Fede e legge nellla giustificazione
"Chiesa e post concilio" – 29 Ottobre 2016
Siamo addirittura arrivati ad erigere una statua lignea celebrativa di Lutero in Vaticano, di color rosso cupo, inaugurata il 13 ottobre corrente, di fronte a circa mille "pellegrini" luterani in visita "ecumenica" al Santo Padre, e quindi non certo per convertirsi. Di fronte a questa e ad altre consimili manifestazioni di omaggio, il prof. De Mattei si è chiesto giustamente: Ma a quale Chiesa appartiene Papa Bergoglio?[1] E mi chiedo: a quando la statua di Calvino nei Sacri Palazzi? O dell'Erode inglese, Enrico VIII Tudor, re d'Inghilterra, scismatico ed eretico per causa di lussuria, distruttore del matrimonio cristiano?
Già nella conferenza stampa rilasciata da Bergoglio, come sempre "a braccio", durante il volo di ritorno dalla visita "pastorale" in Armenia, interrogato a proposito delle incombenti celebrazioni con la Confederazione Internazionale Luterana, da tenersi a Lund in Isvezia il 31 ottobre di quest'anno, per il 500mo anniversario dell'affissione delle 95 tesi del monaco ribelle, ossia per "esprimere i doni [sic] della Riforma e chiedere perdono [sic] per la divisione perpetuata dai cristiani delle due tradizioni", Papa Francesco aveva fatto uno sperticato elogio dell'eresiarca:
"Io credo che le intenzioni di Martin Lutero non fossero sbagliate. In quel tempo la Chiesa non era proprio un modello da imitare: c'era corruzione, c'era mondanità, c'era attaccamento ai soldi e al potere. E per questo lui ha protestato. Poi era intelligente ed ha fatto un passo avanti, giustificando il perché facesse questo. Ed oggi luterani e cattolici, con tutti i protestanti, siamo d'accordo sulla dottrina della giustificazione: su questo punto tanto importante lui non aveva sbagliato. Lui ha fatto una "medicina" per la Chiesa, poi questa medicina si è consolidata in uno stato di cose, in una disciplina etc.".[2]
Ciò che colpisce come un'autentica mazzata, in queste parole, è l'affermazione che oggi, dopo decenni di "dialogo", cattolici e protestanti luterani e non, sono d'accordo sulla dottrina della giustificazione. Concorderebbero anche i cattolici nel sostenere che "su questo punto tanto importante Lutero non aveva sbagliato"!
Ma non è sempre stato questo uno dei punti di completa rottura di Lutero con la dottrina insegnata nei secoli dalla Chiesa? Vale a dire il fatto che egli propalasse una dottrina della salvezza, ossia della "giustificazione del peccatore" di fronte a Dio, mediante la sola fede con l'esclusione del contributo delle opere e quindi del nostro libero arbitrio. Il Tridentino, a conclusione del suo Decreto sulla giustificazione, del 13 gennaio 1547, inflisse 33 anatemi con relativi canoni, il 9° dei quali recita:
"Se qualcuno afferma che l'empio è giustificato dalla sola fede, così da intendere che non si richieda nient'altro con cui cooperare al conseguimento della grazia della giustificazione e che in nessun modo è necessario che egli si prepari e si disponga con un atto della sua volontà: sia anatema"[3].
La dottrina qui condannata è notoriamente quella di Lutero. Ed ora il Papa in persona ci viene a dire che "su questo punto tanto importante Lutero non aveva sbagliato"?! Il presente Pontefice in che conto tiene le definizioni espressamente dogmatiche del Concilio di Trento? In nessuno? Se Lutero "su questo punto tanto importante non aveva sbagliato" allora si è sbagliato il Concilio di Trento nel condannarlo! Ma bisogna dire che l'attuale Pontefice non sembra tener alcun conto dell'intera dottrina della Chiesa sul punto, poiché il Tridentino non ha fatto altro che ribadire, spiegandola e chiarendola, la dottrina sempre professata dalla Chiesa. E bisogna anche chiedersi: qual è il livello di preparazione teologica del presente Pontefice? Si rende conto di aver detto una vera e propria eresia, nell'elogiare, condividendolo, ciò che il Tridentino ha solennemente condannato? Tuttavia, le stupefacenti dichiarazioni di Bergoglio non devono sorprendere più di tanto. Egli non fa altro che trarre le ovvie ed esplicite conclusioni da quanto affermato nella Dichiarazione congiunta sulla giustificazione, apparsa nel 1999 quale frutto maturo di un "dialogo ecumenico" con i luterani iniziatosi nel 1994; dialogo sviluppatosi pertanto con la completa approvazione di Giovanni Paolo II e dell'allora cardinale Ratzinger, Prefetto per tanti anni dell'ex Sant'Uffizio. L'approvazione di Ratzinger non risulta esser venuta meno, una volta eletto Papa.
Lo straordinario elogio di Papa Francesco a Lutero, elogio nel merito della dottrina eretica di quest'ultimo, mostra quanto sia vera la recente dichiarazione di mons. Bernard Fellay, Superiore Generale della FSSPX, esser cioè la Chiesa oggi purtroppo devastata da errori molteplici, "incoraggiati" dagli stessi Pastori, ivi compreso il Papa[4]. Verità fondamentali vengono negate o rovesciate, si cerca l'accordo dottrinale esplicito con gli eretici e scismatici, addirittura la Somma Autorità della Chiesa elogia apertamente le loro principali dottrine!
Ma che cos'è esattamente la "dottrina della giustificazione"? Non bisogna nascondersi che per la gran maggioranza di noi fedeli si tratta di un concetto non semplice ad afferrarsi nelle sue componenti teologiche profonde. Bisogna innanzitutto chiarire che Giustificazione non va intesa nel significato corrente di scusare, di spiegare nel senso appunto di "giustificare" per una mancanza o una colpa. Il "giustificato" di fronte a Dio è colui che Dio ha trovato "giusto" secondo i criteri e i precetti stabiliti da Dio stesso. Giustificare in questo senso significa quindi riconoscer giusto ossia gradito a Dio e da Lui accettato. Solo il "giustificato" può entrare nel Regno di Dio.
Chiarito quest'aspetto preliminare, la giustificazione in senso religioso appare un concetto semplice e chiaro. I problemi cominciano quanto al modo del suo attuarsi. Vengono infatti alla luce gli articolati rapporti tra natura e grazia, fede e opere, elezione e predestinazione. Per la comprensione di questa difficile materia, i fedeli si sono sempre affidati all'insegnamento del Magistero della Chiesa cattolica. Ma quando il Magistero stesso sembra aver smarrito la dottrina tramandata, sì da sottoscrivere con gli eretici documenti che la contraddicono, come deve reagire il semplice fedele? Non certo addentrandosi in difficili ragionamenti (al di là della sua portata) sulla natura della fede, della grazia o sulla predestinazione bensì cercando in primo luogo di ristabilire, per quanto sta alle sue capacità, ciò che la Chiesa ha insegnato in proposito. In altre parole, si tratta di riproporre in un linguaggio il più possibile semplice e chiaro la dottrina perenne della Chiesa, ciò che la Chiesa ha sempre ed effettivamente ritenuto e detto.
Questo è lo scopo del presente saggio, che non è un trattato sulla giustificazione ma una semplice messa a punto delle verità contenute in proposito nel Deposito della Fede, oggi obnubilate. Il saggio è diviso in due parti:
I. Esposizione della vera dottrina della Chiesa sulla "giustificazione". In tre capitoli: Cap. 1: Il concetto della giustificazione; Cap. 2: L'eresia luterana della giustificazione per sola fede; Cap. 3: Il decreto tridentino sulla giustificazione.
II. Esposizione degli errores in fide per non dire vere e proprie eresie contenute nella Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione elaborata dalla presente Gerarchia assieme ai luterani: un documento senza precedenti, nella storia bimillenaria della Chiesa cattolica, la cui responsabilità ultima ricade come un macigno sulle spalle di ben t r e Papi: Giovanni Paolo II, Benedetto XVI, Francesco.
Pubblico qui il Cap. 1. Il Cap. 2 seguirà tra breve, a Dio piacendo.
I.
La vera dottrina della Chiesa sulla giustificazione
Sommario del Cap. 1. Il concetto della "giustificazione": 1.1 La manipolazione luterana di Rm 3, 28. 1.2 Il significato esatto della giustificazione per fede, che "perfeziona la legge". 1.3 Non c'è contraddizione tra san Paolo e san Giacomo sulla giustificazione. 1.4 San Paolo insegna (contro Lutero) che la giustificazione trasforma il peccatore in un uomo nuovo, solo a questo titolo capace di compiere le opere meritorie per la salvezza. 1.5 Il valore meritorio delle opere è stabilito espressamente da Nostro Signore. 1.6 Nostro Signore portò Abramo ad esempio anche per le sue opere. 1.7 L'episodio scabroso del temporaneo sequestro di Sara presso il Faraone e il re Abimelec non dimostra alcuna cattiva intenzione né opera malvagia da parte di Abramo e la castità del suo matrimonio fu salvata da Dio.
