Immaginare per la Chiesa un'uscita dalla crisi

Don Claude Barthe in "Duc in altum" – 6 novembre 2022

 

La Chiesa, a seguito dell'evento Vaticano II, è precipitata in una crisi di genere totalmente atipico, in cui l'esercizio abituale del magistero è stato ostacolato. Ciò è dovuto alle innovazioni insegnate da questo concilio ed a questa sorta di rinuncia, costituita dall'uscita dal magistero infallibile, almeno come riferimento, e dalla sua sostituzione con l'insegnamento pastorale. Il segno più visibile di questa nuova era è una liturgia essa stessa pastorale, indebolita, talvolta in modo considerevole, dal punto di vista del proprio significato teologico.

 

Essendo la costituzione divina della Chiesa fondata sul papa e sui vescovi, l'uscita dalla crisi, sul lungo termine, non può essere che ripresa in mano dal papa e dai vescovi uniti a lui. Essi dovranno necessariamente dedicarsi ad un capovolgimento ecclesiologico nel quadro di una società cattolica, oggi minoritaria. La Chiesa ritroverà la consapevolezza d'esser la totalità soprannaturale del suo Corpo mistico sulla terra, nella povertà dei mezzi che le impone la situazione di persecuzione ideologica del mondo moderno [1].

 

 

Ciò indica il termine. Prima i fedeli della Chiesa (un tempo si sarebbero potuti aggiungere i principi cristiani), animati dal sensus fidelium, potevano certamente operare assai in tale direzione, in particolare per il mantenimento della lex orandi tradizionale. Ma la preparazione adeguata al rovesciamento di cui parliamo sarebbe – o lo è già, benché ancora molto debolmente – l'azione riformatrice dei Successori degli Apostoli in comunione premurosa col papa restauratore.

 

 

Non dobbiamo nasconderci che, se la confessione integrale della fede cattolica tornasse un giorno, come di regola, il criterio d'appartenenza alla Chiesa, la latente frattura dell'unità, che esiste da cinquant'anni tra i cattolici [2], si trasformerebbe necessariamente in scisma aperto. E ciò non potrà accadere che «con lacrime e sangue», moralmente parlando. Ma sarà allo stesso tempo liberatorio, essendo la verità per essenza salvifica, anche per gli scismatici chiamati alla scelta ed alla conversione. Perché non si possono purtroppo prevedere soluzioni soft ad una crisi di tale portata.

 

 

Uscire da un cattolicesimo «light», ritornare a un cattolicesimo «integro»

 

Quale programma è possibile immaginare per la gerarchia del futuro e, nell'avvenire più prossimo, per quei vescovi che anticipino e preparino la ripresa della Chiesa? Nei prossimi numeri accenneremo ad un certo numero di temi propri della riforma e, prima ancora, dei prolegomeni alla riforma, come la ricomposizione della liturgia, il ritorno alla predicazione sui fini ultimi, il ripristino della disciplina della comunione, l'insegnamento di ciò che si potrebbe chiamare semplicemente catechismo, la morale e specialmente la morale coniugale, la formazione dei sacerdoti.

 

 

Ma fondamentalmente, come dice Georges Weigel nel suo libro Il prossimo papa [3] – l'editore ne ha consegnato una copia a ciascuno dei cardinali durante il concistoro dello scorso agosto – conviene smarcarsi da un cattolicesimo «light» e ritornare ad un cattolicesimo «integro». È – spiega – una «legge ferrea» che, nel quadro del confronto tra cristianesimo, modernità e post-modernità, sole continuino a sopravvivere ed anche a fiorire quelle comunità ben consapevoli della propria identità in materia di dottrina e di morale: «Il prossimo papa dovrà ricordarsi che il dogma è liberatorio». Il cardinale anonimo che ha assunto lo pseudonimo di Demos, autore di un memorandum sul prossimo conclave, riprende l'antifona: «Il Successore di Pietro, in quanto capo del collegio dei vescovi, che pure sono Successori degli Apostoli, gioca un ruolo fondamentale per l'unità e la dottrina. Il nuovo papa dovrà comprendere che il segreto della vitalità cristiana e cattolica deriva dalla fedeltà agli insegnamenti di Cristo ed alle pratiche cattoliche [4]».

 

 

Ma ciò che dobbiamo aspettarci da un futuro papa votato alla restaurazione del cattolicesimo dobbiamo già sperarlo da quei vescovi, che ci siamo riproposti di dire in comunione premurosa con questo papa, che non si è ancora unito a loro [5]. Questo è il papa che si augurano esplicitamente George Weigel, il cardinale Demos e i vescovi pronti a dichiararsi deliberatamente riformatori o ancora la rivista Cardinalis, lanciata da giovani editori francesi e rivolta a tutti i cardinali del mondo [6].

