Complesso il rapporto tra primato ed episcopato

Nella Chiesa Cattolica l'obbedienza dei presbiteri e dei diaconi è al proprio Vescovo diocesano in comunione con il Papa. Conferenze episcopali sono solo strutture di collegamento, di servizio tra i vescovi. E i Sinodi? Papa Francesco ha programmato per l'ottobre del 2022 un "Sinodo sui Sinodi"

Saggio di Joseph Ratzinger Benedetto XVI in "Fede, Ragione, Verità e Amore" (pp.379-409) 

Quanto complesso sia il problema del rapporto di primato ed episcopato, lo si è visto di nuovo dopo una fase di irrigidimento che risale alle discussioni del Concilio Vaticano I e II.

Il destino particolare di questo problema sta nella passione politica, che esso ha ridestato in ogni tempo e da ogni parte, dal momento che asserzioni su questo terreno non restano mai di natura puramente teorica, ma possono far scaturire imprevedibili conseguenze per la prassi della chiesa. Ove si scontrano ricerca teologica e passione politica, diventa più pericoloso che altrove per la realtà delle cose l'offuscamento della prospettiva. Sarà quindi tanto più importante saper guardare al di là della passione del momento e dei suoi obiettivi e ritornare a riflettere sulle origini; poiché il metro della Chiesa non è l'opportunità di ogni singolo presente, ma la sua origine, la quale sola costituisce anche la garanzia permanente e progressiva del suo futuro. È così tratteggiato il metodo per le riflessioni che seguono. Esse tentano una riflessione sui compiti del presente, ma lo fanno volutamente guardando alla storia. Detto in altri termini: il problema, come si debba oggi configurare il rapporto di primato ed episcopato anche attraverso i Sinodi, viene inteso come il problema, in che modo debba essere questo rapporto alla luce della sua origine normativa. È evidente che non si pretende qui nessuna completezza né nell'esposizione del dato storico né nelle affermazioni sull'oggi. Quanto diciamo qui è semplicemente invece un prendere la parola nella vasta discussione, che si è sviluppata fin dall'annuncio dell'ultimo Concilio; solo in questo contesto può trovare il suo posto appropriato.

Il diritto di Nicea e le sue premesse

La parola primatus, che io sappia, compare la prima volta in collegamento con la funzione della Sede romana nel canone 6 del Concilio di Nicea, dove però è significativo che sta al plurale e non descrive solo la funzione di Roma, ma al tempo stesso di Alessandria e Antiochia, senza esprimere ancora esclusivamente un problema proprio della Sede Romana. Questo dato non è casuale; vi compare semplicemente la diversità della problematica tra allora e oggi. Detto diversamente: il problema primato-episcopato non si pone in un primo tempo per nulla in questa forma alla chiesa antica, si sviluppa progressivamente e assume una forma per tutta la Chiesa con il Concilio di Nicea. E questa non solo una constatazione relativa al passato trascorso, che esprima e faccia conoscere una situazione imperfetta e oggi superata, ma, è una parte della questione specifica, la cui soluzione dipende essenzialmente da un radicamento nella Scrittura e nella tradizione più antica.

Ma torniamo al nostro punto di partenza. Avevamo detto che ancora nel secolo IV on esisteva un problema primato-episcopato nel nostro senso. Va certo anche detto che in questo tempo l'episcopato non rappresenta una massa amorfa di "capi di comunità" pienamente equiparati, e che i rapporti trasversali all'interno dell'episcopato non consistono affatto soltanto nella forma di incontri collegiali-sinodali, in cui ci siano unicamente uomini dello stesso rango. Il Concilio di Nicea presuppone tre "primati" – di Roma, Alessandria e Antiochia – quale "antica consuetudine". Per poter comprendere e valutare giustamente il senso di una tale asserzione, ci dobbiamo anzitutto rifare brevemente alla struttura della chiesa antica quale "contesto di questi primati. L'elemento fondamentale della chiesa dell'antichità è notoriamente la comunità locale, la quale è diretta da un vescovo. E qui non è casuale né la struttura locale, né quella episcopale: ambedue sono  però comprensibili soltanto insieme. Che la chiesa si strutturi secondo comunità locali e non secondo gruppi spontanei nel senso di riunioni di amici, ciò significa che se da un lato l'aggancio alla chiesa, la decisione per la fede, può avvenire solo liberamente, dall'altro lato non è più una decisione di spontaneità il problema con chi si celebri l'eucaristia. Chi aderisce alla Chiesa, appartiene alla comunità pubblica di coloro che vivono in un determinato luogo come credenti. La chiesa nel suo insieme è una comunità spontanea, ma al suo interno non ci si può più scegliere un'altra volta la comunità; che essa sia una nel suo insieme, lo si constata concretamente nel suo essere appunto soltanto una in loco. Il principio della chiesa locale è espressione del diritto pubblico della chiesa, è l'antitesi del conventicolo, la conseguenza del fatto che la categoria in cui la chiesa vive e pensa non è la "cerchia", ma il "popolo di Dio" essenziale per la Messa. L'unità della direzione della chiesa locale (che poté essere in un primo tempo anche collegiale, ma fu anche in quel caso una sola direzione) è l'espressione di questa indivisibilità e di questa relativa "non spontaneità" della comunità, che si accetta, quando si accetta la chiesa. Va compresa in questa luce la massiccia teologia del vescovo di un Ignazio di Antiochia e di un Cipriano di Cartagine. La richiesta "solo un vescovo in una comunità" è in funzione di questa concezione della chiesa come comunità indivisibile, pubblica, ed è in effetti la lotta contro il soffocamento della chiesa in una struttura di conventicoli privati.

Il contenuto della ecclesialità di ogni comunità locale è notoriamente la doppia communio della parola e del corpo del Signore, che rappresenta pure al tempo stesso il contenuto e il fondamento interno dell'unità e di tutte le singole chiese, ma ancora l'unica e sola, indivisibile Chiesa di Dio, l'unico nuovo popolo di Dio. La realizzazione concreta della comunicazione nel corpo del Logos avviene anzitutto senza forma alcuna; è noto che il suo primo mezzo esteriore fu la colletta per Gerusalemme e l'unione con l'apostolo, che percorre le comunità e le collega a vicenda mediante la sua parola orale e scritta. Con lo scomparire della gerarchia pellegrinante, cioè degli uffici puramente missionari, la cui forme centrali furono apostolo e profeta, il compito di custodire l'unità passa agli uffici locali – nella situazione di fatto, primariamente agli episcopi, che assumono ora anche in questo senso la "successione degli apostoli", e, come capi locali di comunità, devono quindi assolvere a un compito super locale. Solo qui diventa in fondo acuto il problema della "successione apostolica", nel dilemma di una chiesa, che conosce solo più uffici locali e che tuttavia, attraverso di essi, deve assumere al tempo stesso la responsabilità super locale dell'unità.