Cap. 1
Il concetto della "giustificazione"
In via sintetica e preliminare possiamo dire che il concetto della "giustificazione", spiegato egregiamente da S. Paolo nella Lettera ai Romani, vuol renderci edotti sul modo nel quale il singolo uomo possa esser "giustificato" agli occhi di Dio e quindi salvare la sua anima. La "giustificazione" è "l'esser riconosciuti giusti davanti a Dio" (Rm 3, 20), cosa che non poteva avvenire con la semplice osservanza "delle opere della Legge" (ivi) cioè del legalismo scrupolosissimo e ossessivo imposto dai Farisei: "quia ex operibus legis non iustificabitur omnis caro coram illo"[5]. Quand'è allora che noi possiamo apparire "giustificati" agli occhi di Dio ovvero esser "riconosciuti giusti" da Lui? Con parole nostre, di semplici credenti, rispondiamo: quando crediamo a tutto quello che ha detto e fatto e osserviamo tutto ciò che ci ha comandato di fare il Verbo Incarnato, Nostro Signore Gesù Cristo, nella vita di ogni giorno, in pensieri, parole, opere. E quindi: con la fede in Cristo e un comportamento coerente a quella fede. Naturalmente, ciò non è possibile senza l'aiuto della Grazia divina. Mediante tale aiuto abbiamo la fede nelle verità sovrannaturali del Cristianesimo e la forza di attuare le opere meritorie che Dio vuole da noi, consistenti in sostanza nell'osservanza di tutti e dieci i Comandamenti, compito indubbiamente arduo per le sole forze umane. Si può quindi affermare che il credente sia "giustificato" di fronte a Dio dalla sua fede e dalle sue opere, se buone, con l'aiuto della Grazia di Dio.
Gran parte della Lettera ai Romani (1, 14 - 11, 36) è dedicata alla delucidazione della dottrina sulla giustificazione, esposta sinteticamente anche nella Lettera ai Galati, scritta quest'ultima proprio per difendere i fedeli dagli errori dei giudaizzanti, che volevano continuare ad imporre ai cristiani le "opere della Legge", a cominciare dalla circoncisione, come se fossero ancora necessarie ed indispensabili per la salvezza, come se i catecumeni pagani dovessero diventare ebrei per poter essere cristiani. Il testo base resta comunque la Lettera ai Romani[6]. Un passo molto citato, fondamentale per comprendere questa dottrina, è il seguente:
"Ma ora, indipendentemente dalla Legge, si è manifestata la giustizia di Dio, attestata dalla Legge stessa e dai Profeti, giustizia di Dio che si ottiene per mezzo della fede in Gesù Cristo, da tutti quelli che credono, senza distinzione [di Ebrei e Gentili]. Tutti infatti hanno peccato sicché tutti sono privi della gloria di Dio e son gratuitamente giustificati dalla sua Grazia, mediante la redenzione che è in Gesù Cristo. Dio infatti ha stabilito Lui quale vittima propiziatrice, mediante la fede nel suo sangue, per manifestare la sua giustizia – poiché, nella sua tolleranza, aveva lasciati impuniti i peccati commessi prima – per manifestare [dico] la sua giustizia nel tempo presente, in modo che si riveli giusto lui e sia il giustificatore di chi ha fede in Gesù".
L'esposizione si conclude mostrando l'universalità della giustificazione, rettamente intesa. Viene superato il ristretto angolo visuale del Giudaismo.
"Dov'è dunque il motivo di vantarsi [da parte degli ebrei]? È escluso. Da qual legge? Delle opere? No! Ma dalla legge della fede. Infatti noi pensiamo che l'uomo è giustificato dalla fede, senza le opere della Legge. Forse Dio è soltanto Iddio dei Giudei? o non lo è pure dei Gentili? Sì, anche dei Gentili. Or, dato che vi è un solo Dio, egli come glorificherà per mezzo della fede il Giudeo, così per mezzo della fede glorificherà i Gentili. Distruggiamo dunque la Legge per mezzo della fede? No: anzi confermiamo la Legge"[7].
1.1 La manipolazione luterana di Rm 3, 28.
Bisogna ricordare, prima di procedere oltre, che Lutero ha falsificato il senso del versicolo da me sottolineato, inserendo nella sua traduzione in tedesco dello stesso un avverbio, solo, solamente (allein), come se san Paolo avesse scritto: "Infatti noi pensiamo che l'uomo è giustificato per la sola fede, senza le opere della Legge". In tedesco: "So halten wir nun dafür, dass der Mensch gerecht werde ohne des Gesetztes Werke, a l l e i n durch den Glauben"[8]. Ma l'avverbio "sola" o "solamente" nei Testi non c'è. Troviamo, infatti: "Arbitramur enim iustificari hominem per fidem sine operibus legis", che traduce letteralmente il greco dell'originale: "logizometha gar dikaiousthai pistei anthropon coris ergon nomou"
E a chi lo rimproverava per l'abuso ermeneutico, l'eresiarca rispondeva arrogantemente che "non stava traducendo parole, ma idee, e che il vocabolo che aveva aggiunto era necessario per far risaltare in tedesco la forza dell'originale. In tutte le revisioni che fece durante la sua vita non lasciò mai cadere quella parola: 'sola'"[9].
Ora, questa versione eretica della giustificazione (per sola fede) riappare nella Dichiarazione congiunta cattolico-luterana, ogni volta che la si nomina in una dichiarazione appunto comune o congiunta. Eccone un florilegio:
Art. 15. […] Insieme confessiamo che non in base ai nostri meriti, ma soltanto per mezzo della grazia, e nella fede nell'opera salvifica di Cristo, noi siamo accettati da Dio e riceviamo lo Spirito Santo, il quale rinnova i nostri cuori, ci abilita e ci chiama a compiere le buone opere.
Art. 17. Condividiamo anche la convinzione che […] essa [l'azione salvifica di Dio in Cristo] ci dice che noi, in quanto peccatori, dobbiamo la nostra vita nuova soltanto alla misericordia di Dio che perdona e che fa nuove tutte le cose, misericordia che noi possiamo ricevere soltanto come dono nella fede, ma che non possiamo meritare mai e in nessun modo.
Art. 19. Insieme confessiamo che l'uomo dipende interamente per la sua salvezza dalla grazia salvifica di Dio. La libertà che egli possiede nei confronti degli uomini e delle cose del mondo non è una libertà dalla quale possa derivare la sua salvezza […] La giustificazione avviene soltanto per opera della grazia […].
Art. 37. Insieme confessiamo che le buone opere – una vita cristiana nella fede nella speranza e nell'amore – sono la conseguenza della giustificazione e ne rappresentano i frutti […][10].
Da quest'ultimo articolo sembra appunto che le "buone opere" siano solo una conseguenza della fede nostra nella salvezza, ottenutaci già da questa stessa fede, e non cooperino invece in modo necessario alla salvezza, poiché (come insegna il Concilio di Trento) alla nostra salvezza deve concorrere anche il nostro libero arbitrio, attuantesi in una carità attiva. Ma questo art. 37 è per l'appunto dottrina luterana, sottoscritta a piene mani dalla Chiesa cattolica! E come stupirsene, dal momento che, negli altri articoli, si è accettato l'errore del sola fide? In questi articoli 15, 17 e 19 della Dichiarazione, inoltre, anche la grazia sembra unicamente un dono dall'alto, ai fini della giustificazione, come se la nostra "libertà" (il nostro libero arbitrio e la nostra volontà) non cooperassero affatto alla nostra giustificazione; come se nell'uomo giustificato non ci fosse alcun rinnovamento interiore. Ma questo modo di intendere la grazia nell'ambito della giustificazione è stato espressamente condannato dal Tridentino al can. 11 del Decreto sulla giustificazione: "Se qualcuno afferma che gli uomini sono giustificati o per la sola imputazione della giustizia del Cristo […] o anche che la grazia, con cui siamo giustificati, è solo favore di Dio: sia anatema"[11].
È evidente che le definizioni dogmatiche e le condanne del Concilio di Trento non hanno più alcun significato per l'attuale Gerarchia cattolica, post-conciliare ed ecumenista. La Dichiarazione congiunta rende praticamente incerta e confusa anche la conoscenza popolare del dogma della giustificazione, quale si poteva per esempio ricavare da una diffusa Introduzione alla teologia degli anni Ottanta del secolo scorso, più volte ristampata. Nel Glossario dei concetti e dei sistemi teologici principali, posto in appendice, troviamo, alla voce Giustificazione: "Da "giustificare" che significa rendere giusto. In teologia il termine è usato per indicare l'azione con cui Dio, per mezzo di Gesù Cristo, rende giusti gli uomini, cioè li santifica e li fa coeredi della vita eterna. Quest'azione divina è paragonata da Gesù a una rigenerazione [Gv 3, 5 ss.], mentre da Paolo viene detta una nuova creazione [in realtà san Paolo non differisce da Gv 3, 5ss.]. Rivolta all'uomo, che è essenzialmente intelligente e libero, la g. è l'offerta di un dono, il quale per divenire operante esige corrispondenza ed esclude il rifiuto. Questo è il senso che si deve dare al concetto di cooperazione (fondamentale nella teologia cattolica) quando si parla di collaborazione dell'uomo alla g. La g. opera in profondità nel cuore dell'uomo, non è semplicemente un'imputazione della santità di Cristo all'uomo, che sarebbe essenzialmente corrotto ed insanabile, come sosteneva Lutero. Questa interpretazione estrinsecista della g. fu condannata dal concilio di Trento (sess. VI, cc. 7-9)"[12].
Adesso l'estrinsecismo degli eretici (l'idea che la Grazia ci salva semplicemente coprendo i nostri peccati dall'esterno, come un mantello, per i meriti della Croce) non lo troviamo sottoscritto anche dalla Chiesa cattolica, nelle dichiarazioni congiunte sopra citate? Nel prosieguo di quella Dichiarazione congiunta si cerca anche di metter in rilievo delle differenze tra noi e i luterani, ma dopo aver premesso dichiarazioni comuni che contengon l'errore, il quale di per sé contraddice e rende superflue quelle differenze. Tutto ciò non è manifestamente assurdo?
