Domenica XXI

"Da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna" (Gv 6,60-69)


La prima lettura ci riferisce che, dopo la conquista della terra promessa, Giosuè raduna tutte le tribù d'Israele in Sichem, convoca il popolo e lo pone di fronte alla scelta tra il servizio del Signore e il servizio di altri dèi, gli dèi degli abitanti di Canaan. Il popolo risponde: "Lungi da noi l'abbandonare il Signore per servire altri dèi".

Il popolo si impegna, riconoscendo che il Signore lo ha salvato: "Il Signore nostro Dio ha fatto uscire noi e i padri nostri dal paese d'Egitto, dalla condizione servile, ha compiuto grandi miracoli dinnanzi agli occhi nostri e ci ha protetti per tutto il viaggio che abbiamo fatto". Perciò la sua risposta è: "Noi vogliamo servire il Signore, perché egli è il nostro Dio". È una bella professione di fede, un bell'impegno di fedeltà al Signore".

"Volete andarvene anche voi?" (v. 67). Questa provocatoria domanda non è diretta soltanto agli ascoltatori di allora, ma raggiunge i credenti e gli uomini di ogni epoca, quindi anche noi. Anche oggi, non pochi restano "scandalizzati" al paradosso della fede cristiana. L'insegnamento di Gesù sembra "duro", troppo difficile da accogliere e da mettere in pratica. C'è allora chi lo rifiuta e abbandona Cristo; c'è chi cerca di "adattarne" la parola alle mode dei tempi snaturandone il senso e il valore. Soprattutto non c'è la consapevolezza che è Dio che parla. Anche noi cristiani e sacerdoti preferiamo non parlare di Dio, perché è un discorso che non sembra avere utilità pratica. Dopo la seconda guerra mondiale, in Germania avevano adottato la Costituzione dichiarando esplicitamente responsabili davanti a Dio come criterio guida nella vita pubblica. Ma nella Costituzione italiana, nella Costituzione euro-pea non è più possibile assumere responsabilità di fronte a Dio come criterio di misura. Dio viene visto come affare di partito di un piccolo gruppo e non può più essere assunto come criterio di misura della comunità nel suo complesso. In questa decisione si rispecchia la situazione attuale dell'Occidente, nel quale Dio è divenuto fatto privato di una minoranza. Quindi "Dio" cui metterci in adorazione appare così irreale da non essere riconosciuto, anche convenendo a Messa in ascolto della Sua Parola, come centro del nostro pensare, parlare e agire. Dio è divenuto uomo per noi. Ogni creatura, ognuno di noi gli sta talmente a cuore che egli si è unito a essa entrando concretamente nella storia. In questo momento parla con noi, vive con noi, soffre con noi e per noi ha preso su di sé la morte e siamo qui per lasciarci rinnovare e dominare dalla fede. E per ravvivarla ci provoca: "Volete andarvene anche voi?" ritenendovi addirittura signori della fede. Quest'inquietante provocazione ci risuona nel cuore e attende da ciascuno una risposta personale; è una domanda rivolta ad ognuno di noi. Gesù non può permetterci di una appartenenza superficiale e formale, una prima ed entusiastica adesione fin da fanciulli; urge, al contrario, prendere parte per tutta la vita soprattutto ogni domenica, "al suo pensare e al suo volere". Nell'attuale secolarizzazione pubblica in Italia, in tutto l'Occidente seguirlo riempie il cuore di gioia e dà senso alla nostra esistenza, ci dà la possibilità di essere liberi e quindi di poter amare, ma comporta difficoltà e rinunce perché molto spesso si deve andare controcorrente. "Volete andarvene anche voi che venite a Messa ogni domenica?". Alla domanda di Gesù, Pietro risponde a nome degli Apostoli, dei credenti di tutti i secoli, di noi: "Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna per l'anima e per il corpo oltre la morte e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo, il Figlio di Dio risorto" (vv. 68-69). Anche noi che ascoltiamo cioè congiungiamo all'udire la disponibilità ad ubbidire possiamo e vogliamo ripetere in questo momento la risposta di Pietro, consapevoli certo della nostra umana superficialità non certo aiutati dal silenzio su Dio della nostra cultura pubblica, dei nostri problemi e difficoltà, ma, in questo momento, fiduciosi nella potenza dello Spirito Santo, che si esprime e si manifesta nella comunione con Gesù, in questo sacramento della presenza del suo corpo e del suo sangue, della sua persona, della sua morte e risurrezione realmente avvenuta e resa ecclesialmente presente convenendo a Messa. La fede è dono di Dio all'uomo ed è, al tempo stesso, libero e totale affidamento di ogni uomo a Dio; la fede è docile ascolto della parola del Signore, che è "lampada" per i nostri passi e "luce" sul nostro cammino (Salmo 119,105). Se apriamo con fiducia il cuore a Cristo, se ci lasciamo conquistare da Lui, possiamo esperimentare anche noi, come per esempio il santo Curato d'Ars, che "la nostra sola felicità su questa terra così tribolata è amare Dio e sapere che lui, anche spesso dimentichi, ci ama amando il prossimo".