Non vogliamo qui cercare di riproporre i singoli momenti dell'evoluzione; vorrei semplicemente illuminare la strada da essa presa, servendomi anzitutto soltanto di un esempio del secolo III, che illustra con sufficiente chiarezza la situazione prima di Nicea e può spiegare in modo appropriato la struttura di fondo della chiesa pre-costantiniana. Sappiamo che nel 268 fu scomunicato Paolo di Samosata, vescovo di Antiochia; il fatto ha particolare importanza, perché Antiochia, come località in cui nacque secondo gli Atti degli Apostoli il nome di "cristiani" (At 11,26) e che la tradizione definì come prima sede di Pietro dopo Gerusalemme, aveva il rango di un centro cristiano, di una "chiesa principale", sulla quale si orientavano le singole chiese circostanti. I partecipanti al Sinodo, che scomunicò Paolo ed elesse in suo luogo il Domnus a vescovo, scrissero ora ai vescovi di Roma e di Alessandria una lettera, il cui contenuto doveva essere noto loro tramite anche agli altri vescovi. "Noi fummo perciò costretti … a scegliere un altro al suo posto quale vescovo per la chiesa cattolica ….il Domnus, il quale è dotato di tutte le proprietà che convengono a un vescovo. Ve lo abbiamo comunicato, affinché Voi gli scriviate e accettiate da lui lettere di comunione". Notiamo due cose:

  • I vescovi si riuniscono in un sinodo, per verificare la tradizione della chiesa e la sua unità. Il sinodo rappresenta la risposta a una situazione straordinaria, a una crisi, che ha provocato un disturbo all'intesa normale dei vescovi, un disturbo che in questo modo va eliminato.
  • Si è soliti scambiare tra le chiese lettere di comunione – sembra che questa sia la forma normale di assicurarsi dell'unità. L'emissione della lettera di comunione è evidentemente anche al tempo stesso il riconoscimento di un nuovo vescovo quale legittimo patner di comunione, più precisamente: come legittimo rappresentante dell'unico ordo episcoporum in un luogo determinato. Ciò che sorprende nel nostro caso è che Domnus non venga e non possa venire legittimato soltanto dal sinodo, che quindi non basti il consenso dei vescovi viciniori. La scelta viene piuttosto comunicata ai vescovi di Roma e di Alessandria e la sua nomina diventa definitiva solo per il fatto che essi gli scrivono e accettano da lui i koinonikà gràmmata. Troviamo già qui in questo testo precisamente quelle tre sedi episcopali, che un mezzo secolo più tardi Nicea definiva quali soggetti di un "primato". Il caso si protrasse addirittura oltre, e ci serve a illustrare ulteriormente il risultato fin qui acquisito. Paolo di Samosata si rifiutò di cedere gli edifici destinati al culto. I vescovi si rivolsero così all'imperatore – pagano -Aureliano, il quale dispose che gli edifici si dovessero dare a colui "che i vescovi d'Italia e della città di Roma avessero riconosciuto come legittimo".  Botte conclude da questo particolare a ragione: "Agli occhi dell'imperatore pagano non esistevano quindi solo chiese locali, ma una chiesa cattolica, la cui unità era garantita dalla comunità dei vescovi". La stessa situazione, che abbiamo mostrata per il secolo III, si può già in fondo documentare per il secolo II nel quadro della disputa circa la pasqua.

Che cosa si è chiarito? La responsabilità super-locale e super-regionale dei vescovi viene percepita in un duplice modo: in primo luogo nella forma dei sinodi; in secondo luogo, attraverso una certa strutturazione all'interno delle sedi episcopali, tra le quali si formano chiaramente determinate "chiese principali", che fanno da regolativo per la collegialità e servono come garanzia del consenso della chiesa universale. Il significato costitutivo del consenso della chiesa universale per l'esistenza delle chiese singole è forse il momento più appariscente nella lettera del sinodo antiocheno: anche una sede del rango di Antiochia può solo sussistere con il consenso di Roma e Alessandria; un sinodo regionale non è in grado di autorizzare da solo e senza la conferma da parte della chiesa principale il titolare della dignità episcopale.

La questione degli inizi del primato romano

Il problema come siano emerse precisamente queste tre sedi si pone in ogni caso diversamente, quando si cerca di riunificarle, al più tardi a partire dal secolo IV, nella teoria delle tre sedi di Pietro. Per Roma e Antiochia il richiamo a Pietro era scontato; si era portati ad inserire anche Alessandria in questo tipo di motivazione, come avvenne poi di fatto passando attraverso la tradizione di Marco. È noto che Roma ha decisamente appoggiato questa teoria: essa favoriva da un lato la resistenza contro le pretese sempre più chiare di Costantinopoli e la limitazione del primato alle tre antiche sedi principali; riconducendo poi il tutto alla tradizione di Pietro, essa forniva anche la motivazione per la ulteriore pretesa particolare di Roma nell'ambito delle tre. Come sede definitiva di Pietro, essa poteva rivendicare il primato dei primati sia rispetto all'antica sede di Antiochia, sia rispetto alla comunità del discepolo di Pietro, Marco. Possiamo tralasciare, in questo nostro contesto, la questione circa l'origine e lo sviluppo delle chiese principali orientali; va invece analizzata con più precisione quella circa la concezione originaria del primato romano, poiché solo così possiamo raggiungere un giudizio abbastanza fondato sul significato, il diritto e il limite di questa pretesa.

È noto che questo primato non si è fondato all'inizio sul fatto che il vescovo di Roma sia il successore dell'apostolo Pietro, con le prerogative di Pietro descritte in Mt 16,17 sgg. Questo pensiero, che comincia a delinearsi all'inizio del III secolo e acquista sempre più chiarezza di fronte a Roma nel corso del secolo IV, fu ad esempio ancora sconosciuto a sant'Agostino. Prima dell'introdursi di questa motivazione specificamente petrina, si possono constatare soprattutto tre motivi, per cui le chiese del globo terreno riconobbero a Roma un primato particolare – al di là di quello di Antiochia e Alessandria – e Roma stessa lo andò sempre più chiaramente rivendicando.