1.2 Il senso esatto della giustificazione per fede, che "perfeziona la legge"
Esaurito quest'inciso, che verrà sviluppato nella II parte di questo saggio, torniamo al passo della Lettera ai Romani citato.
Oscuro appare, a prima vista, l'accenno, ivi contenuto, alla "tolleranza" di Dio che non avrebbe punito i peccati "commessi prima". Ma qui l'Apostolo vuol dire, ci spiegano i commentatori, che "Dio ha tollerato la corruzione senza punirla, onde redimere totalmente il genere umano per i meriti di Gesù Cristo", come risulta dal versetto immediatamente successivo. Senza punirla, cioè (aggiungo) senza distruggere l'intero genere umano ma lasciando crescere in questo mondo il buon grano assieme alla zizzania al fine di offrire all'intero genere umano (e non più ai soli ebrei) la possibilità della salvezza mediante l'Incarnazione del Verbo e il suo Sacrificio[13].
Il senso esatto del concetto: "giustificazione e quindi salvezza dalla fede in Cristo e non dalle opere della Legge" è illustrato anche dal versetto immediatamente successivo, nel citato passo di san Paolo: "Forse Dio è soltanto Iddio dei Giudei? o non lo è pure dei Gentili?". Erano i giudei a ritenere che bastassero le "opere della Legge", come interpretata in ultimo dai Farisei, a garantire la giustificazione; della Legge data da Dio ai soli ebrei, un Dio concepito ancora come Dio nazionale, che escludeva tutto il resto dell'umanità, senza tener conto dell'ampliamento della prospettiva della salvezza a tutti gli uomini già apparso nei Profeti. Invece, insegna san Paolo divinamente ispirato, Dio n o n è soltanto "Iddio dei Giudei", lo è di tutti gli uomini e quindi anche dei gentili, dei pagani. La "glorificazione" cioè l'eterna salvezza nella Gloria di Dio, Dio, che è un solo Dio, la concederà pertanto mediante la fede in Cristo sia ai Giudei che ai Gentili, in quanto possibilità universale di salvezza. L'inutilità delle sole opere per la giustificazione riguarda le opere della Legge giudaica, con il loro tipico formalismo, come se l'osservanza esteriore, prescindendo dalla fede di chi opera, bastasse ad esser assolti dai peccati e giustificati di fronte a Dio. Ora, questa fede, dopo l'Avvento di Nostro Signore quale "vittima propiziatrice", che ci ottiene cioè misericordia (propitiatio) per i nostri peccati, per i peccati di tutti gli uomini e non dei soli ebrei, non può esser altro che fede "in Gesù" in quanto Figlio di Dio e Verbo Incarnato. Tale fede non contraddice la Legge degli ebrei ma anzi "la compie" perché Gesù Cristo è il Messia annunziato dalle Profezie e dalla Legge data agli ebrei e rappresenta anzi il compimento naturale del Giudaismo, compimento che un giorno avverrà, secondo la nota profezia di Rm 11, 25-27. Infatti, la "giustizia di Dio", mediante la quale siamo giustificati, manifestatasi tramite il Cristo "indipendentemente dalla Legge", è stata tuttavia "attestata dalla Legge stessa e dai Profeti".
Così i commentatori ci illustrano la giustificazione per fede qui rivelata e spiegata tramite l'Apostolo delle Genti. "La fede che giustifica abbraccia due tempi:
Credere fermamente a tutto ciò che Dio ha rivelato.
Vivere secondo quel che si crede, compiendo i nostri doveri quotidiani in grazia di Dio.
Poiché la fede che inizialmente non mirasse già alle opere, sarebbe vana e si risolverebbe nel dire sì a parole e no a fatti; mentre la fede che inizialmente sia vera, se si ferma a metà e, potendo, non arriva alle opere, ridiventa vana perché non produce i frutti che deve. La fede senza le opere è morta; le deve avere o nel desiderio o nella realtà"[14].
1.3 Non c'è contraddizione fra san Paolo e san Giacomo sulla giustificazione.
Le ultime parole della citazione sopra appena riportata, sono tratte in parte dall'Epistola di San Giacomo, che Lutero dichiarò doversi ritenere "un'epistola di paglia" ovvero senza valore, che avrebbe dovuta esser tolta dal Canone! Ovvio che così si esprimesse, dato che condannava con quasi quindici secoli di anticipo l'errore da lui stesso sostenuto[15].
"Vuoi dunque convincerti, o uomo stolto, come la fede senza le opere è inutile? Abramo, nostro padre, non fu giustificato per mezzo delle opere, offrendo il suo figlio Isacco sull'altare? Tu vedi bene che la fede agiva insieme alle opere di lui e che per mezzo delle opere la fede fu resa perfetta; e si compiva così quello che dice la Scrittura: "Credette Abramo a Dio e gli fu ascritto a giustizia e fu chiamato amico di Dio". Voi dunque vedete che l'uomo è giustificato dalle opere e non soltanto dalla fede. Ed anche Raab, la meretrice, non venne forse giustificata dalle opere, cioè accogliendo i messi e facendoli poi ripartire per un'altra via? Come il corpo senz'anima è privo di vita, così la fede senza le opere è morta" (Gc 2, 20-26).
I seminatori di discordia e di eresia, tra i quali ovviamente Lutero, hanno sempre cercato di vedere un contrasto insanabile tra san Paolo e quanto scritto qui da san Giacomo, uno dei Dodici, cugino di Cristo, detto il Minore, per distinguerlo da S. Giacomo fratello di S. Giovanni Evangelista, detto il Maggiore, ucciso dagli ebrei verso la Pentecoste dell'AD 42, dodici anni dopo la morte di Cristo. San Girolamo ha raccolto la tradizione secondo la quale egli fu eletto vescovo di Gerusalemme da Nostro Signore risorto, che sembra essergli apparso molte volte. Tenne la sua sede per circa trent'anni. San Paolo lo definì una delle colonne della Chiesa. Fu martirizzato dagli ebrei, tra il 62 e il 63, sotto il pontificato di Anania, durante un tumulto popolare istigato da Scribi e Farisei[16].
Come afferma il commento alla Sacra Bibbia anteriore al Concilio, "S. Giacomo completa e spiega la dottrina di S. Paolo: S. Paolo parla della fede come radice delle opere buone che suppone. S. Giacomo parla delle opere come frutto della fede. Così S. Paolo (Rm 3, 28; 4, 2) riportando Gn 15, 6 [cioè la giustificazione di Abramo, avvenuta per fede], parla delle opere della Legge mosaica. S. Giacomo parla delle opere che seguono necessariamente la giustificazione e procedono dalla fede e dalla grazia (v. Conc. di Trento, sess. VI, cap. 8-10)". In conclusione: "Da S. Paolo e da S. Giacomo risulta che agli adulti son necessarie la fede e le opere per salvarsi e che vien prima la fede, poi le opere, quindi il merito e finalmente la salute eterna"[17].
Il commento manca nell'edizione post-conciliare, che comunque ricorda come san Giacomo abbia di mira soprattutto "le opere della carità" mentre san Paolo parla delle "opere della legge cioè delle osservanze giudaiche"[18]. In effetti, san Giacomo comincia a spiegare muovendo dalle opere della carità cristiana (aiutare i poveri, i malati etc., altrimenti a che serve la fede? vv. 14-18). Tuttavia, come dimostra l'esempio dell'episodio biblico di Abramo ed Isacco apportato dallo stesso san Giacomo, egli imposta il discorso in modo più ampio. Ma sempre mantenendo il reciproco equilibrio tra fede ed opere, anzi la loro mutua integrazione ai fini della giustificazione. Ciò risulta chiaramente dalla concatenazione dei concetti, dai termini impiegati. "La fede agiva insieme alle opere di Abramo e per mezzo delle opere fu resa perfetta": "Vides quoniam fides cooperabatur operibus illius: et ex operibus fides consummata est" (Gc 2, 22-23, cit.).
L'atto dello "agire insieme" è espresso in greco con sunergei, cooperava. Si tratta quindi di una "sinergia", termine oggi diffuso, in altro ambito rispetto a quello religioso. Siffatto "agire insieme" non può essere occasionale o facoltativo, rispetto alla fede, dalla quale prende sempre le mosse. Anzi, è proprio da quest'agire congiunto, attuandosi nelle opere, che la fede "viene resa perfetta". Il latino consummata est traduce il verbo greco eteleiote nel quale c'è il vocabolo telos: fine, ma anche il fine, lo scopo dell'azione. Giusto pertanto dire, in italiano: "la fede fu resa perfetta". Si perfezionò nella realtà concreta della vita di Abramo, compiendosi nelle opere attuate per la fede nella Parola divina, che per noi è quella di Gesù Cristo Nostro Signore, il Verbo Incarnato. Le opere non si sostituiscono alla fede né la fede alle opere: la salvezza può venire solamente dalla loro sinergia. O cooperazione, secondo il modo di esprimersi del Tridentino.
Come è stato notato, san Giacomo si rivolgeva a cristiani evidentemente tiepidi, lassisti, o duri di cuore, convinti che bastasse la sola fede per salvarsi. Egli doveva richiamarli severamente al dovere delle opere, se veramente avevano la fede in Cristo. E innanzitutto per coerenza, se si è uomini che sanno usare rettamente l'intelletto e non teste vuote (inanes, kenoi). San Paolo, al contrario, si rivolgeva a ebrei e a convertiti giudaizzanti, i quali facevano dell'osservanza delle regole legali del giudaismo, a cominciare dalla circoncisione, un articolo di fede, vera e propria pietra d'inciampo per la conversione dei pagani e sminuimento del significato salvifico e messianico del Cristo[19]. Doveva quindi ribadire, san Paolo, che la giustificazione dell'uomo peccatore viene non dal legalismo giudaico ma dalla fede in Cristo, crocifisso per i nostri peccati e risorto per la nostra gloria; fede che otteniamo per Grazia, gratuitamente come gratuito è stato il Sacrificio di Cristo, ma non senza la nostra cooperazione ("Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto", Lc 11, 9). E fede, che, per esser veramente tale, deve completarsi nelle opere necessarie alla nostra salvezza.
