, il quale – a dieci anni dalla promulgazione del grande Catechismo – ne aveva voluto anche un autorevole sintesi che contenesse gli elementi essenziali della fede e della morale cattolica, formulati in una maniera semplice e accessibile a tutti. E presentandolo, il 28 giugno 2005, Benedetto XVI lo definì "un rinnovato annuncio del Vangelo oggi", esposto in forma dialogica per "riproporre un dialogo ideale fra il maestro e il discepolo, medinate una sequenza incalzante di interrogativi, che coinvolgono il lettore invitando a proseguire nella scoperta dei sempre nuovi Aspetti della verità della sua fede".

Un'esigenza del cuore di Papa Ratzinger fu la coltivazione del dialogo con l'arte, in quanto mondo della bellezza, ma anche  e soprattutto egli si adoperò per portare alla luce la bellezza della fede stessa. Perciò una particolare sottolineatura la diede all'apparato iconografico presentato nel Compendio, da lui espressamente voluto perché "immagine e parola si illuminano a vicenda. L'arte "parla" sempre, almeno implicitamente, del divino, della bellezza infinita di Dio, riflessa nell'Icona per eccellenza: Cristo Signore immagine umana di Dio. Immagine umana del Dio invisibile. Le immagini sacre, con la loro bellezza, sono anch'esse annuncio evangelico ed esprimo lo splendore della verità cattolica, mostrando la suprema armonia tra il buono e il bello, tra la via veritatis e la via pulchritudinis. Mentre testimoniano la secolare e feconda tradizione dell'arte cristiana, sollecitano tutti, credenti e non, alla scoperta della contemplazione del fascino inesauribile del mistero della Redenzione, dando sempre nuovo impulso al vivace processo della sua inculturazione nel tempo".

Sempre chiarissima in Benedetto XVI fu la convinzione che la fede cristiana, per poter essere e rimanere una fede umana, deve cercare costantemente il dialogo con la ragione umana. Il Pontefice era profondamente convinto che fede e ragione dipendono l'una dall'altra e soltanto nel dialogo reciproco possono essere evitate le malattie della fede: senza la fede, la ragione minaccia di diventare unilaterale e unidimensionale; senza la ragione, la fede minaccia di nascondere la propria verità e di diventare fondamentalista.

Convinto com'era che la domanda su Dio è di vitale significato per tutte le questioni che attendono al futuro dell'umanità, Papa Benedetto contribuì instancabilmente a tenere viva la questione di Dio in ogni ambito della società moderna. Il dialogo tra fede e ragione fu essenziale per lui soprattutto perché Dio stesso è logos e l'intera creazione è testimone di questa ragione. Il logos non è soltanto una ragione matematica, ma ha anche un cuore ed è amore. Da ciò trasse la seguente conclusione: "La verità è bella, verità e bellezza vanno insieme: la bellezza è il sigillo della verità".

Nel contempo, nel suo Magistero non perse mai di vista la fede dei semplici. Si potrebbe sostenere che lui era piuttosto convinto che la verità della fede, in ultima analisi, si manifesta meglio ai cuori più umili e può essere colta unicamente con gli occhi della fede, come egli stesso precisò nel messaggio "Urbi et Orbi" del Natale 2010: "Se la verità fosse solo una formula matematica, in un certo senso si imporrebbe da sé. Se invece la Verità è Amore, domanda la fede, il "sì" del nostro cuore".

Si può tranquillamente dire che tutto questo spiega il motivo per cui l'ultima grande iniziativa del suo pontificato fu l'indizione dell'Anno della fede, che inaugurò mentre era ancora in carica, l'11 ottobre 2012, nel cinquantesimo anniversario dell'apertura del Concilio Vaticano II, ma che poi "lasciò in eredità" al suo successore, stabilendo che si sarebbe concluso il 24 novembre 2013, nella solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell'universo.

Nella lettera di indizione Porat fidei confidò di aver ricordato, sin dall'inizio del suo ministero come successore di Pietro, "l'esigenza di riscoprire il cammino della fede per mettere in luce con sempre maggiore evidenza la gioia e il rinnovato entusiasmo dell'incontro con Cristo". Ma riconobbe con grande onestà che "capita ormai non di rado che i cristiani si diano maggiore preoccupazione per le conseguenze sociali, culturali e politiche del loro impegno, continuando a pensare alla fede come un presupposto ovvio del vivere comune", mentre "questo presupposto non solo non è più tale, ma spesso viene perfino negato. Mentre nel passato era possibile riconoscere un tessuto culturale unitario, largamente accolto nel suo richiamo ai contenuti della fede e ai valori da essa ispirati, oggi non sembra più essere così in grandi settori della società, a motivo di una profonda crisi di fede che ha toccato molte persone".

Perciò Benedetto espresse la volontà di "delineare un percorso che aiuti a comprendere in modo più profondo non solo i contenuti della fede, ma insieme a questi anche l'atto con cui decidiamo di affidarci totalmente a Dio, in piena libertà. Esiste, infatti, un'unità profonda tra l'atto cn cui si crede e i contenuti a cui diamo il nostro assenso. […] La conoscenza della fede introduce alal totalità del mistero salvifico rivelato da Dio. L'assenso che viene prestato implica quindi che, quando si crede, si accetta liberamente tutto il mistero della fede, perché garante della sua verità è Dio stesso che si rivela e permette di conoscere il suo mistero di amore".

Di conseguenza, la fede "proprio perché è atto della libertà, esige anche la responsabilità sociale di ciò che si crede. La Chiesa nel giorno di Pentecoste mostra con tutta evidenza questa dimensione pubblica del credere e dell'annunciare senza timore la propria fede a ogni persona. È il dono dello Spirito Santo che abilita alla missione e fortifica la nostra testimonianza, rendendola franca e coraggiosa. La stessa professione della fede è un atto personale e insieme comunitario …Professare con la bocca indica che la fede implica una testimonianza e un impegno pubblico. Il cristiano non può mai pensare che credere sia un fatto privato. La fede è decidere di stare con il Signore per vivere con Lui. E questo "stare con Lui" introduce alla comprensione delle ragioni per cui si crede.