Nella seconda lettura Paolo, scrivendo agli efesini, parla dei rapporti nella famiglia e, in particolare, dei rapporti sponsali tra marito e moglie. Nel suo discorso che concretizza il Vangelo vanno sottolineati due punti.

Il brano comincia con l'invito a una sottomissione reciproca: "Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo che vi ama". Questo è l'atteggiamento fondamentale del cristiano nel rapporto con tutti. Gesù si è fatto obbediente sino alla morte, ha tracciato per noi la via dell'obbedienza generosa. Per questo la consapevolezza di essere sottomessi gli uni agli altri.

Questa sottomissione reciproca non è una schiavitù, proprio perché reciproca e, d'altra parte, perché è una sottomissione di amore. Nella Lettera ai Galati Paolo ricorda ai cristiani: "Mediante la carità cioè l'amore di Cristo in voi siete in continuità a servizio gli uni degli altri" (Gal 6,13). Senza sottomissione non accade vero amore, perché questo non è possibile senza l'unione delle volontà e, se noi siamo attaccati alla nostra volontà e non vogliamo mai cedere, vuol dire che rifiutiamo di amare l'altro. Ecco la necessità di essere attenti ai desideri, ai bisogni degli altri e accogliere, nel possibile, questi desideri e bisogni come un'occasione per crescere nell'amore.

Per le mogli questo atteggiamento di sottomissione costituisce il comportamento abituale. Afferma Paolo: "Le mogli siano soggette ai loro mariti in tutto". Nella Prima lettera ai Corinti l'apostolo dice che il capo dell'uomo è Cristo e il capo della donna è l'uomo (1 Cor 11,3), facendo capire che c'è un certo ordine nella creazione.

Ma subito dopo spiega che i mariti non devono comandare, bensì amare: "Voi, mariti, amate le vostre mogli"; e indica un ideale moto alto di amore. "Come Cristo ha amato e ama la Chiesa e ha dato se steso per lei". Quando dice: "Cristo ha dato sé stesso per lei", l'Apostolo pensa alla passione e alla croce di Gesù, alla manifestazione estrema del suo amore. Quindi i mariti necessitano di amare le mogli con questo amore totale.

All'inizio è facile amare, perché la natura stessa suscita la passione di amore. Ma dopo un certo tempo c'è il rischio che questo amore diminuisca, o addirittura scompaia. Lo constatiamo soprattutto ai nostri giorni con il gran numero di divorzi. Sono causati dal fatto che l'amore iniziale, spontaneo non è stato mantenuto sacramentalmente e quindi a poco a poco si è affievolito. Invece, l'ideale cristiano è quello della crescita dell'amore: un amore non ha solo il carattere entusiastico dell'inizio, ma diventa sempre più profondo, gratuito e autentico; un amore che comprende l'aspetto di dedizione, di pazienza, di perdono; un amore veramente simile a quello di Cristo, che è stato ed è con noi così paziente, misericordioso amandoci con un amore più grande dei nostri peccati: oh, il grande aiuto della confessione frequente!

Chiediamo alla Vergine Maria di tenere sempre desta in noi questa fede impregnata di amore, che ha resa Lei, umile fanciulla di Nazareth, Madre di Dio e madre e modello di tutti i credenti.


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