1.4 San Paolo insegna (contro Lutero) che la giustificazione trasforma il peccatore in un uomo nuovo, solo a questo titolo capace di compiere le opere meritorie per la salvezza.
Anche san Paolo incita a "fare il bene" ovvero a compiere le opere buone, se si vuole entrare nella vita eterna. Ciò si vede chiaramente nella Lettera ai Galati. Ai Galati che si erano lasciati sedurre dai giudaizzanti durante l'assenza dell'Apostolo, san Paolo ribadisce con dovizia di argomenti che la giustificazione avviene solo mediante la fede in Cristo perché solo da essa nasce l'uomo nuovo capace di compiere le opere meritorie per la salvezza.
"Noi che siamo Giudei per nascita e non peccatori provenienti dai Gentili, sapendo che l'uomo non è giustificato mediante le opere della Legge [mosaica], ma soltanto dalla fede in Gesù Cristo, noi pure abbiamo creduto in Cristo Gesù, per essere giustificati dalla fede in Cristo e non dalle opere delle Legge [mosaica], perché dalle opere della Legge non sarà mai giustificato nessuno" (Gal 2, 15-16).
L'Apostolo spiega poi come la fede in Cristo non sia una semplice credenza fiduciosa nella remissione dei nostri peccati da parte di Cristo: quella fede rinnova completamente il credente, lo fa diventare un uomo nuovo in Cristo.
"È infatti, per seguire la Legge che io sono morto a quella Legge, per vivere a Dio. Sono stato crocifisso per sempre con Cristo. Dunque non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me. E pur continuando a vivere nella carne, io ormai vivo per la fede nel Figlio di Dio, il quale mi ha amato e ha sacrificato se stesso per me. Or, io non voglio rigettare la grazia di Dio, quasi non valesse nulla; difatti, se la giustizia si ottiene per mezzo della Legge, Cristo è dunque morto invano" (Gal 2, 19-21).
Il senso di questo famoso brano appare chiaro. È per "seguire la Legge" che san Paolo, zelante fariseo, perseguitava i cristiani. Ma sulla via di Damasco, in seguito alla famosa apparizione di Nostro Signore, egli "morì a quella Legge" e cominciò a "vivere a Dio", a servire Dio che si era rivelato in Cristo Nostro Signore, facendo apparire la vanità della Legge, con tutti i suoi formalismi e ritualismi, creati dagli uomini. Perciò l'uomo che san Paolo era "fu crocifisso con Cristo": morì, spiritualmente parlando, come Cristo morì sulla Croce in quanto vero uomo per rinascere con il suo corpo tre giorni dopo. E, ad imitazione di Cristo, rinacque san Paolo ma in Cristo, poiché dal momento della sua conversione miracolosa "Cristo viveva in lui".
Ecco dunque che la fede in Cristo crocifisso, se autentica, ci deve portare a vivere in Cristo, facendo per quanto possibile sparire l'uomo peccatore che eravamo e sostituendolo con l'uomo nuovo nel quale vive Cristo. Con la fede viviamo in Cristo che però vive in noi, trasformandoci interamente. Come ha detto Nostro Signore: "Se uno mi ama, osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà, e verremo a lui e dimoreremo in lui" (Gv 14, 23). E questo dimorare [mansionem facere] del vero Dio, Uno e Trino, in noi, può avvenire senza rigenerarci spiritualmente? Senza costituire quel rinnovamento interiore che ci sostiene in modo soprannaturale nella nostra consapevole lotta quotidiana contro noi stessi per compiere le opere della nostra santificazione?
La rigenerazione interiore apportata dalla fede in Cristo, ha un carattere radicale, essa annulla tutte le differenze vigenti tra gli esseri umani, realizzando la loro unità con Cristo Gesù. Ne consegue che la missione della Legge non è più attuale, il suo dominio è per sempre finito.
"Prima però che venisse la fede [in Cristo] eravamo rinchiusi e custoditi nel carcere della Legge in attesa della fede, che doveva esser rivelata. E così la Legge è stata il nostro pedagogo, per ricondurci a Cristo, affinché fossimo giustificati per mezzo della fede [in Cristo]. Ma venuta la fede, non siamo più sotto il pedagogo. Voi tutti, infatti, siete diventati figli di Dio per mezzo della fede in Cristo Gesù; perché, quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete pur rivestiti di Cristo. Non c'è dunque più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna, perché tutti siete un sol uomo in Cristo Gesù. E se siete di Cristo, siete dunque progenie di Abramo, perciò eredi secondo la promessa" (Gal 3, 23-29).
La fede in Cristo ci rende "figli di Dio" per adozione e "progenie di Abramo" in senso spirituale non carnale perché siamo quella grande nazione promessa da Dio ad Abramo. Il battesimo e comunque la conversione fa sì che noi "siamo rivestiti di Cristo". Quest'immagine indica tutta la portata della trasformazione interiore che la fede in Cristo deve produrre. Non si tratta di un rivestimento esteriore ma di un esser vestiti di nuovo, di un completo rinnovamento, di mutare nel profondo dell'anima. È la medesima verità annunciata da Gesù a Nicodemo: "In verità, in verità ti dico che uno, se non nascerà di nuovo, non può vedere il regno di Dio" (Gv 3, 3).
I cristiani, sono dunque "chiamati alla libertà" (Gal 5, 13) dal momento che sono stati liberati dalla servitù della Legge mosaica. Questa libertà non significa però libertà dalla legge morale, come se essi avessero la salvezza comunque garantita qualunque cosa facciano. La libertà del cristiano deve esser usata per compiere le opere indispensabili alla nostra salvezza.
"Non vogliate fare di questa libertà un'occasione per vivere secondo la carne; ma anzi procurate, per mezzo della carità, di esser servi gli uni degli altri. Tutta la legge, infatti, si compendia in questo solo comando: - Ama il prossimo tuo come te stesso" (Gal 5, 13-14). Non bisogna dunque vivere "secondo la carne" ma "secondo lo spirito". E come si vive "secondo lo Spirito", che è vivere secondo la vera libertà del cristiano? Facendo le opere dello spirito e non quelle della carne. Dalle opere si vede il vero cristiano, colui che si è effettivamente "rivestito di Cristo".
San Paolo fa l'elenco dettagliato delle "opere della carne", che coincidono in pratica con i sette peccati capitali, in tutte le loro molteplici sfumature. E ammonisce: "coloro che fan tali opere non avranno in eredità il regno di Dio" (Gal 5, 21). Il che significa che andranno all'Inferno e per sempre. Le "opere dello spirito" sono invece: "la carità, la gioia, la pace, la pazienza, la benignità, la bontà, la fedeltà, la dolcezza, la temperanza" (Gal 5, 16-24). Tutte queste "opere" o "frutti dello spirito" non hanno nulla a che fare con la Legge, dalla cui schiavitù ci libera la fede in Cristo per consentirci di fare le vere opere dello spirito, il che significa "crocifiggere la carne con le sue passioni e concupiscenze" (ivi, 23-25). Vi sono perciò delle opere che ci meritano la dannazione di contro a quelle che ci meritano la vita eterna, l'eredità costituita dal regno di Dio. Pertanto, san Paolo fa chiaramente capire che la salvezza non viene dalla sola fede; bisogna che la fede in Cristo si attui nelle buone opere, se si vuole ottenere la vita eterna. A seconda delle sue opere ognuno sarà giudicato.
"Non vi fate illusioni: Dio non si lascia irridere; ognuno, infatti, mieterà quello che avrà seminato, e quindi chi semina nella sua carne, dalla carne mieterà la corruzione, chi invece semina nello spirito, dallo spirito mieterà la vita eterna. Non ci stanchiamo di fare del bene, perché se non ci stancheremo, a suo tempo mieteremo. Dunque, finché abbiamo tempo facciamo del bene a tutti ma specialmente ai nostri fratelli nella fede" (Gal 6, 7-10).
Se vi sono opere che ci condannano alla dannazione di contro ad altre che ci assicurano la vita eterna, ciò significa che, per san Paolo, la sola fede nella salvezza procurataci dalla Croce di Cristo non è sufficiente a salvarci. Egli sta parlando a dei cristiani, passibili di compiere le "opere della carne" nonostante la loro fede. Li ammonisce, pertanto, a dedicarsi alle buone opere, se vogliono la vita eterna. Nelle istruzioni a Timoteo vescovo, dice, in chiusura della seconda Lettera a Timoteo, di raccomandare ai ricchi che "facciano del bene, si arricchiscano di buone opere [divites fieri in bonis operibus], siano liberali, generosi, e si accumulino così per l'avvenire un tesoro posto su solide basi, che assicuri loro la vera vita [cioè la vita eterna]" (1 Tm 6, 18-19). Si vede o no chiaramente, anche da questo passo, che le opere buone sono necessarie e quindi meritorie per la vita eterna? Chi vive facendo opere cattive, la fede, se ce l'ha, non lo salva. Nell'insegnamento di san Paolo il luterano "pecca fortiter sed crede fortius" è del tutto escluso, così come in quello di san Giacomo.