  • Nei secoli IV e V si era d'accordo che Roma si era tenuta libera da eresie, che era il luogo di una tradizione conservata integra, e che poteva quindi essere definita in misura particolare quale custode della retta fede, quale criterio di tradizione genuina.
  • Molto vicino era poi il pensiero che Roma era stata sede degli apostoli Pietro e Paolo e che si trovava quindi nel flusso di una tradizione apostolica particolarmente forte, immediata, Sedes apostolica per eccellenza. Questo non significa ancora, come abbiamo detto, che al vescovo di Roma fosse riconosciuto un ufficio diverso dagli altri vescovi: in questa prospettiva, la priorità non è propriamente legata al vescovo, ma alla ecclesia di Roma, la quale ha come tale un significato particolare per la totalità delle chiese, per l'intera chiesa una.
  • Molto fa pensare che la posizione particolare della chiesa di Roma non si fondi sulla successione di Pietro del capo della comunità romana, ma sia stata accettata come naturale alla luce della successione della comunità di Roma a quella di Gerusalemme, ovviamente di nuovo in stretto rapporto con la permanenza di Pietro e Paolo. Il passaggio di Pietro a Roma significa agli occhi della prima chiesa la svolta definitiva della chiesa dei Giudei alla chiesa dei gentili, alla ecclesia ex gentibus: Roma è così nel mondo antico la rappresentazione e la realtà riassuntiva dell'orbis, del mondo della etne, così come Gerusalemme era tale per il mondo di Israele. Il fallire dell'esperimento giudeo-cristiano, divenuto in certo modo definitivo con l'uccisione di Giacomo, e il passaggio ai pagani sono in effetti, per il pensiero un termine di polis del mondo antico, un passare da Gerusalemme a Roma. Karl Hofstetter ha saputo spiegare convincentemente in questa prospettiva il piano della costruzione degli Atti degli Apostoli. Essi mostrano come il "prima ai Giudei", assolutamente vincolante anche per Paolo, condiziona in uno slancio sempre nuovo la via missionaria della chiesa, anche dell'apostolo dei pagani, e come proprio in ciò questa via diventi sempre più una via ai pagani, e come proprio in ciò questa via diventi sempre più una via ai pagani "da una città all'altra". Gli Atti degli apostoli terminano conseguentemente a Roma; il loro momento di conclusione è l'esclamazione rivolta ai Giudei: vi sia dunque noto che ai pagani è stata mandata questa salvezza di Dio: essi, sì, vi presteranno ascolto (At 7,28). Tra i pagani a Roma l'evangelo – così l'ultima parola di questo libro biblico -   è "senza restrizioni": con l'arrivo a Roma, con la svolta definitiva ai pagani gli Atti degli apostoli sono in porto e si chiude quanto volevano comunicare.

Certo il rapporto della chiesa con Roma, sorto in questo modo, è ben diverso da quello di Israele con Gerusalemme: Gerusalemme è positivamente la sintesi di Israele e della sua tradizione, la "città santa"; Roma non è invece la sintesi ella chiesa, ma la sintesi di una situazione del mondo, la cui cifra teologica si chiama Babilonia. Roma non significa quindi assolutamente qualcosa come una città santa della chiesa (e non lo può nemmeno essere; la sua città è "in cielo" – fil 3,20 – cioè escatologica: Cristo; la nuova Gerusalemme); essa è piuttosto la rappresentazione della sua situazione pellegrinante (i suoi membri sono pellegrini nel mondo, e per questo le sue comunità si chiamano "parrocchie" – dal greco -: a partire da 1 Pt 1,17 e 2,11 è rimasta questa definizione delle chiese locali, che contiene al tempo stesso la correzione interna del principio di chiesa locale; la chiesa è in ogni diverso luogo, ma non di esso). Il fatto che la chiesa sia "in Roma" vuol dire che essa dopo il fallimento di Gerusalemme vive in Babilonia, nel deserto: vuol dire che essa è escatologicamente senza luogo nel mondo. Dovrebbe essere importante in questo senso la definizione di Roma come Babilonia, già documentata in 1 Pt 5,13, non sembra derivare dal giudaismo precristiano (che usava a questo scopo l'espressione Edom), ma è di origine cristiana e si dovrebbe comprendere alla luce del contesto descritto. Il fatto che la chiesa come chiesa dei gentili si raccolga ora in Roma, non significa quindi – per dirlo ancora una volta -la creazione di una nuova città santa; ciò indica piuttosto il paradosso cristiano, la realtà cristiana senza luogo nel mondo, una chiesa in stato di attesa – si ripete in fondo il paradosso  per cui Simone, lo scandalon, può essere al tempo stesso per grazia "petra", roccia per la chiesa. Se la comunità romana subentra nella funzione di Gerusalemme, ciò significa al tempo stesso che la Chiesa passa definitivamente dalla speranza di un "regno" imminente nella situazione del popolo di Dio pellegrino e in attesa. Questa sostituzione di Gerusalemme da parte di Roma ebbe come conseguenza concreta nell'ordinamento della chiesa antica che Gerusalemme non funse come chiesa principale, come patriarcato, nemmeno come archidiocesi, ma restò suffraganea di Cesarea; ciò non fu mutato in nulla neppure dal Concilio di Nicea, il quale seguendo una "antica tradizione" concesse al vescovo di "Aelia" un posto di onore nella precedenza, ma con la clausola esplicita "salva la dignità propria del metropolita". Il pensiero di Gerusalemme scompare presto dalla coscienza generale della Chiesa e viene sempre più fortemente sostituito dal pensiero di Pietro-Paolo, sicché si sviluppa infine una teologia specifica della successione di Pietro, la quale dà così al motivo della prima Sedes il suo significato definitivo. In quest'ultimo sviluppo non intervenne certo già più l'oriente. Reclamando sempre più per la Nuova Roma la stessa posizione che la vecchia Roma già possedeva, l'Oriente rimaneva in un certo senso sulla pista della tradizione antica: Roma è prima sedes, perché rappresenta l'orbis, il mondo dell'etne, che è ora al tempo stesso lo spazio della chiesa. Se Roma è ora tanto più altrove, se Costantinopoli è ora "Roma", allora essa partecipa pure necessariamente dei diritti di Roma…La Roma antica non accettò questo modo di vedere le cose e fece forza volutamente sulla teologia di Pietro, la quale includeva una severa delimitazione alle tre antiche sedi principali, tra le quali doveva poi spettare a Roma stessa un rango particolare. Non esiste una decisione puramente storica per questa lite. Teologicamente si potrà dire che il passaggio da Roma a Costantinopoli non poteva certo essere dello stesso genere di quello di Gerusalemme a Roma: la decisione costitutiva così raggiunta è irripetibile, e tutto ciò che avviene dopo sul piano di traslazioni di impero, si pone qualitativamente su un altro livello. In questo senso è anche qui legittimo il richiamo a Pietro, poiché la decisione del passaggio ai pagani fu appunto una decisione apostolica; che in luogo del pensiero originariamente locale intervenga sempre più il momento personale – la successione di Pietro -come momento di primo piano, è cosa che risponde al nucleo del processo stesso. Si dovrà d'altra parte giudicare come arcaismo la cocciuta persistenza di Roma sul trinomio dei "primati", ove la rivalità degli influssi rappresenta in fondo il momento decisivo. Che una nuova Roma potesse pretendere una sua rispettiva importanza anche per il mondo ecclesiastico antico, non si sarebbe dovuto contestare.