L'amore al primo posto

La tradizione cattolica, come richiamato dal catechismo (n.181), definisce le virtù teologali -cioè quelle che "fondano, animano e caratterizzano l'agire morale dl cristiano" e "sono infuse da Dio nell'anima dei fedeli per renderli capaci di agire quali suoi figli e meritare la vita eterna – secondo la sequenza: fede, speranza, carità. Quando Benedetto XVI cominciò a riflettere sulla tematica da proporre nell'enciclica di inizio pontificato, il suo pensiero corse però alla prima Lettera di san Paolo ai Corinzi (13,13), dove l'"apostolo delle genti" sottolineava che "ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità", aggiungendo però immediatamente: "Ma la più grande di tutte è la carità!".

Perciò decise di partire proprio da quest'ultima virtù, con la Deus caritas est, anche su sollecitazione dell'amico cardinale Paul Joseph Cordes, all'epoca presidente del Pontificio Consiglio "Cor unum", che da tempo aveva preparato una bozza sul tema della carità: fu questa la traccia di lavoro sulla quale venne elaborata la seconda parte dell'enciclica, mentre la prima parte fu sostanzialmente frutto del pensiero di Papa Ratzinger. Comunque, nel suo intento iniziale, non c'era quello di realizzare una trilogia sulle virtù, ma piuttosto di affrontare via via le tematiche più signif9cative per un rinnovato annuncio del Vangelo nel mondo contemporaneo.

Datata 25 dicembre 2005, fu resa nota il 25 gennaio 2006 e in qui giorni Benedetto spiegò che "la parola "amore" oggi è così sciupata, così consumata e abusata che quasi si teme di lasciarla affiorare sulle proprie labbra. Eppure è una parola primordiale, espressione della realtà primordiale; noi non possiamo semplicemente abbandonarla, ma dobbiamo riprenderla, purificarla e riportarla al suo splendore originario, perché possa illuminare la nostra vita e portarla sulla retta via. È stata questa consapevolezza che mi ha indotto a scegliere l'amore come tema della mia enciclica"               

Benedetto XVI era consapevole che, a prima vista, il testo poteva apparire un po'difficile e teorico. Offrì dunque lui stesso una schematica traccia di lettura, in una lettera pubblicata sul settimanale "Famiglia Cristiana": "Ho voluto rispondere a un paio di domande molte concrete per la vita cristiana. La prima è: si può davvero amare Dio? E ancora: l'amore può essere imposto? Non è un sentimento che abbiamo o non abbiamo? La risposta alla prima domanda è: sì, possiamo amare Dio, dato che Egli non è rimasto in una distanza irraggiungibile, ma è entrato ed entra nella nostra vita. La seconda domanda è: possiamo davvero amare il "prossimo", che ci è estraneo o addirittura antipatico? Sì, lo possiamo, se siamo amici di Dio, e in questo modo ci diventa sempre più chiaro che egli ci ha amato e ci ama, benché spesso noi distogliamo da lui il nostro sguardo e viviamo seguendo altri orientamenti. Da ultimo vi è la domanda: con i suoi comandamenti e i suoi divieti la Chiesa non ci rende amara la gioia dell'eros, dell'essere amati. Che ci spinge all'altro e vuole diventare unione? Nell'enciclica ho cercato di dimostrare che la promessa più profonda dell'eros può maturare solo quando non cerchiamo di afferrare la felicità repentina. Al contrario troviamo insieme la pazienza di scoprire sempre più l'altro nel profondo, nella totalità del corpo e anima, di modo che da ultimo la felicità dell'altro diventi più importante della mia. Allora non si vuole più solo prendere, ma donare e proprio in questa liberazione dall'io l'uomo trova se stesso e diviene como di gioia".

Proseguiva il Pontefice: "Nella seconda parte si parla della carità, il servizio d'amore comunitario della Chiesa per tutti coloro che soffrono nel corpo o nell'anima e hanno bisogno del dono dell'amore. Qui si presentano anzitutto due domande: la Chiesa non può lasciare questo servizio alle altre organizzazioni filantropiche che si formano in molti modi? La risposta è: no, la Chiesa non lo può fare. Essa deve praticare l'amore per il prossimo anche come comunità, altrimenti annuncia il Dio dell'amore in modo incompleto e insufficiente. La seconda domanda: non bisognerebbe piuttosto tendere a un ordine della giustizia in cui non vi sono più i bisognosi e per questo la carità diventa superflua? Ecco la risposta: indubbiamente il fine della politica è creare un giusto ordinamento della società, in cui a ciascuno viene riconosciuto il suo e nessuno soffre di miseria. In questo senso, la giustizia è il vero scopo della politica, così come lo è la pace che non può esistere sena giustizia. Di sua natura la Chiesa non fa politica in prima persona, bensì rispetta l'autonomia dello Stato e del suo ordinamento, però partecipa appasionatamente alla battaglia per la giustizia. Questa, però, è solo la prima metà della risposta alla nostra domanda. La seconda metà, che a me sta particolarmente a cuore nell'enciclica, dice: la giustizia non può rendere superfluo l'amore. Il mondo si aspetta la testimonianza dell'amore cristiano che ci viene ispirato dalla fede. Nel nostro mondo, spesso così buio, con questo amore brilla la luce di Dio".