1.5 Il valore meritorio delle opere è stabilito espressamente da Nostro Signore.
L'immagine paolina del costituirsi un solido tesoro con le buone opere, per esser graditi a Dio e ottenere la salvezza, ne ripete una consimile usata da Nostro Signore nel Discorso della Montagna:
"Non vogliate accumulare tesori sulla terra, dove la ruggine e la tignola consumano e dove i ladri sfondano e rubano; ma accumulatevi dei tesori nel cielo, dove né ruggine né tignola consumano, e dove i ladri non sfondano né rubano. Perché là dov'è il tuo tesoro, ci sarà pure il tuo cuore" (Mt 6, 19-21).
L'analogia con l'accumular tesori appare piuttosto evidente: il tesoro in senso mondano è un'accumulazione di beni sotto forma di metalli preziosi, frutto del nostro lavoro o comunque di una nostra attività; frutto, quindi, delle nostre opere. Ma questi tesori terreni sono labili, si decompongono o vanno smarriti o vengono rubati. Il tesoro che dobbiamo accumulare con le nostre opere, affinché duri in eterno, è quello che dobbiamo accumulare in cielo e sarà costituito dalle nostre buone opere, fatte per la fede in Cristo, per adempiere i comandamenti divini. È il tesoro delle nostre buone azioni a costituire un bene indistruttibile agli occhi di Dio, che ci verrà appunto attribuito a merito nel giorno del Giudizio. Nel simbolismo del tesoro da costituirsi in cielo non si potrebbe trovare, io credo, un'affermazione più evidente del carattere meritorio e quindi indispensabile delle nostre buone opere, ai fini della salvezza.
E quando Nostro Signore rivelò in base a quale criterio avrebbe diviso l'umanità in Eletti e Reprobi nel giorno del Giudizio Universale, non mostrò forse che il criterio era costituito dalla qualità delle nostre opere? Chi avrà fatto le buone opere che Dio si aspetta da lui sarà salvato mentre gli operatori d'iniquità saranno dannati. I buoni, nel compier l'opera della carità verso il prossimo è come l'avessero compiuta nei confronti di Cristo; i malvagi, nel rifiutarsi, è come si fossero rifiutati di farla a Cristo (Mt 25, 31-46). Questo è dunque il criterio della divina giustizia, per esser giustificati: fare o non fare ciò che Dio vuole noi si faccia, cioè il bene verso il prossimo per amor di Dio. In ciò è il merito o il demerito che si accumula per la vita eterna o la dannazione. La scelta finale fra Eletti e Reprobi sulla base delle opere di ciascuno deriva dall'applicazione del comando di amare il prossimo per amor di Dio (e non, come si tenta di far credere oggi, per la supposta sublime dignità dell'essere umano, poiché nell'Incarnazione Cristo si sarebbe in certo modo unito ad ogni uomo – Gaudium et spes 22.2). Come hanno sempre spiegato i commentatori ortodossi del Vangelo: " Si osservi come questo esame degli uomini al giudizio universale sia condotto su atti di carità; la ragione è quella rilevata in Mt 7, 12"[20].
Verso la fine del Discorso della Montagna, il Signore incita a fare le buone opere nei confronti degli altri, vincendo la nostra malvagità, che sappiamo essere la conseguenza del peccato originale.
"E chi è mai tra voi, che, quando il figliolo suo gli chiede del pane, gli dia un sasso? O richiesto di un pesce, gli dia una serpe? Ora se voi, pur essendo cattivi, sapete dare buoni doni ai vostri figli, quanto più il Padre vostro, che è nei cieli, darà cose buone a quelli che gliele domandano? Fate dunque agli altri tutto ciò che volete che gli altri facciano a voi; perché questa è la legge e i Profeti" (Mt 7, 9-12).
Per esser graditi a Dio bisogna dunque fare le buone opere che Dio vuole noi facciamo. E queste opere vanno fatte proprio per perfezionare la fede nostra in Dio, che non può non tradursi in obbedienza concreta a tutto ciò che Egli ci comanda. E ci comanda, appunto, di f a r e (facere, poiein); fare il bene da Lui stabilito al fine di meritare ai suoi occhi ed esser da Lui giustificati.
Il Signore ci esorta dunque ad esser buoni, a vincere la nostra cattiveria naturale cioè la parte di noi incline alla cattiveria. Al contrario di quanto afferma Lutero, ci esorta a non peccare poiché Egli detesta e non accetta il peccatore che rimanga tale, che non si è pentito e che non ha cambiato vita o che comunque non lotti contro se stesso per cambiarla, ricorrendo a Lui. Sempre alla fine del Discorso della Montagna, che è il fondamento dell'etica cristiana, c'è la celebre ripulsa degli "operatori d'iniquità" cioè di coloro che hanno vissuto operando l'iniquità e vorrebbero salvarsi, alla fine, solo per la loro fede in Cristo, nel cui nome avrebbero addirittura compiuto profezie e prodigi. Il brano viene subito dopo quello nel quale Nostro Signore denuncia i falsi profeti e sembra esser stato detto apposta per tutti coloro i quali, come poi Lutero, hanno voluto vedere la salvezza nel sola fide.
"Non chiunque mi dice: - Signore! Signore! – entrerà nel Regno dei Cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio, che è nei cieli. Molti mi diranno in quel giorno [quello del Giudizio]: - Signore, Signore, noi abbiamo profetato nel tuo nome, e nel tuo nome abbiam cacciato i demoni e nel tuo nome compiuti molti prodigi! Ma io dirò loro: - Non vi conosco; andate via da me, operatori d'iniquità!" (Mt 7, 21-23). E conclude: "Perché chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, sarà paragonato all'uomo saggio, che si è fabbricato la casa sulla roccia" (Mt 7, 24). Le mette in pratica: facit ea - poiei autous : chi "le fa", nella prassi. E se la sua casa, cioè la sua vita, apparirà costruita "sulla roccia", sì da resistere a tutte le tempeste (prosegue il testo, Mt 7, 25-27), cosa significa questo se non che le opere nostre che mettono in pratica, che fanno le parole di Cristo, ci meritano la vita eterna? Per entrarvi, bisogna dunque mettere in pratica i suoi insegnamenti, non basta la fede: "Perché mi chiamate: Signore, Signore! e poi non fate quello che vi dico?" (Lc 6, 46).
Ce la meritano a completamento della nostra fede e accanto alla nostra fede, possiamo dire. Perché gli ebrei increduli saranno condannati per la loro mancanza di fede in Nostro Signore.
"E tu, Cafarnao, sarai esaltata sino al cielo? Tu discenderai sino all'inferno: perché se in Sodoma fossero avvenuti i miracoli operati in te, oggi ancora sussisterebbe. E però vi dico, che nel giorno del giudizio il paese di Sodoma sarà trattato meno duramente di te" (Mt 11, 23-24).
I miracoli sono l'opera divina per eccellenza di Nostro Signore. L'incredulità dei giudei riguardava le sue opere. Ciò significa che le opere devono considerarsi strumento di conversione. Lutero vuol ridurre tutto il messaggio cristiano alla Parola di Cristo e alla fede in questa parola salvatrice, fede che già ci procurerebbe la salvezza. Ma i Vangeli testimoniano che Nostro Signore voleva convertire anche con le opere. Al punto da dire ai Farisei, durante una delle loro dispute, allorché gli chiedevano con aria di sfida, di dir loro apertamente se era il Cristo: "Ve l'ho detto, ma non mi credete; le opere che faccio in nome del Padre mio, queste mi rendono testimonianza, tuttavia non mi credete perché non siete delle pecore mie"(Gv 10, 24-25). Questa era la situazione, anche se molti credevano in Lui ma non lo dicevano per paura dei Farisei (Gv 12, 42). "Se non fo le opere del Padre mio, non mi credete. Ma se le fo, anche se non volete credere a me, credete alle opere, affinché sappiate e conosciate che il Padre è in me ed io sono nel Padre" (Gv 10, 37-38). Quindi: se non volete credere a quello che dico, credete almeno per via di quello che faccio. Non credete a me quando vi dico e dimostro che vengo dal Padre e che Io e il Padre siamo una cosa sola, "siamo uno" (Gv 10, 30)? Se non credete alla mia Parola, credete allora nella mia opera. I miracoli che ho fatto (e che miracoli, erano!) non dimostrano la mia natura divina, e quindi che Io e il Padre siamo l'unum et identicum? Le opere del Signore, i suoi miracoli, contano dunque per credere in Lui, anche se non si crede in Lui solo a causa dei suoi miracoli. E se, per alcuni o per molti, contano soprattutto le sue opere, i miracoli, per credere in Lui, poco male: lo stesso divino Maestro ci autorizza a credere per questa via, conoscendo bene la nostra fragilità. Le opere di Gesù testimoniano la sua divinità, per la salvezza della nostra anima. Se esse, dunque, rendono testimonianza della natura divina di Cristo, inducendoci alla fede, perché le nostre buone opere non devono anch'esse render testimonianza al Padre e al Figlio della nostra natura umana, rigenerata dalla Parola del Figlio, meritandoci in tal modo la vita eterna?
Inoltre, nelle repliche ai Farisei, si è visto che Nostro Signore giunge a separare la fede dalle opere, nel senso che attribuisce alle opere da Lui compiute la capacità di far sorgere la fede nostra, che si inchina di fronte al miracolo, anche quando tale fede non riusciamo ad ottenerla dalla Parola da Lui predicata. In tal modo, si potrebbe dire, l'esempio delle opere di Cristo serve a suscitar la fede anche senza la fede, almeno provvisoriamente. Da parte nostra, si tratta allora di umiltà di fronte al manifestarsi del miracolo (la divina potenza che dispone della natura come vuole) e di obbedienza: crediamo al Signore per le sue opere, ci aggrappiamo alle opere del Signore, anche quando non abbiamo ancora la fede compiuta nelle sue Parole, sperando di tenerci a galla con tale aggancio, sino a giungere al porto sicuro della fede completa e sicura di sé. In tal modo può operare in noi la Parola di Cristo, quando ci incita ad affidarci alle sue opere e al salvamento che la fede nelle opere richieste dalla morale e dalla devozione da Lui insegnata può rappresentare, per la nostra anima. Ciò risulta, per esempio, nell'esperienza di mistici e grandi santi, come Santa Teresa di Lisieux, afflitta per tanto tempo dalla "notte dello spirito" prodotta dai dubbi sulla fede che la torturavano, desolazione che essa chiama nuit du néant.