Ma con queste riflessioni abbiamo già notevolmente anticipato il corso dello sviluppo. Cerchiamo anzitutto ancora una volta di afferrare chiaramente il dato della chiesa pre costantiniana, canonizzato in conclusione a Nicea. La chiesa è strutturata in questo tempo non solo nella forma "sinodale", conciliare, ma anche "primaziale", in tre primati, tra i quali Roma ha naturalmente il primato dei primati: quale sede di Pietro e Paolo, essa è il punto di orientamento della communio e della tradizione per la chiesa intera. Questo primato è poi di valore normativo per l'unità della fede nella chiesa, ma non ha nessun carattere amministrativo nel senso stretto: Domnus di Antiochia ha certo bisogno di una specie di "conferma" da parte dei vescovi di Roma e Alessandria, che rappresentano la chiesa universale, ma non viene da essi scelto o nominato. L'aspetto amministrativo dell'unità risiede presso i singoli primati e gli aggiunti sinodi regionali; l'unità della chiesa universale viene garantita attraverso l'unità dei primati sotto il primato di Roma e, a partire dal secolo IV , da parte del sinodo su un piano di chiesa universale, cioè da Concilio ecumenico.

Lo sviluppo dopo Nicea

Ciò significa che il vescovo di Roma ha una funzione amministrativa per le chiese d'Italia (e di tutto l'Occidente), ma non per la chiesa universale, per la quale possiede tuttavia un "primato" nel senso di orientamento e criterio dell'unità di fede. Si potrebbe anche dire: i primati di Alessandria e Antiochia sono primati regionali; il vescovo di Roma possiede  un primato regionale, e, inoltre, "un primato" di altro genere per tutta la chiesa. L'intrecciarsi di questi due primati è il vero e proprio problema del tempo successivo, il punto di partenza per la divisione di Oriente e Occidente. Cerchiamo di porci chiaramente davanti agli occhi gli elementi essenziali di questo sviluppo successivo, già risuonati in parte precedentemente. Potremo così dire che per il secolo IV sono particolarmente caratteristiche tre linee di evoluzione:

  • L'idea della successione di Pietro si cristalizza e si consolida così l'idea che la precedenza di Roma non è soltanto una precedenza della sedes romana, ma una precedenza del vescovo romano, il quale possiede un ufficio che supera l'ufficio degli altri vescovi.
  • La struttura del patriarcato, che si era già ormai di fatto introdotta con una certa ampiezza, viene calata in chiare forme giuridiche e si traduce in una chiara struttura di unità amministrative nella chiesa.
  • L'episcopato aveva finora realizzato la sua unità in communio e fides attraverso i legami reciproci dei "primati" e sinodi regionali. Ma non c'era stato nessun tentativo di riunire tutto l'episcopato come tale in un agire comune. Con l'intervento dell'imperatore, che si intende episkottos ton ektos, viene ora convocato per la prima volta, almeno idealmente, l'episcopato ecumenico come tale, e reso così attivo nella sua globalità per un agire a livello di chiesa universale. Ciò significa: solo adesso cominciano a formarsi le due grandezze "episcopato"  "primato"; qui si registra il peso di processi accennati in precedenza.

Mi sembra però importante osservare attentamente il secondo processo, apparentemente neutrale, il quale solo può far intuire per molti aspetti il nesso del primo e del terzo. Abbiamo detto: con il canone 6 di Nicea sorgono definitivamente primati, detti più tardi patriarcati, che assolvono in larga misura compiti amministrativi nelle loro regioni. Questi primati, chiamati in seguito patriarcati, vanno caratterizzati in ciò che concerne la loro posizione e il loro ordine nella chiesa con due asserzioni:

  • Essi sono di diritto ecclesiastico; ciò che non significa che essi siano di diritto pontificio.
  • Questa specie di primato spetta in modo uguale a Roma, Antiochia e Alessandria

La problematica dello sviluppo sta ora nel fatto che in Roma questo primato di diritto ecclesiastico, in cui Roma si trova allo stesso rango di altre città patriarcali, fu potenziato con la precedenza apostolica, che ottenne anche allo stesso tempo un rilievo più spiccato attraverso la formulazione dell'idea della successione di Pietro. Il rifiuto del canone 28 di Calcedonia, cioè del nuovo patriarcato di Costantinopoli, va spiegato in fondo quale espressione di tale convergenza e intersecazione. E si nota già anche qui chiaramente una divisione nella concezione dell'ordine ecclesiastico (del diritto ecclesiastico) in complesso: mentre per l'Oriente diritto ecclesiastico può essere solo diritto "canonico", diritto dei canoni, cioè diritto conciliare, l'Occidente conosce un diritto "papale" indipendente, anzi, loro superiore, e nel caso di diritto conciliare, solo più quale diritto "papale". La diversa predicazione di presidenza apostolica e competenza patriarcale diventa praticamente nella situazione di fatto una concorrenza di due patriarcati, ove il vero e proprio problema viene misconosciuto da ambedue le parti. L'aspetto tragico del tutto sta nel fatto che a Roma non è riuscito a svincolare l'incarico apostolico dall'idea essenzialmente ammnistrativa di patriarcato, cosicché si trovava ad avanzare rispetto all'Oriente un diritto, che in questa forma non poteva né doveva necessariamente essere accettato. Il problema primato-episcopato si presenta quindi nel suo primo stadio come un problema di primato-patriarcato, concretamente come un problema Roma-Costantinopoli. Esso si pone come un problema di amministrazione centrale e di responsabilità ultima per l'unità e la purezza della fede senza esercizio immediato di amministrazione. Che i confini siano certo qui da determinarsi elasticamente, e non in modo rigoroso, non lo contestava nessuno. Dovrebbe però essere possibile trovare una via. Il problema di questa combinazione arbitraria  e anche la speranza di questa cognizione non è forse stata espressa da nessuna parte con tanta commossa partecipazione, quanto nei dialoghi di Anselmo di Havelberg con Niceta di Nicomedia. Uno dei grandi dialoghi di Niceta mi sembra molto importante, che lo vorrei citare letteralmente per concludere anche il punto della chiesa antica, che si avverte ancora una volta in modo grandioso in questo vescovo del secolo XII.