Nel segno della speranza

Dopo meno di due anni (in data 30 novembre 2007), anche la seconda enciclica Spe salvi prese spunto da un brano di san Paolo, la Lettera ai Romani (8,24): "Nella speranza infatti siamo stati salvati". Indubbiamente questo testo fu maggiormente collegato all'esperienza teologica più profonda di Ratzinger, che nel 1977 aveva redatto il libro Escatologia. Morte e vita eterna, l'unico manuale che riuscì a completare nella collana "Piccola dogmatica cattolica", prima della nomina ad arcivescovo di Monaco e Frisinga. Se posso permettermi, a livello personale, questa enciclica sarebbe il testo che porterei con me nel caso del famigerato "naufragio sull'isola deserta", poiché – rileggendola e meditandola – fa scoprire sempre dettagli nuovi e risponde alle domande esistenziali più intense di qualsiasi donna e uomo di ogni tempo. 

Benedetto XVI chiarì immediatamente il nocciolo della questione, spiegando che con l'opera della redenzione compiuta da Gesù Cristo "ci è stata donata una speranza affidabile, in virtù della quale noi possiamo affrontare il nostro presente: il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto e accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino". Da questo, scaturiva la sua impellente domanda: "Di che genere è mai questa speranza per poter giustificare l'affermazione secondo cui a partire da essa, e semplicemente perché essa c'è, noi siamo redenti? E di quale tipo di certezza si tratta?"

Papa Ratzinger andò subito al cuore di un tema che nella società moderna viene ipocritamente accantonato perché c'è la paura di porre la domanda e soprattutto l'incapacità di offrire una risposta: "Il vivere e morire dell'uomo". La sua riflessione prese spunto dal dialogo nel rito del Battesimo fra il sacerdote e i genitori: "Che cosa chiedi alla Chiesa?", "La fede"; "E che cosa ti dona la fede?", "La vita eterna". Con arguzia, proseguì: "Vogliamo noi davvero questo, vivere eternamente? Forse oggi molte persone rifiutano la fede semplicemente perché la vita eterna non sembra loro una cosa desiderabile. Non vogliono affatto la vita eterna, ma quella presente, e la fede nella vita eterna sembra, per questo scopo, piuttosto un ostacolo. Continuare a vivere in eterno – senza fine -appare una condanna che un dono. La morte, certamente, si vorrebbe rimandare il più possibile. Ma vivere sempre, senza un termine, questo, tutto sommato, può essere solo noioso e alla fine insopportabile".

Ed è qui che Benedetto pose una domanda fra le più intriganti del suo pontificato, che in un certo senso, a mio modo di vedere, vale un intero Magistero: "Allora, che cosa vogliamo veramente? Questo paradosso del nostro stesso atteggiamento suscita una domanda più profonda: che cosa è, in realtà, la "vita"? E che cosa significa veramente "eternità"?". La risposta risulta una vera "summa" della sua teologia: "La parola "vita eterna" cerca di dare un nome a questa sconosciuta realtà conosciuta. Necessariamente è una parola insufficiente che crea confusione" "Eterno", infatti, suscita in noi l'idea dell'interminabile, e questo ci fa paura; "vita" ci fa pensare alla vita da noi conosciuta, che amiamo e non vogliamo perdere e che tuttavia, è spesso allo stesso tempo più fatica che appagamento (soprattutto da anziani e malati), cosicché mentre per un verso la desideriamo, per l'altro non la vogliamo. Possiamo soltanto cercare di uscire col nostro pensiero dalla temporalità della quale siamo prigionieri e in qualche modo presagire che l'eternità non sia un continuo susseguirsi di giorni del calendario, ma qualcosa come il momento colmo di appagamento, in cui la totalità ci abbraccia e noi abbracciamo la totalità".

Ne consegue la definitiva e confortate conclusione offerta da Benedetto XVI: "Noi abbiamo bisogno delle speranze – più piccole o più grandi – che, giorno per giorno, ci mantengono in cammino. Ma senza la grande speranza, che deve superare tutto il resto, esse non bastano. Questa grande speranza può essere solo Dio, che abbraccia l'universo e che può proporci e donarci ciò che, da soli, non possiamo raggiungere. Proprio l'essere gratificato di un dono fa parte della speranza -non un qualsiasi dio, ma quel Dio che possiede un volto umano e che ci ha amati sino alla fine: ogni singolo e l'umanità nel suo insieme".

Tenendo ben presenti ambedue le dimensioni umane, quella materiale e quella spirituale, Benedetto XVI volle dedicare la terza enciclica a una tematica che ha acquisito sempre più valore con il passar del tempo: lo sviluppo umano integrale nella carità e nella verità. La Caritas in veritate era inizialmente rivolta a commemorare nel 2007 il quarantesimo anniversario della Populorum progressio. Ma una serie di problematiche, fra cui i venti di crisi che colpirono l'intero ambito economico-finanziario in quegli anni, fecero slittare i tempidi redazione, cosicché la data formale del documento fu il 29 giugno 2009 e la presentazione avvenne il successivo 7 luglio.

Per offrire un'analisi più adeguata, furono consultati diversi economisti: oltre ai professori Stefano Zamagni ed Ettore Gotti Tedeschi, venne coinvolto pure l'allora governatore della Banca d'Italia Mario Draghi. Il collegamento con l'enciclica sociale di papa Montini risultò comunque ben chiaro, grazie e tre precedenti prospettive ribadite con forza nel nuovo testo. Innanzitutto l'idea che "il mondo soffre per mancanza di pensiero", quindi la consapevolezza che "non vi è umanesimo vero se non aperto verso all'Assoluto", infine il giudizio che "all'origine del sottosviluppo c'è una mancanza di farternità"

L'amore-carità nella verità, spiegò Benedetto, è "il principio intorno a cui ruotala dottrina sociale della Chiesa, un principio che prende forma operativa in criteri orientativi dell'azione morale, fra cui in particolare, la giustizia e il bene comune" ed è anche "una grade sfida per la Chiesa in un mondo in progressiva e pervasiva globalizzazione: il rischio del nostro tempo è che quell'indipendenza di fatto fra gli uomini e i popoli non corrisponda l'interazione etica delle coscienze e delle intelligenze, dalla quale possa emergere come risultato uno sviluppo veramente umano. Solo con la carità, illuminata dalla luce della ragione e della fede, è possibile conseguire obiettivi di sviluppo dotati di una valenza più umana e umanizzante".  