"Il permit [Gesù] que mon âme fût envahie par les plus épaisses ténèbres et que la pensée du Ciel si douce pour moi ne soit plus qu'un sujet de combat et de tourment […] Il faut avoir voyagé sous ce sombre tunnel pour en comprendre l'obscurité […] Ah! que Jésus me pardonne si je lui ai fait de la peine! Mais il sait bien que tout en n'ayant pas la jouissance de la foi, je tâche au moins d'en faire les oeuvres".[21]
Che le buone opere, compiute anche senza aver ancora la fede, pur ancora insufficienti come tali alla salvezza, possano comunque indurre Dio alla misericordia nei nostri confronti, sì che i nostri cuori comincino ad aprirsi alla Grazia, non risulta forse da quest'altro famoso passo dei Vangeli: "E chi avrà dato da bere anche un sol bicchier d'acqua fresca ad uno di questi piccoli, perché è mio discepolo, in verità vi dico: non perderà la sua ricompensa" (Mt 10, 42)?
1.6 Nostro Signore portò Abramo ad esempio anche per le sue opere
Come si è visto, l'interpretazione gioachimita della fedeltà di Abramo al comando divino mediante le opere potrebbe sembrare a prima vista opposta a quella di san Paolo, che invece esalta la fede di Abramo, dicendolo giustificato da essa prima ancora che dalle sue buone opere, dal momento che la Scrittura, sottolinea san Paolo, testimonia che : "Abramo credette a Dio e ciò gli fu ascritto a giustizia [Gn 15, 6]". Abbiamo dimostrato l'inesistenza di questa opposizione, ossia la validità dell'interpretazione sempre insegnata dalla Chiesa cattolica (vedi infra, cap. 3).
San Paolo non ha mai insegnato che Abramo fu giustificato per la sola fede, come vuol far credere Lutero. Quando Abramo fu chiamato da Dio che gli ordinò di lasciare la sua terra ("Esci dalla tua terra, dalla tua gente, dalla casa del padre tuo e vieni nella terra che ti additerò" – Gn 12, 1) e gratificato della promessa di una grande discendenza sì che in lui sarebbero state benedette "tutte le genti della terra" (ivi, 2), la Legge (mosaica) ancora non esisteva. Egli obbedì e credette alla promessa di Dio che l'aveva chiamato, pertanto fu giustificato – trovato giusto – agli occhi di Dio esclusivamente a causa di questa sua obbedienza e fede immediata e senza tentennamenti in ciò che Dio gli aveva detto. E come avrebbe potuto accadere diversamente? Se ad un uomo Dio parla direttamente, dandogli degli ordini e facendogli una grande promessa, costui obbedirà e crederà a Dio in base all'autorità di Dio che gli parla: crederà perché è Dio che gli sta parlando. Sarà quindi gradito a Dio e trovato da lui giusto esclusivamente in base alla fede dimostrata nella parola di Dio. "Abramo non vedeva ancora nulla, ma credette sull'autorità di Dio che gli parlava, come se le cose fossero già avvenute e si affidò a tale fede, uniformando pienamente a quella tutta la sua condotta. Anche noi crediamo sull'autorità di Dio che rivela"[22]. Abramo non avrebbe potuto esser giustificato per le sue opere se prima non lo fosse stato per la sua fede, che gli fu richiesta prima ancora delle opere; ma, se non avesse fatto seguire le opere alla fede, vana sarebbe stata la sua fede. E le opere vennero immediatamente già con l'obbedire al comando divino che gli ingiungeva di partirsi dal suo paese natìo senza sapere dove sarebbe andato.
In una delle loro dispute con Nostro Signore, i Farisei, rifiutando alteramente il suo insegnamento perché, dicevano, in quanto "progenie di Abramo" non ne avevano bisogno, si ebbero questa risposta: "se siete figli di Abramo, fate le opere di Abramo. Ma intanto cercate di far morire me, uomo che v'ho detto la verità, quale io l'ho udita presso Dio; Abramo non fece così"(Gv 8, 39-40).
Non bastava dunque aver la fede di Abramo per esser veramente "figli di Abramo": occorreva anche "fare le opere di Abramo", dimostrare con le opere buone l'autenticità di quella fede. Le opere di Abramo gradite a Nostro Signore sono il frutto della costante volontà di Abramo di fare in tutto la volontà di Dio, di ottemperare sempre con i fatti al comando divino, fattogli conoscere immediatamente prima del Patto che Dio stesso volle stringere con lui, iniziale manifestazione del piano divino della salvezza. "Io sono Iddio onnipotente, cammina alla mia presenza e sii perfetto. Stabilirò il mio patto fra me e te e ti moltiplicherò in modo stragrande" (Gn 17, 1-2 e ss.). Questa dunque l'opera che Dio richiede a chi crede in Lui e si affida a Lui: camminare sempre alla sua presenza, esser perfetti, così come Lui è perfetto, concetto ribadito da Nostro Signore, nel Discorso della Montagna ("Siate dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro nei cieli", Mt 5, 47). I Farisei, che si proclamavano figli di Abramo nella carne, facevano forse "le opere di Abramo" quando meditavano in cuor loro di eliminare Gesù? Nel corso delle reciproche dispute Egli, forte dei miracoli compiuti e delle verità esposte, aveva rivelato di essere il Figlio di Dio. I Farisei l'avevano capito perfettamente: ma, non accettando per invidia tale rivelazione, pensavano di farlo morire (con la falsa accusa di esser un bestemmiatore).
Vediamo dunque come nei Testi Sacri Abramo sia esaltato non solo per la sua fede ma anche per le sue opere. Tra le opere di Abramo, Nostro Signore include anche la di lui esultanza per la venuta del Messia cioè per l'Incarnazione. "Abramo, vostro Padre, esultò per vedere il mio giorno: lo vide e se rallegrò" (Gv 8, 56). Questo testo fa in apparenza difficoltà, soprattutto per la parte finale. Nella prima, Nostro Signore si riferisce evidentemente alla vocazione di Abramo descritta in Gn 12, 2 e 3, nel cui ambito è ricompreso l'annunzio dell'avvenire messianico della posterità di Abramo. La seconda parte della frase, invece, rinvia ad un'esultanza non più terrena ma ultraterrena. Essendo nato attorno al 2000 a.C. e morto circa 175 anni dopo, solo dall'aldilà, già nella vita eterna presso il Padre, Abramo poté vedere il giorno della nascita del Messia (Gesù di Nazareth) e rallegrarsene. Di questa esultanza ultraterrena solo Nostro Signore poteva esser a conoscenza, grazie alla sua natura divina, che difatti riaffermò subito dopo (citando Es 3, 14) di fronte alla sbalordita replica dei Farisei, provocando di nuovo la loro ira: ""Non hai ancora cinquant'anni e hai veduto Abramo? Gesù rispose loro: "In verità, in verità vi dico: prima che Abramo fosse, Io sono". Diedero allora di piglio alle pietre per tirargliele ma Gesù si nascose e uscì dal tempio" (Gv 8, 57-59).
Abramo, nostro Padre nella fede, è giustificato per la sua fede ma anche per le sue opere, di uomo pacifico, pio e misericordioso, giusto, obbediente a Dio in tutto. Ciò risulta in maniera evidente dai Testi, dalla Tradizione, dall'insegnamento della Chiesa.
1.7 L'episodio scabroso del temporaneo sequestro di Sara presso il Faraone e il re Abimelec non dimostra alcuna cattiva intenzione né opera malvagia da parte di Abramo e la castità del suo matrimonio fu salvata da Dio
Al valore meritorio delle buone opere di Abramo, attestato da Nostro Signore in persona, non osta l'episodio scabroso della breve e forzata permanenza di Sara sua moglie presso la corte del Faraone, re dell'Egitto e del re Abimelec, durante la migrazione dello stesso Abramo in quel paese a causa della carestia, quale "sponsa" dello stesso Faraone o re, dopo che Abramo aveva mentito dicendo ai funzionari regi che la donna era sua sorella e non sua moglie, per timore di esser ucciso.