   Roma, la sede preminente dell'Imperium , ha ricevuto il primato, per cui si chiama "prima sede"; nel caso di divergenze ecclesiastiche si deve fare appello da ogni  parte a Roma, e là si giudica e si decide anche ciò che non è soggetto a regole ormai consolidate. Il vescovo romano non si potrà chiamare tuttavia principe tra i vescovi o sommo sacerdote o qualcosa del genere, ma semplicemente vescovo della prima sede…

Ora però la chiesa romana, alla quale noi non neghiamo il primato tra tutte le chiese sorelle e alla quale riconosciamo anche il primo posto d'onore quando ha la presidenza  nel concilio generale, si è separata da noi a motivo della sua precedenza, arrogandosi la monarchia – e questo contro il senso del suo compito – e separando ancora una volta violentemente le chiese d'Occidente e d'Oriente, già divise secondo l'impero …Noi siamo certo una cosa sola con la chiesa romana nella stessa fede cattolica. Ma come potremmo, in questo tempo in cui non celebriamo nessun concilio con essa, accettarne i decreti, redatti senza nostra partecipazione, anzi, a nostra insaputa? Quando il vescovo di Roma, assiso sul trono sublime della sua gloria, tuona su di noi dall'alto al basso e ci vuole per così dire scaricare addosso i suoi comandi, senza servirsi dei nostri consigli, ma giudicando da solo a piacimento, spadroneggiando su di noi e sulle nostre chiese, che tipo di fraternità anche solo di paternità può essere questo? Chi saprebbe sopportare impossibilmente qualcosa del genere? Allora ci si dovrebbe chiamare veri schiavi e non figli della chiesa, e lo saremmo anche. Se così dovesse essere e se un giogo così duro ci minacciasse, allora si potrebbe dire che la chiesa romana eserciterebbe da sola ogni libertà di suo gradimento, creando leggi per tutti gli altri, ma restandone essa stessa immune; essa non andrebbe allora più considerata quale madre buona di figli, ma come dura e avida padrona di schiavi. Che cosa ci dovrebbe allora ancora servire la conoscenza della Scrittura? Che cosa tutto lo sforzo teologico Che cosa conterebbe ancora l'importanza scientifica degli studiosi? Che cosa sarebbero i  grandi spiriti dei saggi di Grecia? La sola autorità vigente del vescovo di Roma, che secondo le tue parole sta su tutti, svuoterebbero di senso tutto ciò. Allora egli solo vescovo, egli solo maestro, egli solo educatore; assuma allora egli soltanto come solo buon pastore la piena responsabilità davanti a Dio soltanto per tutto ciò che è appunto affidato a lui solo. Ma se vuole avere collaboratori nella vigna del Signore, allora pur rispettando il suo primato nella sua elevatezza, si glori della sua umiltà e non disprezzi i suoi fratelli, che la verità di Cristo non ha generato alla schiavitù, ma alla libertà nel seno della madre chiesa.

Aspetti dello sviluppo nel Medioevo

Se la chiesa di Roma assunse già sempre nell'Occidente di lingua latina un rango, che le diede posizione, molto al di là di quanto era indicato dal primato petrino, quale nessuna delle chiese principali d'Oriente poté mai pretendere per la parte orientale dell'impero, lo sviluppo nei secoli di passaggio dall'antichità al Medioevo condusse a un'accentuazione sempre maggiore di questa situazione, che accrebbe sempre più la pretesa di Roma rispetto all'Oriente, dal momento che era sempre meno in grado di distinguere tra il suo compito ecclesiastico-universale, riconducibile a Pietro, e la sua posizione specifica di risultato storico nell'Occidente latino. L'autocomprensione dell'Occidente e dell'Oriente si svilupparono così in un senso divergente, che non permise più una comprensione reciproca e si è espresse in un'opposta interpretazione della storia della chiesa antica: in questa rottura della comprensione storica e nell'opposta valutazione conseguente dell'ordine ecclesiastico era già delineata e resa inevitabile la rottura sul piano politico-ecclesiastico, prima ancora che si attuasse apertamente. Dei fattori, che caratterizzarono la situazione in Occidente, accenniamo solo alcuni di particolare rilievo.

Di grande importanza fu innanzitutto la perdita dell'Africa cristiana nelle mani dell'Islam. Fra tutte le chiese dell'Occidente, la provincia ecclesiastica africana era quella che aveva conservato un grado notevole di indipendenza amministrativa da Roma; le sue specifiche tradizioni l'avevano collegata per certi aspetti più strettamente all'Asia Minore che non a Roma, cosicché essa aveva costituito un tratto d'unione tra Occidente e Oriente. Essendo rimaste ora solo le chiese di Italia, Spagna e delle Gallie, la situazione non era cambiata di poco. Si aggiunga il fatto che la progressiva svalutazione politica dell'Occidente, a partire da Costantino, aveva condotto sin dall'inizio a una crescente valorizzazione del vescovo romano, il quale diventò sempre più anche politicamente il rappresentante dell'Occidente e, dopo il crollo dei vecchi ordinamenti, rappresentava la sola forza sopravvissuta, in grado di unire passato e futuro. L'impotenza politica di Bisanzio, che costrinse il papa a rivolgersi ai Carolingi ed ebbe come conseguenza l'incoronazione di un imperatore occidentale da parte del papa, significò la fine definitiva dell'antichità, la rovina dell'antico impero, e fece sorgere un nuovo mondo nell'alleanza di monarchia carolingia e papato. Uno stretto attenersi alle forme e agli usi della chiesa locale di Roma diventa ora lo strumento dell'unità dell'impero; in una luce ecclesiastica, ciò significa l'aggancio (certo realizzatosi solo lentamente) di tutto l'Occidente alla liturgia della città di Roma e quindi l'incipiente aggancio delle singole chiese locali alla chiesa locale di Roma, per cui scompare sempre più il plurale di ecclesiae e la comunità della città di Roma incorpora tutto l'orbis latino nello spazio ristretto della sua urbis: l'intero Occidente è per così dire solo è più un'unica comunità locale e perde sempre più l'antica struttura dell'unità nella pluralità, la quale diventa infine del tutto incomprensibile.

L'esempio più evidente di questo processo è la trasformazione nella concezione del patriarcato e il capovolgimento del rapporto di patriarca e cardinale, in cui si concretizza. Il cardinalato un'istituzione della città di Roma: esso intende originariamente i diaconi e i parroci di Roma, così come i vescovi della provincia ecclesiastica romana. Il patriarcato è una istituzione a livello di chiesa universale: esso qualifica i vescovi delle chiese principali, detti originariamente "primati", e quindi la forma in cui fu regolata l'unità della chiesa di grandi sfere ecclesiastiche e il loro collegamento vicendevole. Il cardinalato si presenta ora sempre più come un ufficio a livello di chiesa universale (appunto, perché la chiesa universale si identifica con la chiesa della città di Roma); il patriarcato diventa uno dei titoli onorifici, che Roma concede;  e infine, a partire dal secolo XIII, il cardinale è superiore al patriarca, cosicché il patriarca è onorato quando diventa cardinale: la dignità della chiesa della città di Roma è superiore all'antico servizio a livello di chiesa universale, e dovrebbe essere così evidente la trasformazione dell'ottica. Emerge infine l'idea che i cardinali sono i veri successori degli apostoli, poiché questi furono cardinali prima di diventare vescovi. In questa teoria del tardo medioevo si può scorgere l'antitesi occidentale a una teoria bizantina, che voleva vedere nei patriarchii successori degli apostoli.