La crisi mondiale, sollecitò Papa Ratzinger, "ci obbliga a progettare il nostro cammino, a darci nuove regole e a trovare nuove forme di impegno, a puntare sulle esperienze positive e a rigettare quelle negative". Soltanto così " diventa occasione di discernimento e di nuova progettualità: in questa chiave, fiduciosa piuttosto che rassegnata, conviene affrontare le difficoltà del momento presente".

Ma il suo principale appello fu a sperimentare la stupefacente esperienza del dono: "La gratuità è presente nella sua vita in molteplici forme, spesso non riconosciute a causa di una visione solo produttivistica e utilitaristica dell'esistenza". E nel contempo, a mostrare "a livello sia di pensiero sia di comportamenti, che non solo i tradizionali principi dell'etica sociale, quali la trasparenza, l'onestà e la responsabilità non possono venire tarcsurati o attenuati, ma anche che nei rapporti mercantili il principio di gratuità e la logica del dono come espressione della fraternità possono e devono trovare posto entro la normale attività economica".

Secondo il cuore di Dio

L'attenzione nei riguardi delle consacrate e dei consacrati in generale, in modo specifico verso i sacerdoti, caratterizzò numerose esortazioni e iniziative di Benedetto XVI. In particolare, il segno più evidente del suo desiderio di ricentrare l'identità del presbitero, meditando sul significato della vita ministeriale e della formazione ecclesiastica, fu l'indizione dell'Anno sacerdotale, che volle esplicitamente focalizzato attorno alla figura di Jan-Marie-Baptiste Vianney, più noto come il "santo curato d'Ars", nella circostanza del 150° anniversario della morte.

  Per Papa Ratzinger, questo umile sacerdote di un paesino francese con poche centinaia di fedeli – dove trascorse 44 anni di ministero senza risparmiarsi sull'altare e nel confessionale, tanto da essere indicato come modello e patrono die parroci – rappresenta il modello dell'"innamorato di Cristo" e il suo successo pastorale aveva alle spalle come segreto "l'amore che nutriva per il Mistero eucaristico annunciato, celebrato e vissuto, che è divenuto amore per il gregge di Cristo, i cristiani e per tutte le persone che cercano Dio". Nelle varie riflessioni a lui dedicate, il Pontefice mise specificamente in primo piano una sua citazione: "Un buon pastore, un pastore secondo il cuore di Dio, è il più grande tesoro che il buon Dio possa accordare a una parrocchia e uno dei doni più preziosi della misericordia divina".

Perciò stabilì di iniziare l'Anno sacerdotale nella solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù, il 19 giugno 2009, in quanto giornata tradizionalmente dedicata alla preghiera per la santificazione del clero, con la conclusione nella medesima solennità del 2010. Come titolo scelse "Fedeltà di Cristo, fedeltà del sacerdote", per evidenziare che il dono della grazia divina precede qualsiasi risposta umana e realizzazione pastorale, e così, nella vita del sacerdote, annuncio missionario e culto non sono mai separabili, come non vanno mai separati identità sacramentale emissione evangelizzatrice.

Benedetto aveva infatti maturato sempre più la consapevolezza che la visione comune delal vita nel mondo moderno comprende con difficoltà il sacro, mentre l'unica decisiva categoria diventa la funzionalità, cosicché "la concezione cattolica del sacerdozio potrebbe rischiare di perdere la sua naturale considerazione, talora anche all'interno della coscienza ecclesiale". Riprendendo un precedente testo sul ministero e la vita del sacerdote, spiegò con determinazione: "Non di rado, sia negli ambienti teologici, come pure nella concreta prassi pastorale e di formazione del clero, si confrontano, e talora si oppongono, due differenti concezioni del sacerdozio. Esistono da una parte una concezione sociale-funzionale che definisce l'essenza del sacerdozio con il concetto di servizio alla comunità, nell'espletamento di una funzione; dall'altra parte, vi è la concezione sacramentale-ontologica, che naturalmente non nega il carattere di servizio del sacerdozio, lo vede però ancorato all'essere del minsitro e ritiene che questo essere è determinato da un dono concesso dal Signore attraverso la mediazione della Chiesa, il cui nome è sacramento".

Il preciso intento, di conseguenza, fu quello di ribadire che "il sacerdote è servo di Cristo, nel senso che la sua esistenza, configurata a Cristo ontologicamente, assume un carattere essenzialmente relazionale: egli è in Cristo, per Cristo e con Cristo al servizio egli uomini. Proprio perché appartiene a Cristo, il presbitero è radicalmente al servizio degli uomini: è ministro: è ministro della loro salvezza, della loro felicità, della loro autentica liberazione, maturando, in questa progressiva assunzione della volontà del Cristo, nella preghiera, nello "stare cuore a cuore" con Lui. È questa allora la condizione imprescindibile di ogni annuncio, che comporta la partecipazione all'offerta sacramentale dell'Eucarestia e la docile obbedienza alla Chiesa".

