IV Domenica Anno C
Anche in questa domenica ci troviamo ancora nella sinagoga di Nazaret, il paese dove Gesù è cresciuto fino ai trent'anni e dove tutti conoscono lui e la sua famiglia con Giuseppe e Maria. Egli, però, è ritornato in un modo nuovo rivelando nella sua umanità la verità della sua realtà divina di Messia, Figlio del Dio vivente in un "oggi" che allora come in questo momento fra noi fa felici: durante la liturgia del sabato legge una profezia di Isaia cioè sul futuro del Messia e annuncia il compimento nell'"oggi", lasciando intendere che quella parola si riferisce a Lui, che Isaia profeticamente cioè prevedendo il futuro ha parlato di Lui che vedono, ascoltano. Questo fatto suscita lo sconcerto dei nazaretani: da una parte, "tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano allora e oggi dalla sua bocca" (Lc 4,22); san Marco riferisce che molti giustamente si dicevano: "Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data?" (&,2). D'altra parte, però, i suoi compaesani da trent'anni lo conoscono troppo bene: È uno come noi – dicono – pur manifestando nella sua umanità una realtà divina. Quindi la tentazione che la sua pretesa sia una presunzione. "Non è costui il figlio di Giuseppe?" (Lc 4,22), come dire: un carpentiere di Nazaret, quali aspirazioni può avere? A Cafarnao presso i non ebrei lui ebreo si era permesso di fare miracoli. Proprio conoscendo, vedendo questa chiusura, questo atteggiamento possessivo dei nazaretani, che conferma il proverbio "nessun profeta è bene accetto nella sua patria" Gesù che ama la sua gente ma nella verità spiega loro che in profeta non è mandato da Dio per fare miracoli a beneficio dei suoi parenti e concittadini, ma per una missione più grande. Cita due miracoli compiuti dai grandi profeti Elia ed Eliseo in favore di persone non israelite, per dimostrare che a volte c'è più fede al di fuori di Israele. Con questi due esempi conosciuti Gesù vuol far capire ai suoi concittadini che ama nella verità che essi devono rinunciare a un atteggiamento possessivo e accettare di aprire i loro cuori alla dimensione universale della paternità divina. Essi non devono cercare di prendere, ma di dare per essere felici. E devono sentirsi onorati di avere tra loro un concittadino che mette tutta la sua generosità a profitto di altri paesi.
A quel punto, purtroppo, la reazione è unanime: tutti si alzano e lo cacciano fuori, e cercano persino di buttarlo giù da un precipizio, ma Egli, con calma sovrana e amorosa, passa in mezzo alla gente inferocita e se ne va angosciato rivelando l'immensa pietà divina che nasce dall'angoscia del suo cuore, perché vuole che tutti siano salvi e nessuno condannato anche a causa della propria colpa, poiché nessuno si crea in vita e in morte l'inferno senza il proprio consenso.
A questo punto viene spontaneo chiedersi: come mai Gesù nella sua pastorale ha permesso questa rottura? All'inizio la gente era ammirata di Lui, e forse avrebbe potuto ottenere un certo consenso con il dialogo. Ma proprio questo è il punto anche per noi: Gesù non è venuto per cercare il consenso degli uomini, ma – come dirà alla fine a Pilato – per "dare testimonianza alla verità" (Gv 18,37). IL vero profeta dell'amore soprannaturale, vero, non obbedisce ad altri che a Dio e si mette a servizio della verità senza della quale non c'è amore, pronto a pagare di persona. È vero che Gesù è il profeta dell'amore, ma l'amore esige la verità. Anzi, amore e verità sono due nomi della stessa realtà, due nomi di Dio. Credere in Dio significa rinunciare ai propri pregiudizi e accogliere il volto concreto in cui Lui si è e si rivela: L'uomo Gesù di Nazaret. E questa via conduce anche a riconoscerlo e a servirlo negli altri. Paolo nella seconda lettura propone la via migliore di tutte cioè l'amore nella verità. "Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli ma non avessi la carità, sono un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono un nulla" (1 Cor 13,1-2). E l'Apostolo fa l'elogio dell'amore nella verità che viene dal cuore di Dio, passa per quello di Cristo e giunge ai nostri cuori. Paolo mostra che l'amore vero è paziente, benigno, non invidioso, non orgoglioso, non interessato; l'amore non si adira, non tiene conto del male ricevuto, ma si compiace della verità, e tutto copre. Tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La Regina dell'amore, la Madre del lungo cammino ci assicura che l'amore vero non avrà mai fine perché l'unica ricchezza che in morte portiamo con noi è l'amore vero.
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