Torniamo di nuovo ai fattori, che hanno preparato e fondato questi sviluppi nella fase intermedia fra l'antichità e il medioevo. Si dovrebbe qui ancora ricordare il significato della missione anglosassone, che a differenza del lavoro missionario degli Irlandesi avvenne in stretta unione con Roma; e poi ancora la disputa dei vescovi gallici con i loro metropoliti, da cui venne fuori la raccolta pseudo isidorica, di cui si può ancora osservare ad esempio la forza storica nella discussione di Lipsia tra Eck e Lutero, ove i "testi dei padri" pseudo isidorici, tratti dal Decreto di Graziano, costituirono in certi momenti quasi la struttura portante dell'argomentazione di Eck. Si dovrebbe poi infine ricordare, in questo contesto, il movimento degli ordini mendicanti, che diede all'idea monastica, in Occidente un contenuto in buona parte nuovo rispetto all'Oriente. L'Oriente conosce il monaco come carismatico, che però di regola non è presbitero. Conosce poi normalmente il presbitero, al contrario, solo in rapporto ad un ufficio di comunità, e quindi all'interno della struttura episcopale. Con gli ordini mendicanti compare in Occidente qualcosa di decisamente nuovo: comunità di sacerdoti, che intendono continuare l'idea monastica, ma sono appunto presbiteri, per quanto senza struttura di comunità locale. Ciò non significa soltanto che l'idea carismatica del monaco e il normale ufficio ecclesiastico si compenetrano in una forma nuova, ma anche il formarsi di una nuova forma di pastorale, non inserita nella struttura episcopale, di chiesa locale; nel corso della disputa con i vescovi, essa si rifà al papa, il quale viene così dichiarato molto concretamente vescovo in tutti i luoghi e diviene attivo anche in questo senso. Questo sviluppo non va poi affatto valutato esclusivamente o anche primariamente in senso negativo: esso ha restituito all'Occidente la forza missionaria e ha portato un energico correttivo alla struttura di chiesa locale, che si andava irrigidendo nel feudalesimo. Ciò che qui avvenne, fu realmente evangelizzazione, rinascita in forza dell'evangelo e in ordine al vangelo; obiettivamente, il rinnovamento della struttura missionaria, che nel tempo apostolico sta negli uffici degli apostoli e dei profeti accanto alla struttura di chiesa locale, e che in effetti vi dovrà sempre stare accanto in una qualche forma.

Tuttavia, in tutto il Medioevo l'episcopato non ha mai cessato di formare una forza autonoma nella chiesa dell'Occidente. Lo scuotimento del potere papale da parte dello scisma occidentale lo mostrò in tutta chiarezza: nella contrapposizione di conciliarismo e papalismo si pone allora il problema primato-episcopato in quella forma, che permase poi nelle cose fino al Concilio Vaticano I. Il risultato più significativo di quel contrasto è costituito dai decreti Haec sancta e Frequens del Concilio di Costanza, che alla vigilia del Vaticano II furono riportati in primo piano e discussi nel loro permanente significato. Ritengo che Hubert Jedin abbia mostrato in modo convincente che solo il Concilio di Basilea, con il suo decreto Sacrosancta, ha dichiarato veritates fidei le asserzioni di Costanza circa la superiorità del Concilio sul papa, cercando quindi di dogmatizzarle, mentre Costanza si muove sulla linea canonistica tramandata a un altro livello: il suo decreto non è per così dire "un … dogma senza ormeggi; Haec sancta è piuttosto una misura di emergenza per un'eccezione ben determinata". Ciò non significa naturalmente che il tutto si debba considerare semplicemente come un fatto passato senza alcun significato permanente per la cosa stessa. Anche Jedin giudica: "Se nella storia dei concili il conciliarismo è quindi soltanto un episodio, non dovette e non poté però essere tale nella ecclesiologia". Coer si è detto, Costanza non ha formulato nessun dogma conciliaristico, ma ha riformato e unificato la chiesa divisa in tre osservanze papali; il diritto ecclesiastico di emergenza qui applicato, che era incluso solo come teoria nelle riflessioni della canonistica medioevale, ha così preso forma concreta nella chiesa e continua a rientrare come diritto di emergenza nelle sue possibilità. Costanza, proprio nella misura in cui se ne vedono chiaramente i limiti, significa così in un certo senso un'affermazione complementaria alle definizioni del Vaticano I. Si deve naturalmente aggiungere che il modello di Costanza, anche a prescindere dal suo rapporto con una determinata situazione di emergenza, non è semplicemente trasponibile nel presente: esso è troppo legato alla problematica specifica del tardo medioevo, che tanto nella sua corrente curiale, quanto in quella episcopale è determinato dallo sviluppo particolare dell'Occidente  e resta così, nell'uno e nell'altro caso, unilaterale.

-La questione dell'interpretazione del Vaticano I

Non possiamo qui certo scrivere qualcosa come una storia del problema "primato-episcopato", ma ci limitiamo a illuminare alcuni importanti elementi della tradizione in ordine a una valutazione sistematica del problema, in ordine cioè alla via che congiunge passato, presente e futuro; possiamo quindi concludere questi accenni storici con una osservazione sul tanto discusso capitolo del primato del Concilio vaticano I.  Mentre questo testo fu considerato per lungo tempo come una vittoria univoca della tendenza curialistico - papale, cresciuta continuamente attraverso i secoli, si va affermando da qualche tempo in misura crescente la convinzione che esso non significò all'interno del Concilio una vittoria degli "ultramontani", ma del "terzo gruppo"; che su un piano di storia dei dogmi esso non conferma quindi né il papalismo classico né l'episcopalismo, ma crea una "terza posizione", che ha per contenuto la irriducibilità dei due dati, che non permette cioè di fare del primato la semplice funzione dell'episcopato, né dell'episcopato il semplice strumento del papato. Resta incontestato che l'interpretazione e l'applicazione del testo si mosse anzitutto essenzialmente nella scia papale e che si guardò, tanto prima quanto dopo, a tendenze eretiche in questa direzione con molta più indulgenza che non a quelle che inclinavano all'episcopalismo. Si deve ancora osservare un altro momento: il testo del Vaticano I si richiama continuamente con voluta accentuazione alla tradizione della chiesa universale e dei concili ecumenici e vuole essere inteso secundum antiquam atque constantem universalis ecclesiae fidem, "come è anche contenuto negli atti dei concili ecumenici e dei santi canoni", "come prova la continua prassi della chiesa". Ciò significa che esso stesso prende la tradizione della chiesa antica e dei suoi concili quale criterio di interpretazione nella direzione delle realtà della chiesa antica e dei suoi concili quale criterio di interpretazione, che va quindi interpretato nella direzione delle realtà della chiesa antica, che esso spiega poi naturalmente anche per parte sua nella luce dello sviluppo della relecture, cioè nella riassunzione interpretante di antichi testi in una nuova situazione, per cui il passato è compreso sì è compreso in modo nuovo, ma anche il nuovo è ricollegato all'unità con il passato, così anche i singoli dogmi e le asserzioni dei concili non stanno isolati, ma nel processo della relecture su un piano di storia dei dogmi e vanno interpretati all'interno di questa unità della storia della fede. Il nuovo testo va letto in unità con il precedente, così come questo, al contrario, viene attualizzato ed esplicato attraverso il nuovo. E' evidente che questa prospettiva è di importanza fondamentale per la comprensione del Vaticano I; basta leggere ad esempio nel contesto il testo riportato dalla lettera del papa san Gregorio al patriarca Eulogio di Alessandria, per ottenere un elemento di interpretazione di peso notevole. 