La sua puntualizzazione fu estremamente netta: "Il sacerdote non è semplicemente il detentore di un ufficio, come quelli di cui ogni società ha bisogno affinché in essa possano essere adempiute certe funzioni. Egli invece gfa qualcosa che nessun essere umano può fare da sé: pronuncia in nome di Cristo la parola dell'assoluzione dai nostri peccati e cambia, così, a partire da Dio, la situazione della nostra vita. Pronuncia sulle offerte del pane e del vino le parole di ringraziamento di Cristo che sono parole di transustanziazione – parole che rendono presente Lui stesso, il Risorto, il suo Corpo e suo sangue, e trasformano così gli elementi del mondo: parole che spalancano il mondo a Dio e lo congiungono a Lui. Il sacerdozio è quindi non semplicemente "ufficio", ma sacramento: Dio si serve di un povero uomo al fine di essere, attraverso lui, presente per gli uomini e di agire in loro favore".

Anche per questi motivi volle ribadire con forza l'importanza e la obbligatorietà dell'abito ecclesiastico, sottolineando nella nuova edizione del Direttorio per il ministero e la vita del presbitero (n.61) che "la veste talare – anche nella forma, nel colore e nella dignità – è specialmente opportuna perché distingue chiaramente i sacerdoti dai laici e fa capire meglio il carattere sacro del loro ministero, ricordando allo stesso presbitero che è sempre e in ogni momento sacerdote, ordinato per servire, per insegnare, per guidare e per santificare le anime, principalmente attraverso la celebrazione dei sacramenti e la predicazione della Parola di Dio. Indossare l'abito clericale funge inoltre da salvaguardia della povertà e della castità".

Il sacerdozio non è un "job"

Soprattutto nel dialogo con i sacerdoti il 10 giugno 2010 in piazza San Pietro e nell'omelia della Messa del giorno seguente, Papa Ratzinger non si tirò indietro riguardo alle questioni più urgenti e problematiche a cominciare dall'importanza della formazione teologica: "Nel nostro tempo dobbiamo conoscere bene la Sacra Scrittura, anche proprio contro gli attacchi delle sette; dobbiamo essere realmente amici della Parola di Dio (cioè di Dio che come ha parlato allora fisicamente in Gesù, Risorto ci parla ora nella lettura della Bibbia). Dobbiamo conoscere anche le correnti del nostro tempo per poter rispondere ragionevolmente, per poter dare – come dice san Pietro – "ragione della nostra fede". Con questi obiettivi in mente, decise di promulgare il motu proprio Ministrorum institutio, trasferendo dalla Congregazione per l'Educazione cattolica a quella per il Clero "la promozione e il governo di tutto ciò che riguarda la formazione, la vita e il ministero dei presbiteri e dei diaconi: dalla pastorale vocazionale e la selezione dei candidati ai sacri ordini, inclusa la loro formazione umana, spirituale, dottrinale e pastorale nei seminari e negli appositi centri per i diaconi permanenti, fino alla loro formazione permanente".

Si soffermò poi sul valore del celibato: "Può sorprendere questa critica permanente contro il celibato, in un tempo nel quale diventa sempre più di moda non sposarsi. Ma il non sposarsi è basato sulla volontà di vivere solo per se stessi: è quindi un "no" al vincolo, un "no" alla definitività, un avere la vita solo per se stessi. Mentre il celibato è proprio il contrario: è un "sì" definitivo, è un lasciarsi prendere in mano da Dio, darsi nelle mani del Signore, nel suo "io", e quindi è un atto di fedeltà e di fiducia". E propose una sfidante riflessione sulla mancanza di vocazioni: "La tentazione è grande: di prendere noi stessi in mano la cosa, di trasformare il sacerdozio in una normale professione, in un "job" che ha le sue ore, e per il resto uno appartiene solo a sé stesso; e così rendendolo come una qualunque altra vocazione. Ma è una tentazione che non risolve il problema. Tre punti: ognuno di noi dovrebbe fare il possibile per vivere il proprio sacerdozio in maniera tale da risultare convincente; dobbiamo invitare all'iniziativa della preghiera, ad avere questa umiltà, questa fiducia di parlare nel presente con Dio con forza; dobbiamo avere il coraggio di parlare con i giovani se possono pensare che Dio persoalmente li chiami, perché spesso una parola umana è necessaria per aprire l'ascolto alla vocazione divina".

Non si sottrasse nemmeno a un duro giudizio sul dramma della pedofilia nel clero, che in quei mesi esplose in diverse parti del mondo e in seguito innescò ulteriori aspre polemiche: "Era da aspettarsi che al "nemico" questo nuovo brillare del sacerdozio non sarebbe piaciuto; egli avrebbe preferito vederlo scomparire, perché in fin dei conti Dio fosse spinto fuori del mondo. E così è successo che, proprio in questo anno di gioia per il sacramento del sacerdozio, siano venuti alla luce i peccati dei sacerdoti – soprattutto l'abuso nei confronti dei piccoli, nel quale il sacerdozio come compito della premura di Dio a vantaggio dell'uomo viene volto nel suo contrario. Anche noi chiediamo insistentemente perdono a Dio e alle persone coinvolte, mentre intendiamo promettere di voler fare di tutto il possibile affinché un tale abuso non possa succedere mai più; promettere che nell'ammissione al ministero sacerdotale e nella formazione durante il cammino di preparazione ad esso faremo tutto ciò che possiamo per vagliare l'autenticità della vocazione e che vogliamo ancora di più accompagnare i sacerdoti nel loro cammino, affinché il Signore li protegga e li custodisca in situazioni penose e nei pericoli della vita".