"Fu poi carestia in quella regione; ed Abramo si diresse verso l'Egitto per ripararvisi, perché grande era la fame nel paese. Essendo vicino a entrare nell'Egitto, disse a Sara sua moglie: "So che sei una bella donna; quando gli Egiziani ti avranno visto, diranno: - È sua moglie, - Ed uccideranno me, per ritenersi te. Di' dunque, ti prego, che sei mia sorella, acciò ch'io sia ben trattato per cagion tua, e ch'io sia lasciato in vita per grazia tua". Entrato che fu dunque Abramo in Egitto, videro gli Egiziani quella donna bellissima, ed i magnati lo raccontarono al Faraone, e la celebrarono a lui; ed essa fu portata via, in casa del Faraone. Trattarono bene Abramo in grazia di lei, ed ebbe pecore, bovi, asini, servi e ser1.4ve, asine e cammelli. Ma il Signore, a causa di Sarai moglie di Abramo, flagellò con castighi grandissimi il Faraone e la sua casa. Laonde il Faraone chiamò Abramo, e gli disse: "Che cosa m'hai fatto? Perché non mi dicesti che era tua moglie? Per qual motivo dicesti che era tua sorella, così che la prendessi io per moglie? Ora dunque, ecco la moglie tua. Prendila e vattene". Il Faraone dette ordine a' suoi uomini riguardo ad Abramo, e questi rimandarono lui, la moglie, e tutto quel che aveva" (Gn 12, 10-20).[23]
In un secondo tempo, l'episodio si ripeté. Trovandosi, sempre come straniero, in un paese chiamato Gerara, presentò di nuovo sua moglie come se fosse sua sorella ed il re locale, Abimelec, "la fece prendere", avendo le stesse intenzioni del Faraone. Ma Dio apparve in sogno al re e gli disse che sarebbero scomparsi lui e il suo popolo se avesse toccato quella donna, dato che essa era la moglie di un profeta, "che avrebbe pregato per lui" (Gn 20, 6-7). Allora il re la rinviò intatta ad Abramo, lamentandosi con lui e chiedendogli conto della menzogna. E Abramo così rispose: "Io pensai fra me: - Forse non v'è timor di Dio in questo paese, ed uccideranno me per [prendere] la moglie mia; d'altra parte è anche veramente mia sorella, perché figlia del padre mio, ma non della madre mia [era sua sorellastra] e la presi in moglie. Da quando Iddio mi condusse fuori della casa del padre mio, le dissi: - Tu mi farai questa grazia: in qualunque paese andremo, tu dirai che son tuo fratello" (Gn 20, 11-13). Abimelec riempì di doni Abramo e gli diede anche mille pezzi d'argento, in riparazione dell'aver tenuto (illecitamente) presso di sé Sara sua moglie. Per intercessione di Abramo, Dio guarì Abimelec e la sua casa dalla sterilità che si era nel frattempo abbattuta su di essi "a causa di Sara, moglie di Abramo" (Gn 20, 14-18).[24]
Il racconto biblico documenta l'esistenza di una pratica immorale in uso presso i principi e re del tempo, adusi alla poligamia e al concubinaggio (praticati del resto anche nella terra d'origine di Abramo, semita di Ur nella Caldea, in Mesopotamia), quella di prendersi come mogli (o concubine) le donne degli stranieri che loro piacessero. La bugia di presentare Sara come sua sorella è ispirata ad Abramo dalla paura di esser ucciso. Anche se il re dell'Egitto e il re Abimelec si mostrano preoccupati di non impadronirsi di donne straniere sposate, tuttavia nella prassi, che non era certamente ignota ad Abramo, poteva avvenire che i funzionari regi eliminassero senza tanti complimenti un marito, sì da offrire senza problemi la vedova alla cupidigia del signore locale, esimendolo in tal modo dalla colpa di impadronirsi della moglie di un altro. Tale era la corruzione dei tempi, che erano del resto quelli di Sodoma e Gomorra, città da poco distrutte da Dio, quando Abramo giunse nel paese di Abimelec. Certo, la restituzione di Sara in entrambi i casi non è spontanea, avviene dopo che la casa del Faraone è colpita immediatamente da una serie di castighi e dopo che Abimelec, oltre che castigato con la sterilità di tutta la sua casa, viene ammonito in un sogno che lo atterrisce.
La Bibbia non ci dice in che modo il Faraone venne a sapere che la sua nuova "moglie" era la moglie di Abramo. Possiamo solo fare delle ipotesi. Può averlo capito da solo, di fronte ai castighi che di colpo sommersero lui e la sua casa, e può averglielo detto la stessa Sara, dandogliene così una ragione. Dio si rivela qui, come osservava sant'Ambrogio, il protettore della castità del matrimonio. Anche se Sara sembra aver dovuto giacere con il Faraone? Bisogna stare attenti ad interpretare bene la Bibbia, accostandosi ad essa con animo retto. Mentre risulta chiaramente che Sara fu restituita intatta dal re Abimelec, la stessa cosa non appare così evidente (a prima vista) per l'esperienza di Sara con il Faraone, il quale sembra dire di aver preso effettivamente in moglie Sara, che ora restituiva tuttavia al legittimo sposo. Ma guardiamo attentamente il testo.
La Vulgata-Clementina traduce in questo modo il passo relativo: "Quam ob causam dixisti esse sororem tuam, ut tollerem eam mihi in uxorem?". Questa traduzione è seguita dalla versione italiana della Bibbia sotto la direzione dell'Abate Ricciotti: "Per qual motivo dicesti che era tua sorella, così che la prendessi io per moglie?". Ma questo ut con il congiuntivo non dimostra che il Faraone avesse effettivamente "sposato" Sara. Esso va inteso qui nel suo uso consecutivo e non finale: indica la conseguenza dell'azione non il suo fine. Nel nostro caso: non vuol dire che Abramo abbia presentato la moglie come sorella al Faraone affinché lui la sposasse bensì che, avendola Abramo presentata come sua sorella, il Faraone si era ritenuto (erroneamente) libero di sposarla. Tant'è vero che aveva pagato "il prezzo della sposa" d'uso in Egitto, facendo ad Abramo (ritenuto suo fratello) ampi doni.[25]
La versione greca dei LXX, del III secolo a. C., traduce lo "ut tollerem" con l'aoristo di lambano, prendo, qui: prendo in sposa: ina ti eipaς oti adelfe mou estin; kai elabon auten emautò eis gunaika. Ma l'aoristo non indica qui un'azione passata già terminata. Infatti, nell'originale ebraico il verbo è all'imperfetto: ciò significa che esso indica un'azione non ancora compiuta, che si stava svolgendo. Si tratta del verbo: uaeqqah, 1a persona singolare imperfetto kal di laqah, prendere : "l'ho presa (con l'intenzione di prenderla in moglie)" (e quindi: non l'ho ancora presa in moglie).[26]
Il senso della frase è pertanto il seguente: "perché mi hai detto che era tua sorella, sicché io stavo per prenderla come sposa?". Nella casa del Faraone, Sara doveva trovarsi ancora in una condizione simile a quella della sponsa del diritto romano, cioè della donna promessa alle nozze e non ancora della moglie vera e propria (uxor). L'irritazione del Faraone si spiega anche con il fatto che, senza volerlo, lui, entrando nell'intimità di Sara avrebbe commesso oggettivamente adulterio, cosa severamente riprovata dalle leggi egiziane, anche se più per le donne che per gli uomini.[27]
Fonte di possibile confusione appare la traduzione, utilizzata anche dall'edizione pre-conciliare della Bibbia: "Come mai hai detto: È mia sorella, per cui l'ho presa in moglie?". Essa sembra dar per avvenuta la consumazione del "matrimonio", contro il testo ebraico, che, come si è ricordato, usa l'imperfetto e non un tempo indicante un'azione definitivamente conclusa, e contro la traduzione della Vulgata, che riflette appunto l'originale ebraico.
Era evidente che Abramo, angosciato dalla paura di essere ucciso a causa delle possibili ed anzi quasi sicure cupidigie regali nei confronti della moglie, nel comprensibile intento di salvare la pelle accettava il rischio che la moglie potesse esser costretta a concedersi ad un altro ed anzi si preparava mentalmente a vedersela portar via per sempre, sequestrata in un harem. Accettava dunque il rischio che il suo matrimonio finisse e nel disonore, per sé e per la moglie, anche se, per ciò che riguardava l'onore delle donne, la mentalità del tempo non sembra esser stata particolarmente sensibile (Lot offrì invano le sue due figlie vergini alle voglie insane dei Sodomiti purché desistessero dal tentativo di sfondare la porta di casa sua, al fine di violentare i due giovani (i due Angeli) che vi erano appena entrati – Gn 19, 4 ss). Appare qui una debolezza del tutto umana in Abramo, nei fatti un modesto pastore nomade che governava la difficile sopravvivenza di forse un migliaio di uomini e donne e dei loro armenti in un ambiente straniero e ostile, dominato dalla violenza, dalla rapacità, dalla lussuria più sfrenata.
Dal racconto biblico risulta che Abramo era convinto di agire in stato di grave necessità, al punto da dover accettare il rischio di veder finire il suo matrimonio nel sacrificio della moglie (sotto mentite spoglie) alle voglie dei potenti. E risulta anche la generosità della moglie, che non subì alcuna imposizione dal marito, ma ("tu mi farai la grazia") si prestò alla menzogna per salvargli la vita, accettando di rischiare la fine del suo matrimonio nel disonore. Isacco, figlio di Abramo e di Sara, con sua moglie Rebecca, finsero ugualmente di essere fratello e sorella, trovandosi anch'essi nella città di Gerara, dove comandava un altro Abimelec, re dei Filistei. Rebecca non fu però molestata (Gn 26, 1-11).
Del tutto assurda appare pertanto l'affermazione di Simone Weil, la famosa intellettuale anarchica di tendenze catare (era un'ebrea rivoluzionaria, antisemita e anticristiana), la quale, in un suo delirante libello sul suo modo di concepire la religione, scrive:
"D'autre part, le premier personnage parfaitement pur qui figure dans l'histoire juive est Daniel (qui a été initié à la sagesse chaldéenne). La vie de tous les autres, à commencer par Abraham, est souillée de choses atroces. (Abraham commence par prostituer sa femme.)"[28].