Vostra Beatitudine mi dice "come Voi avete comandato". Prego di tenere lontano da me questa espressione, poiché so chi sono io e chi siete Voi. Secondo la sede episcopale siete mio fratello, secondo la santità mio padre. Non ho quindi nessun comando da dare; mi sono solo fatto premura dire ciò che mi sembra utile. Non ho però l'impressione che la Vostra Beatitudine abbia del tutto tenuto a mente ciò che volli imprimere nella Vostra memoria. Avevo detto che né Voi a me né altri a chiunque deve scrivere cose del genere; ed ecco, nella intestazione della Vostra lettera a me trovo quel titolo pomposo che avevo rifiutato, in cui Voi volevate rivolgervi a me come papa universale. Prego la Vostra diletta Santità di non ripetere più cose del genere, poiché è sottratto a Voi quanto è assurdamente attribuito ad un altro. Non è mio desiderio essere grande in parole, ma nella condotta di vita. E io non posso accettare qualcosa come onore, quando so che intacca l'onore dei miei fratelli. Il mio onore si identifica con quello della chiesa universale. Il mio onore è il costante rispetto dei miei fratelli. Io sono veramente onorato, quando nessuno è privato dell'onore che gli spetta. Ma se la Vostra Santità mi chiama papa universale, si sottrae appunto qualche cosa, ascrivendo a me l'universale. Ciò non deve essere. Scompaiano quindi le parole, che gonfiano la vanità e feriscono l'amore…"

Non suona tutto questo come una risposta al lamento citato prima di Nicea di Nicomedia? Il dialogo con la chiesa orientale non dovrebbe entrare subito in uno stadio del tutto diverso, se questo testo, il cui nucleo è entrato nel Vaticano I, fosse di nuovo percepito in tutta la sua serietà e potesse determinare la forma della convivenza?

Conclusioni finali

La storia ci ha così condotto al di là di sé stessa: è diventata visibile la sua attualità. Come si è detto all'inizio, non vogliamo cercare qui di elaborare dettagliate proposte per un'esplicazione concrea del rapporto rimato-episcopato nel futuro; per questo sarà necessario un comune e paziente sforzo di membri della gerarchia e teologi, di canonisti, sistematici, storici e pratici, i quali dovranno anche tener presente che non esiste una prassi del tutto ottimale, che nessuna chiesa può vivere senza pazienza reciproca. Formuliamo qui solo alcune conclusioni finali, che dovrebbero risultare da quanto abbiamo detto finora come punti di massima per un cammino ulteriore.