Benedetto individuò e valorizzò, far gli importanti sostegni che la comunità dei fedeli può offrire ai sacerdoti per il compimento del loro ministero, l'esercizio della maternità spirituale delle religiose e laiche, incarnata in preghiere, penitenze, comunioni quotidiane e adorazioni eucaristiche per la santificazione dei presbiteri. E mostrò apprezzamento per quanto affermato dalla Congregazione per il Clero nella Lettera del 2008 in occasione della Giornata mondiale di preghiera per la santificazione sacerdotale: "Si delinea, ultimamente, una ulteriore forma di maternità spirituale, che sempre ha silenziosamente accompagnato, nella storia della Chiesa, l'eletta schiera sacerdotale: si tratta del concreto affidamento del nostro ministero a un volto determinato, a un'anima consacrata, che sia da Cristo chiamata e, quindi, scelga di offrire se stessa, le necessarie sofferenze e le inevitabili fatiche della vita, per intercedere in favore della nostra sacerdotale esistenza, vivendo, in questo modo alla dolce presenza di Cristo. Una tale maternità, nella quale s'incarna il volto amorevole di Maria, va domandata nella preghiera, poiché solo Dio può suscitarla e sostenerla". E nell'udienza generale dedicata alla figura di santa Caterina da Siena, il 24 novembre 2010, egli stesso sottolineò che "anche oggi la Chiesa riceve un grande beneficio dall'esercizio della maternità spirituale di tante donne, consacrate e laiche, che alimentano nelle anime il pensiero di Dio, rafforzano la fede della gente e orientano la vita cristiana verso vette sempre più elevate".

Il dialogo al servizio della pace

Con risoluta fedeltà al Concilio Vaticano II, Benedetto XVI pose un particolare accento sui temi correlati al rapporto della Chiesa con il mondo contemporaneo, cioè l'ecumenismo, il dialogo interreligioso e la libertà religiosa. Sebbene dopo tutti questi decenni il movimento ecumenico non sia riuscito a raggiungere l'unità visibile dei cristiani, anzi quell'obiettivo nel frattempo sia piuttosto divenuto sempre meno chiaro e realizzabile, Papa Ratzinger restò saldo nella necessità di mantenere il dialogo dell'amore. Per questo motivo dedicò molto tempo a incontri con rappresentati di altre Chiese e Comunità ecclesiali, appuntamenti che sono stati continuamente ideati, promossi e cercati, realizzando in questo modo un primato ecumenico.

In lui era chiarissima l'idea che "la fraternità tra i cristiani non è semplicemente un vago sentimento e nemmeno nasce da una forma di indifferenza verso la verità. Essa è fondata sula realtà soprannaturale dell'unico battesimo, che ci inserisce tutti nell'unico Corpo di Cristo. Insieme confessiamo Gesù Cristo come Dio e Signore; insieme lo riconosciamo come unico mediatore tra Dio e gi uomini, sottolineando la nostra comune appartenenza a Lui". E affermò che "grazie a questo ecumenismo spirituale (santità della vita, conversione del cuore, preghiere private e pubbliche), la comune ricerca dell'unità ha registrato in questi decenni un grande sviluppo, che si è diversificato in molteplici iniziative: dalla reciproca conoscenza al contatto fraterno tra membri delle diverse Chiese e Comunità ecclesiali, da conversazioni sempre più amichevoli a collaborazioni in vari campi, dal dialogo teologico alla ricerca di concrete forme di comunione e collaborazione".

Papa Ratzinger fu molto attento a promuovere anche il dialogo interreligioso, in quanto "per la Chiesa il dialogo tra seguaci di diverse religioni costituisce uno strumento importante per collaborare con tutte le comunità religiose al bene comune" ed essa "nulla rigetta di quanto è vero e santo nelle varie religioni". Ovviamente, con la lucidità dell'ex prefetto della Dottrina della fede, fu netto nel chiarire  che "quella indicata non è la strada del relativismo, o del sincretismo religioso. La Chiesa, infatti, annuncia, ed è tenuta ad annunciare, il Cristo che è "via, verità e vita", in cui gli uomini devono trovare la pienezza delal vita religiosa e in cui Dio ha riconciliato con sé stesso tutte le cose"; ma ciò "non esclude il dialogo e la ricerca comune della verità in diversi ambiti vitali, poiché, come recita un'espressione usata da san Tommaso d'Aquino, "ogni verità, da chiunque sia detta, proviene dallo Spirito santo".

Un particolare riscontro ci fu nell'appuntamento di Assisi dell'ottobre 2011, al quale egli invitò le Chiese cristiane, le altre religioni e anche persone agnostiche, per sensibilizzare tutti all'impegno per l'affermazione semprenuova della pace nel mondo, dando insieme testimonianza pubblica che la gemella della religione è la pace e mai la violenza. L'occasione fu il 25° anniversario della Giornata mondiale di preghiera per la pace, convocata nel 1986 da Giovanni Paolo II per testimoniare come la religione sia un fattore di unione e di pace, e non di divisione e di conflitto. L'auspicio di Benedetto fu che il ricordo di quell'esperienza potesse imporsi come "motivo di speranza per un futuro in cui tutti i credenti si sentano e si rendano autenticamente operatori di giustizia e di pace". Gettando uno sguardo retrospettivo, si pone in questo ambito anche il fatto che l'ultimo viaggio apostolico del suo pontificato lo abbia condotto in Libano, dunque in medio Oriente, dove egli portò speranza a uomini sofferenti a causa del terrore e si adoperò per la pace in quella regione duramente provata.

Per il Pontefice, tutto ciò si poneva comunque in correlazione con il dialogo interculturale, che lui poneva persino all'inizio del rapporto far culture e religioni, come affermò nel dicembre del 2008 in occasione dell'Anno europeo del dialogo interculturale: "Nel contesto odierno, in cui sempre più spesso i nostri contemporanei si pongono le domande essenziali sul senso della vita e sul suo valore, appare più che mai importante riflettere sulle antiche radici dalle quali è fluita linfa abbondante nel corso dei secoli. Il tema del dialogo interculturale e interreligioso, perciò, emerge come una priorità per l'unione Europea e interessa in modo trasversale i settori della cultura e della comunicazione, dell'educazione e della scienza, delle migrazioni e delle minoranze, fino a raggiungere i settori della gioventù e del lavoro. Una volta accolta la diversità come dato positivo, occorre fare in modo che le persone accettino non soltanto l'esistenza della cultura dell'altro, ma desiderino anche ricevere un arricchimento". 