Per la Weil, il messaggio originale di Cristo, che è "amore", è stato rovinato dalla Chiesa e dall'Impero romano, da lei messo addirittura sullo stesso piano del nazismo, ragion per cui nel cristianesimo si sarebbe perpetuata quella religione infame e violenta che è, a suo dire, l'ebraismo![29] In queste farneticazioni c'è tutto l'odio della catara, oltre che della femminista, per Dio Creatore, Padre misericordioso di tutti ma nello stesso tempo di tutti giusto Giudice, poiché la sua misericordia non può separarsi dalla sua giustizia. Abramo sarebbe stato dunque in perfetta malafede, avrebbe mentito sempre, anche quando spiegò che aveva agito in quel modo subdolo unicamente per paura di essere ucciso: il suo vero scopo era far prostituire la moglie; offrirla ai regoli locali per procacciarsi armenti, servi, serve![30] Sono le calunnie di Voltaire nei confronti di Abramo, nella voce corrispondente del suo celebre e popolare Dictionnaire philosophique (1764), opera che di veramente filosofico non ha nulla, costituendo la più bassa polemica antireligiosa e anticristiana il suo contenuto e scopo principale.
Dobbiamo confrontarci, noi fedeli cattolici, anche con questa "ermeneutica", per quanto assurda e offensiva sia, poiché oggi contro i nostri Sacri Testi sono ritornati in auge gli errori e le calunnie più incredibili - facilitata la loro diffusione da quello che è stato l'autentico crollo dell'esegesi cattolica, un tempo validissima.
Chi era questo Abramo, si chiede Voltaire? "On nous dit qu'il était né en Chaldée, et qu'il était fils d'un pauvre potier, qui gagnait sa vie à faire des petites idoles de terre"[31]. Dunque, Abramo era "figlio di un vasaio", di "Tare il vasaio" e di mestiere fabbricava idoli di terracotta per i suoi concittadini pagani. Nella Bibbia non si trova nulla di tutto ciò. Del padre di Abramo, Tare, si dà solo il nome, in un elenco di genealogie (Gn 11). Da dove ha appreso Voltaire queste notizie? Da nessuno, se le è inventate per poter presentare Abramo in modo ridicolo e denigratorio, fedele al suo celebre motto: "calunniate, calunniate, qualcosa resterà sempre". L'immagine di Abramo umile fabbricante di idoli di terracotta, infatti, ridicolizza Abramo. Faceva contenti i nobili e i borghesi atei e miscredenti che seguivano Voltaire nella sua crociata contro il cristianesimo. Poco male che l'immagine fosse del tutto falsa, frutto della fantasia maligna di Voltaire, che non esitava a dare una versione mutila e scorretta di tutto il racconto biblico al fine di poter fabbricare la figura perversa di un Abramo lenone, autentico magnaccia, ripetuta poi pappagallescamente dalla Weil[32].
"Il amène à Memphis sa femme Sara, qui était extrèmement jeune, et presque enfant en comparaison de lui, car elle n'avait que soixante-cinq ans. Comme elle était très belle, il résolut de tirer parti de sa beauté: "Feignez que vous êtes ma soeur, lui dit-il, afin qu'on me fasse du bien à cause de vous". Il devait bien plutôt lui dire – Feignez que vous êtes ma fille. Le roi devint amoureux de la jeune Sara, et donna au prétendu frère beaucoup de brebis, de boeufs, d'ânes, d'ânesses, de chameaux, se serviteurs, de servantes: ce qui prouve que l'Égypte dès lors était un royaume très puissant et très policé, par conséquent très ancien, et qu'on récompensait magnifiquement les frères qui venaient offrir leurs soeurs aux rois de Memphis". Come si vede, è taciuto il fatto che Abramo spiegò a Sara e poi ad Abimelec che voleva far passare la moglie per sua sorella nel timore di esser ucciso: se gli emissari del re avessero sequestrato Sara, lui, in quanto suo "fratello", sarebbe stato trattato con rispetto ("ben trattato") e sarebbe stato "lasciato in vita". Voltaire, contro l'evidenza dei testi, attribuisce invece ad Abramo l'intenzione di far prostituire Sara ai potenti della zona! Voltaire tace anche sulla restituzione di Sara, a "matrimonio" non consumato, sulle disgrazie che colpirono il Faraone, sul suo dialogo con Abramo. Insomma: crassa manipolazione dei testi, la sua.
Ugualmente scorretto è il modo nel quale egli riferisce l'episodio che coinvolge Sara ed Abimelec. "Abraham, qui aimait à voyager, alla dans le désert horrible de Cadès avec sa femme grosse, toujours jeune et toujours jolie. Un roi de ce désert ne manqua pas d'être amoureux de Sara comme le roi d'Égypte l'avait été. Le père des croyants fit le même mensonge qu'en Égypte: il donna sa femme pour sa soeur, et eut encore de cette affaire des brebis, des boeufs, des serviteurs, et des servantes. On peut dire que cet Abraham devint fort riche du chef de sa femme". Ma la Bibbia dice che Sara fu incinta di Isacco dopo l'episodio di Abimelec (Gn 21). Dice inoltre che essa fu rispettata da quel re. Ed Abramo ebbe tanti regali da lui solo dopo la restituzione della moglie, come ringraziamento dell'intercessione in suo favore presso Dio e come riparazione per Sara, non come sordido premio per un'inesistente fornicazione di Sara con il re, che non fu mai il suo "amante", come ebbe invece il coraggio di scrivere lo stesso Voltaire in un'altra versione della voce Abraham[33].
All'impudenza e alla disonestà intellettuale di Voltaire, quando si occupava del cristianesimo, non c'erano limiti. Sia Voltaire che la Weil disponevano degli stessi Testi Sacri dei quali disponiamo noi. Ora, dai testi non risulta in alcun modo una mala intenzione di Abramo nei confronti della moglie. Risulta con chiarezza, invece, che egli temeva fortemente per la sua vita. Al punto da mentire e mettere a rischio l'onore della moglie e suo. Possiamo forse dire che, nella circostanza, egli abbia dimostrato un'insufficiente fiducia nell'aiuto della Provvidenza. Che tuttavia non mancò, dal momento che fu l'intervento divino (con castighi e visioni nei sogni) ad aprire gli occhi al Faraone e ad Abimelec, trattenendoli dal commettere ingiustizia nei confronti di Sara e peccato d'adulterio. Ed impedendo alla stessa Sara di doverlo commettere, quel peccato.
L'interpretazione dei Padri della Chiesa è stata sempre nel senso che la divina bontà ha salvato Abramo e Sara dalla corruzione che li circondava, mantenendo la castità del loro matrimonio. Leggiamo in proposito il commento di sant'Ambrogio.
"L'atleta del Signore si esercita e si fortifica nelle avversità. Andò nel deserto: venne la carestia, discese in Egitto. Aveva saputo che in Egitto erano diffuse dissolutezze dei giovani, lussuria, cupidigia impudente, passioni sfrenate. Comprendeva che fra uomini di tal genere il pudore della moglie sarebbe stato indifeso e la sua bellezza sarebbe stata per lui un pericolo: disse allora alla moglie di dichiararsi sua sorella. Con ciò si insegna che nella moglie non si deve tanto cercare la bellezza…". E sulla personalità di Sara, sant'Ambrogio scrisse: "Si recò in un paese straniero, si dichiarò sua sorella, disposta, se fosse stato necessario, a mettere in pericolo il proprio pudore piuttosto che l'incolumità del marito, e per salvaguardare il marito mentì, dicendosi sua sorella, nel timore che coloro che avessero insidiato il suo pudore lo uccidessero come rivale e vendicatore della moglie. Gli Egiziani, appunto, appena la videro, colpiti dalla sua non comune bellezza, la presentarono al loro re e trattarono Abramo con rispetto, onorandolo come fratello di colei che era piaciuta al re".[34]
Sant'Ambrogio mette nel dovuto rilievo la grandezza d'animo di Sara, la sua dedizione allo sposo. Ma illustra anche i giusti insegnamenti morali che la vicenda offre a chi voglia intendere il matrimonio nel modo che piace a Dio, cioè casto, con belle riflessioni sull'episodio dei castighi che si abbatterono subito sul Faraone. Questo re egiziano, per quanto pagano, capì di aver sbagliato, "ebbe timore di Dio e volle riparare la colpa di adulterio, lui che non era soggetto a nessuna legge, e subito, appena si accorse che Sara era la moglie di un altro, non solo la restituì al marito, ma gli mise a disposizione degli accompagnatori che lo guidassero fuori del paese, affinché nessuno di quel popolo barbaro facesse violenza al peculio dell'uomo o alla pudicizia della moglie"[35]. Da tutta la vicenda si deve trarre la conclusione che "chi segue Dio è sempre al sicuro. Perciò sempre dobbiamo anteporre Dio ad ogni cosa". Abramo seguì il comandamento di Dio, andando verso una terra che non conosceva e praticando il suo culto, nonostante le difficoltà, e Dio lo ricompensò, anche in beni materiali. "Ma innanzitutto Dio gli diede la ricompensa della pudicizia, che sapeva gradita alla moglie; infatti, poiché per lo zelo di attendere alla parola divina Abramo aveva messo in pericolo persino il pudore della moglie, Dio tutelò la castità del suo matrimonio"[36].
Dal momento che l'errore del sola fide prese le mosse da un'interpretazione sbagliata del significato della fede grazie alla quale Abramo fu giustificato di fronte a Dio, come se essa potesse prescindere dalle opere dello stesso Abramo, mi è parso necessario soffermarmi in dettaglio sulla connessione strettissima tra fede e opere che compare nella vita di Abramo, secondo la testimonianza dei Sacri Testi e l'insegnamento dei Padri. Dei Testi, è ovvio, correttamente intesi, secondo le traduzioni e le esegesi adottate dalla Chiesa perenne, unico vero baluardo contro le manipolazioni di eretici e miscredenti, miranti a screditare per partito preso le opere di Abramo e di riflesso tutta la nostra religione.
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