  • Nell'unità dell'unica chiesa deve avere spazio il plurale delle ecclesiae: solo la fede è indivisibile, a essa è ordinata la funzione unificatrice del primato. Tutto il resto può essere diverso e permette quindi anche indipendenti funzioni di direzione, come erano realizzate nei "primati" patriarcati della chiesa antica: come dice H. Dombois, unità della chiesa non deve per forza significare chiesa unitaria.
  • L'immagine di centralismo statale, offerta dalla chiesa cattolica fino al Concilio, non scaturisce semplicemente dall'ufficio di Pietro, ma dal suo stretto amalgama, in continua crescita nel corso della storia, con il compito patriarcale, che è toccato al vescovo di Roma per l'intera cristianità latina. Il diritto ecclesiastico unitario, la liturgia unitaria, l'unitaria assegnazione delle sedi episcopali a parte della centrale romana – sono tutte cose che non risultano necessariamente dal primato come tale, ma derivammo da questa stretta congiunzione di due uffici. Si dovrebbe quindi considerare come compito per il futuro il distinguere di nuovo chiaramente l'ufficio autentico del successore di Pietro e l'ufficio patriarcale, e, dove è necessario, creare nuovi patriarcati senza più considerarli incorporati nella chiesa latina. Accettare l'unità con il papa non significherebbe allora aggregarsi a una amministrazione unitaria, ma semplicemente inserirsi nell'unità della fede e della communio, riconoscendo al papa il potere di un'interpretazione vincolante della rivelazione portata da Cristo e sottomettendosi quindi a questa interpretazione, dove e quando avvenga in forma definitiva. Ciò significa che una unione con la cristianità orientale non dovrebbe mutare assolutamente nulla nella sua concreta vita ecclesiale. L'unità con Roma, nella struttura e nell'attuazione concreta della vita delle comunità, potrebbe essere altrettanto "impalpabile" quanto nella chiesa antica. Cambiamenti visibili potrebbero essere che nell'assegnare le sedi episcopali centrali avvenga una "ratificazione", paragonabile allo scambio delle lettere di comunione nella chiesa antica; che ci si riunisca di nuovo in sinodi e concili comuni; che lo scambio delle lettere pasquali o simili ("encicliche") superi di nuovo i confini dell'Occidente e Oriente; che il vescovo di Roma sia di nuovo nominato nel canone della messa e nelle invocazioni: l'invocazione, il ricordo, è infatti il modo in cui l'unità della cristianità è reale fin nella liturgia di ogni singola comunità o, viceversa, il modo in cui la sua divisione si rispecchia fin nella liturgia. Del pari, si potrebbe senza dubbio pensare anche a una forma speciale della cristianità riformata nell'unità dell'unica chiesa; infine, si dovrà riflettere fra non molto su come dare alla chiesa d'Asia e d'Africa, così come a quelle d'Oriente, una loro forma propria come "patriarcati" o "grandi chiese" autonome, o comunque si chiameranno tali ecclesiae nella ecclesia del futuro.
  • Abbiamo detto prima che l'unità della chiesa esige, secondo la concezione cattolica, una sottomissione all'interpretazione definitiva della fede da parte del papa. Su questo non si può e non si deve esitare secondo il Vaticano I. Si può e si deve però porre il problema di come si realizzano in senso ottimale tali decisioni definitive. ' forse utile riflettere, a mo' di confronto, sulla forma in cui i concili ecumenici arrivano a tali definizioni. La premessa è notoriamente la morale unanimità. Il Concilio non va ai voti sulla verità – cosa che è impossibile, ma constata l'unanimità della fede: l'unità è per esso il segno che si è qui di fronte all'unica fede. Le definizioni non possono creare nulla di nuovo nella chiesa, ma sono solo il riflesso dell'unità, che esse difendono e chiarificano contro possibili offuscamenti. In questa luce appare quindi normale, necessariamente, che ogni asserzione definitiva del papa sia preceduta da un prestare ascolto alla chiesa universale, qualunque ne sia la forma; al presente, il consiglio episcopale si offre quale strumento di tale consultazione a livello di chiesa universale. Dove ci siano chiare infrazioni di chiari enunciati  di fede si può naturalmente decidere in casi speciali velocemente e inequivocabilmente: con chi nega con evidenza il Dio trinitario non è il caso di perdersi ancora in lunghe dispute per epurare se la sua teologia si possa forse ancora dire cattolica. Una tale prassi senza fine può in un caso del genere presentarsi come non seria e controproducente. Ma dove c'è da dire qualcosa di nuovo o problemi reali sono in attesa di chiarificazione, là si avrà una parola tanto più di peso, quanto più sarà sostenuta dallo sforzo di tutta la chiesa. La situazione attuale indica qui con sufficiente chiarezza che non solo la "periferia" ha qualcosa da dire e da portare al "centro", ma che vale continuamente ancora come necessità la correzione delle chiese particolari da parte del centro che impersona il tutto. Si dovrebbe evitare soprattutto l'impressione che il papa (o l'ufficio in genere) possa solo raccogliere ed esprimere di volta in volta la media statistica della fede viva, per cui non sia possibile una decisione contraria a questi valori statistici medi (i quali sono poi anche problematici nella loro constatabilità). La fede si norma sui dati oggettivi della Scrittura e del dogma, che in tempi oscuri possono anche spaventosamente scomparire dalla coscienza della (statisticamente) maggior parte della cristianità, senza perdere peraltro in nulla il loro carattere impegnante e vincolante. In questo caso la parola del papa può e deve senz'altro porsi contro la statistica e contro la potenza di un'opinione, che pretende fortemente di essere la sola valida; e ciò dovrà avvenire con tanta decisione, quanto più chiara sarà (come nel caso ipotizzato) la testimonianza della tradizione. Al contrario, sarà possibile e  necessaria una critica a pronunciamenti papali, nella misura in cui manca a essi la copertura della Scrittura e nel Credo, nella fede della chiesa universale. Dove non esiste né l'unanimità della chiesa universale né una chiara testimonianza delle fonti, là non è possibile una decisione impegnante e vincolante; se essa avvenisse formalmente, le mancherebbero le condizioni indispensabili e si dovrebbe perciò sollevare il problema circa la sua legittimità.
  • Il Concilio episcopale e altre forme di collegialità offrono la possibilità di accostare il più possibile tra di loro le esigenze della pluralità e dell'unità. Guardando agli sforzi del Vaticano II si è fatto osservare come sia in certo qual modo paradossale che la chiesa cattolica vada cercando una decentralizzazione proprio nel momento in cui il mondo profano si unisce sempre più in una mondializzazione. Non bisogna prendere questa obiezione tanto alla leggera. Effettivamente, una semplice decentralizzazione, una divisione in regioni il più possibile autonome, non si adeguerebbe alla situazione attuale. Ciò a cui si deve tendere soprattutto, è il pluralismo nell'unità, unita nel pluralismo. Il congiungimento delle possibilità del principio collegiale (consiglio episvopale, conferenze episcopali ecc.) con il primato e il loro scambio continuo dovrebbero essere in questo senso il mezzo più idoneo a renedre possibile la giusta risposta alle esigenze del presente. Il primato ha bisogno dell'episcopato (la dipendenza dal vescovo diocesano in comunione con il papa), ma anche l'episcopato del primato: essi andrebbero visti sempre meno come concorrenze, sempre più nella loro complementarietà.

Naturalmente tutto questo non è facile da realizzare e costituisce certo un impegno duro per tutte le parti. E soprattutto quanto si è detto sulla possibile unificazione delle parti divise della cristianità include pesanti pretese per tutti coloro che vi sono coinvolti. Ma senza un atto profondo di umiliazione e un nuovo gesto umile di sottomissione all'evangelo, senza un atto di auto rinuncia e di assimilazione alla croce del Signore, che crocefigge le nostre comodità, non ci può essere unità nella cristianità, la quale è divisa perché confidò in se stessa, e che sarà riunificata solo se metterà se stessa a repentaglio e si assoggetterà al Signore, per ricevere nuovamente  se stessa dalle sue mani. Si può far riferimento in questo contesto a una parola di Friedrich Heiler, le cui sorprendenti prospettive si identificano con quelle esposte in questo saggio, confermando così le speranze e i compiti, che sono stati accennati quali risultanza. Heiler afferma:

Elementi di diverso genere sono simboleggiati nella tiara papale: l'ufficio del vescovo di Roma, che è al tempo stesso metropolita della provincia ecclesiastica romana, del patriarca della chiesa latina occidentale, e del primate di tutti i vescovi. Nell'amalgama di questi tre uffici, nell'estendersi delle competenze della prima sfera di ufficio alla seconda e delle prime due alla terza sta una buona parte degli scandali, che impediscono l'unione dei cristiani. Ma se il primato del papa viene inteso allo stato puro come tale nella sua provvidenziale funzione ecumenica di unità, e distinto perciò dalle funzioni mutevoli del metropolita romano e del patriarca d'occidentale, allora diventa comprensibile anche per i suoi contestatori il senso storico e il diritto divino del papato. Chi vuole l'unità della chiesa, non può voler fare a meno di un centrum unitatis nella chiesa e non deve temere di individuare questo centro là dove – pur con tutti i tentennamenti e le degenerazioni umane – ha effettivamente avuto sede nella storia della chiesa: in quella comunità che i due grandi apostoli hanno santificato con la loro predicazione e il loro martirio".

Aggiungiamo ancora a conclusione del tutto l'osservazione di Otto Karrer su questo testo:

Questa non è una professione per il papato, certo non nella sua forma odierna. Sono in un certo modo i lineamenti di una possibilità per cristiani non cattolici-romani, quando si approfondisca la disponibilità da ambedue le parti – Dio solo sa in che modo – di sacrificare zavorra storica per amore di Cristo.

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