Liberi di vivere la propria Fede

In riferimento al rispetto della libertà religiosa, Papa Ratzinger, oltre a molteplici iniziative riservate, si spese pubblicamente con dichiarazioni coraggiose e inequivocabili, precisando che essa "non è patrimonio esclusivo dei credenti, ma dell'intera famiglia dei popoli della terra. È elemento imprescindibile di uno Stato di diritto; non la si può negare senza intaccare nel contempo tutti i diritti e le libertà fondamentali, essendone sintesi e vertice".Parallelamente denunciò con forza, come fece per esempio a gennaio del 2011. Che "i cristiani sono attualmente il gruppo religioso che soffre il maggior numero di persecuzioni a motivo della verità, della loro fede in Gesù Cristo e del loro sincero appello perché sia riconosciuta la libertà religiosa. Tutto ciò non può essere accettato, perché costituisce un'offesa a Dio e alla dignità umana; inoltre, è una minaccia alla sicurezza e alla pace e impedisce la realizzazione di un autentico sviluppo umano integrale".

È poi fondamentale ricordare la poderosa lettera ai cattolici della Repubblica popolare cinese, da lui scritta nel terzo anno del pontificato, con la quale espresse "come mio intimo e irrinunciabile dovere e come espressione del mio amore di padre, l'urgenza di confermare nella fede i cattolici cinesi e di favorire la loro unità con i mezzi che sono propri della Chiesa" e specificamente chiese ai governanti cinesi "di garantire ai cittadini cattolici il pieno esercizio della loro fede, nel rispetto di una autentica libertà religiosa". Purtroppo all'epoca quel testo non trovò molta risonanza, ma tuttora rappresenta una bella testimonianza della sua preoccupazione di pastore che, pur definendosi volentieri vescovo di Roma, aveva contemporaneamente sempre di fronte agli occhi l'universalità della Chiesa cattolica.

Nella complessiva azione della Chiesa in favore della pace, Papa Ratzinger inserì anche l'impegno perla salvaguardia del creato, puntualizzando il vero pensiero cristiano circa il tema ecologico: "Poiché la fede ne Creatore è una parte essenziale del Credo cristiano, la Chiesa non può e no deve limitarsi a trasmettere ai suoi fedeli soltanto il messaggio della salvezza. Essa ha una responsabilità per il creato e deve far valere questa responsabilità anche in modo pubblico. E facendolo deve difendere non solo la terra, l'acqua e l'aria come doni della creazione appartenenti a tutti. Deve proteggere anche l'uomo contro la distruzione di sé stesso. È necessario che ci sia qualcosa come una ecologia dell'uomo, intesa nel senso giusto". Alla base, la consapevolezza che "lo sviluppo umano integrale è strettamente collegato ai doveri derivati dal rapporto dell'uomo con l'ambiente naturale, considerato come un dono di Dio a tutti, il cui uso comporta una comune responsabilità verso l'umanità intera, in special modo verso i poveri e le generazioni future".

Nessuna ambiguità, però, nella considerazione della gerarchia dei valori: "Una corretta concezione del rapporto dell'uomo con l'ambiente non porta ad assolutizzare la natura né a ritenerla più importante della stessa persona. Se il Magistero della Chiesa esprime perplessità dinanzi a una concezione dell'ambiente ispirata all'ecocentrismo e al biocentrismo, lo fa perché tale concezione elimina la differenza ontologica tra la persona umana e agli altri esseri viventi. In tal modo, si viene di fatto a eliminare l'identità e il ruolo superiore dell'uomo, favorendo una visione egualitaristica delal dignità di tutti gli esseri viventi. Si dà adito, così, a un nuovo pantesimo con accenti neopagani che fanno derivare dalla sola natura, intesa in senso puramente naturalistico, la salvezza per l'uomo. La Chiesa invita, invece, a impostare la questioe in modo equilibrato, nel rispetto della "grammatica" che il Creatore ha inscritto nelal sua opera, affidando all'uomo il ruolo di custode e amministratore responsabile del creato, ruolo di cui non si deve certo abusare, ma da cui non può nemmeno abdicare".

Tra politica e cultura

Lungo il corso del pontificato, Benedetto XVI è stato chiamato a confrontarsi con i leader politici e culturali di numerose nazioni e delle principali istituzioni internazionali. Da tale confronto è scaturito un consistente complesso di riflessioni sull'ordinamento politico e giuridico, che tocca le problematiche fondamentali della società, del rapporto tra fede e ragione, tar legge e diritto, tar giustizia e libertà religiosa.

Fra i quattro discorsi che considero più rappresentativi in questo ambito, emblematico fu quello che pronunciò il 18 aprile del 2008 dinnanzi all'Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York, nel quale il Pontefice valorizzò il progetto dei diritti umani, sviluppatosi in particolare nel secondo dopoguerra, con l'approvazione delal Dichiarazione universale del 1948. Riassumendo i principi fondativi dell'Onu – il desiderio della pace, la ricerca della giustizia, il rispetto della dignità della persona, la cooperazione umanitaria e l'assistenza – ribadì che essi "esprimono le giuste aspirazioni dello spirito umano e costituiscono gli ideali che dovrebbero sottostare alle relazioni internazionali" e sottolineò che il rispetto dei diritti e le garanzie che ne conseguono "servono a valutare il rapporto fra giustizia e ingiustizia, sviluppo e povertà, sicurezza e conflitto: la promozione dei diritti umani rimane la strategia più efficace per eliminare le disuguaglianze fra Paesi e gruppi sociali, come pure per un aumento della sicurezza".

Papa Ratzinger si coinvolse in prima persona in tale impegno, confermando che "le Nazioni Unite rimangono un luogo privilegiato nel quale la Chiesa è impegnata a portare la propria esperienza "in umanità", sviluppata lungo i secoli far i popoli di ogni razza e cultura, e a metterla a disposizione di tutti i membri della comunità internazionale". E precisò che "questa esperienza e attività, dirette a ottenere la libertà per ogni credente, cercano inoltre di aumentare la protezione offerta ai diritti della persona. Tali diritti sono basati e modellati sulla natura trascendente della persona, che permette a uomini e donne di percorrere il loro cammino di fede e la loro ricerca di Dio in questo mondo. Il riconoscimento di questa dimensione va rafforzato se vogliamo sostenere la speranza dell'umanità in un mondo migliore, e se vogliamo creare le condizioni per la pace, lo sviluppo, la cooperazione e la garanzia dei diritti delle generazioni future".

Dopo pochi mesi, nel discorso del 12 settembre 2008 al Collège des Bernardins di Parigi, Benedetto si rivolse alle élites culturali di una Francia oggi generalmente secolarista e diffidente verso le religioni, per descrivere il contributo della fede cristiana allo sviluppo della civiltà europea, al risanamento della ragione, alla rinascita di una civiltà, sepolta sotto le rovine della devastazione della barbarie, che aveva fatto crollare vecchi ordini e antiche sicurezze. L'esempio da lui portato fu quello dei monaci benedettini, affascinati e impegnati in una continua ricerca di Dio utilizzando anche le scienze profane, scrittura, studio della grammatica, biblioteca, scuola, sono tutte componenti che fanno parte del monachesimo occidentale. Insieme con la cultura della parola, essi espressero la cultura del lavoro, senza la quale lo sviluppo dell'Europa, il suo ethos e la sua formazione del mondo sono impensabili. 

Ma il Papa andò in profondità, spiegando che c'era un preciso obiettivo di questa loro missione: "Quaerere Deum, cercare Dio. Nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa. Dalle cose secondarie volevano passare a quelle essenziali, a ciò che solo, è veramente importante e affidabile". Di qui la sua sfida: "Cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui: questo oggi non è meno necessario che in tempi passati. Una cultura meramente positivista, che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda circa Dio, sarebbe la capitolazione della ragione, dell'umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero che essere gravi. Ciò che ha fondato la cultura dell'Europa, la ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarlo, rimane anche oggi il fondamento di ogni cultura".

Nella Westminster Hall di Londra, il 17 settembre 2010, Benedetto si trovò a parlare nel parlamento più antico fra quelli delle democrazie occidentali. Risuonano tuttora con limpidezza le parole di vivo apprezzamento per la tradizione democratica liberale da lui pronunciate, senza però sottacere preoccupazioni e premure affinché un'autentica libertà di religione fosse preservata, anche nel futuro, in Occidente, da ogni forma di sottile minaccia: "Il mondo della ragione e il mondo della fede – il mondo della secolarità razionale e il mondo del credo religioso – hanno bisogno l'uno dell'altro e non dovrebbero avere timore di entrare in un profondo e continuo dialogo, per il bene della nostra civiltà. La religione, in altre parole, per i legislatori non è un problema da risolvere, ma un fattore che contribuisce in modo vitale al dibattito pubblico nella nazione".

In quella circostanza, Papa Ratzinger sgombrò il campo da un equivoco persistente nelal cultura contemporanea, basato sull'idea che il cristianesimo e, in particolare, la Chiesa cattolica, intervenendo nei dibattiti pubblici, si appellino a un "principio di autorità" nella decisione sulle questioni giuridiche e politiche. La visione da lui proposta invece non permette ai fedeli di esimersi dalle fatiche, né consente loro di privarsi dell'uso della ragione, trincerandosi dietro precetti e comandi religiosi. Per la fiducia nutrita nella possibilità che il divino, come logos, possa essere incontrato nella ricerca razionale della verità, Benedetto XVI non esitò a richiamare il fatto che le fonti ultime del diritto sono da ricercarsi nella ragione e nella natura, non in un comando, di chiunque esso sia.

Infine, nel discorso al Reichstag di Berlino del 22 settembre 2011, andò alla radice della questione, toccando il tema del fondamento dell'ordine giuridico e dei limiti del positivismo giuridico, dominante in tutto il continente europeo lungo il corso del XX secolo. Dettagliando come sia possibile riconoscere ciò che è giusto, spiegò che "nella storia, gli ordinamenti giuridici sono stati quasi sempre motivati in modo religioso: sulla base di un riferimento alla Divinità si decide ciò che tra gli uomini è giusto. Contrariamente ad altre grandi religioni, il cristianesimo non ha mai imposto allo Stato o alla società un diritto rivelato, mai un ordinamento giuridico derivante da una rivelazione. Ha invece rimandato alla natura e alla ragione quali vere fonti del diritto, ha rimandato all'armonia tra ragione oggettiva e soggettiva, un'armonia che però presuppone l'essere ambedue le sfere fondate nella Ragione creatrice di Dio".

In questo passaggio si evidenzia l'originalità del cristianesimo, per il quale "la politica deve essere un impegno per la giustizia e cercare le condizioni di fondo per la pace. Naturalmente un politico cercherà il successo senza il quale non potrebbe mai avere la possibilità dell'azione politica effettiva. Ma il successo è subordinato al criterio della giustizia, alla volontà di attuare il diritto e all'intelligenza del diritto. Servire il diritto e combattere il dominio dell'ingiustizia è e rimane il compito fondamentale del politico. In un momento storico in cui l'uomo ha acquistato un potere finora inimmaginabile, questo compito diventa particolarmente urgente".

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