 

Ma questo papa e prima di tutto questi vescovi si troveranno alle prese con un doppio vincolo, esterno e interno. Un vincolo esterno molto forte: il cattolicesimo vive o sopravvive in un mondo che afferma la propria laicità attraverso una pressione sociale ed istituzionale, certamente liberale, ma di fatto alquanto dittatoriale. I sociologi Philippe Portier e Jean-Paul Willaime, in La religion dans la France contemporaine. Entre sécularisation et recomposition [7] [La religione nella Francia contemporanea. Tra secolarizzazione e ricomposizione, NdT] formulano una tipologia e un'analisi di indifferenti e atei, divenuti maggioritari nelle società contemporanee, a partire dalla rottura degli anni 1960-1970. Sono dei «laicisti d'asserzione» o «laicisti d'indifferenza», che si sviluppano in un mondo in cui la religione è assente. Tali autori precisano che questo mondo di senza-Dio non è uno spazio vuoto: si articola attorno a un'etica dell'autonomia pesantemente soggettivista e alquanto significativa. Aggiungiamo ch'essa delegittima qualsiasi tentativo di ritorno al dogma e di morale cattolica e che penalizza sistematicamente i suoi difensori.

 

 

Ma c'è anche un vincolo interno: la corrente favorevole a un adattamento al mondo moderno manterrà a lungo molte delle posizioni gerarchiche e ostacolerà con forza qualsiasi rimonta della corrente di conservazione. Lo prova l'opposizione virulenta incontrata da Benedetto XVI, quando si accontentò di attuare niente più di un'interpretazione più conservatrice del Concilio. Ciò dà un'idea di quel che potrebbe essere l'opposizione all'adozione pura e semplice di un'ecclesiologia tradizionale.

 

Voltare pagina

 

Le nostre riflessioni anticipatrici possono dar l'impressione di ridar vita a un sogno. Tuttavia, dopo mezzo secolo, il complesso dei cattolici sconcertati dalle contrapposizioni tra il magistero tradizionale e un magistero nuovo di tipo pastorale non ha cessato di coltivare questo sogno in una ripresa salvifica. Essi hanno costantemente richiamato il magistero pontificio a riprendersi e a esprimersi alla vecchia maniera: molto semplicemente a esprimersi come magistero. Innumerevoli sono stati gli interrogativi, i dubia a esso indirizzati sotto le forme più diverse, dal Liber accusationis dell'abate Georges di Nantes che, in modo molto diretto, chiese nel 1972 a Paolo VI di giudicarsi da sé, ai dubia rispettosi dei cardinali Caffarra, Meisner, Burke e Brandmüller, che hanno chiesto a papa Francesco nel 2016 di decidersi in merito alla contrapposizione tra la morale tradizionale ed il capitolo VIII di Amoris lætitia, in altre parole di condannare con autorità magisteriale i suoi stessi insegnamenti.

 

Prima di tale condanna auspicata, i cardinali in questione e molti altri hanno insegnato la dottrina tradizionale. È capitato anche che certi vescovi siano giunti a sospendere l'applicazione della nuova disciplina sui divorziati «risposati».

 

 

Non c'è d'altronde bisogno di attaccare il Concilio Vaticano II per attaccare Amoris lætitia, poiché, di fatto, da Humanæ Vitæ a Benedetto XVI la dottrina morale è rimasta essenzialmente tradizionale, preconciliare. Tuttavia, lo choc delle dimissioni di Benedetto XVI e dell'elezione di Francesco nel 2013 ha molto contribuito a far risalire la riflessione dagli effetti, il bergoglismo, alle cause, il Vaticano II. La critica al Concilio, grazie anche al rifiuto provocato da papa Francesco, ha acquisito un certo diritto di cittadinanza nella Chiesa [8]. Così è sembrato che la dichiarazione di Abu Dhabi [9], firmata da papa Francesco, come le Giornate di Assisi succedutesi, presiedute da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI, fossero fondate sul «rispetto» che Nostra ætate n. 2 accorda alle religioni non cristiane [10]. Così i blog ratzingeriani dedicano ormai ampio spazio ai dibattiti critici sul concilio Vaticano II, dibattiti che fino ad ora erano riservati agli ambiti tradizionalisti. Così il libro curato dal vaticanista Aldo Maria Valli, L'altro Vaticano II. Voci su un Concilio che non vuole finire [11], ha riunito autori relativamente diversi, eppure praticamente tutti concordi nel formulare importanti riserve in merito all'ultimo concilio.

 

D'altronde, in modo alquanto logico, A. M. Valli ha sollevato la questione ultima, cui porta l'immenso malessere, di cui soffre il cattolicesimo fin dal 1965: per uscire da questa situazione, che fare del Vaticano II? Questione cui cercano di rispondere anche tutti coloro che, evitando di rimetterlo in discussione, hanno cercato, senza mai riuscirvi, di «inquadrare» il Concilio, come Benedetto XVI con la sua «ermeneutica della riforma o rinnovamento nella continuità».

 

 

Osserviamo del resto come, ineluttabilmente, voler inquadrare il Concilio conduca a rimetterlo in discussione. Il processo avviato dallo stesso Benedetto XVI con Summorum Pontificum nel 2007 è andato in questa direzione, non soltanto affermando il diritto ad esistere della liturgia precedente al Vaticano II, espressione cultuale della dottrina del tempo, ma anche perché, lanciando l'idea dell'«arricchimento reciproco» della nuova e dell'antica liturgia, ha cercato di dar vigore all'idea ricorrente della «riforma della riforma», vale a dire a quell'idea della correzione progressiva della liturgia di Paolo VI avvicinandosi alla liturgia tridentina.

 

Questa «riforma della riforma» è tipicamente un processo di transizione – che papa Ratzinger si è purtroppo astenuto dal porre concretamente in opera, salvo in qualche dettaglio delle proprie celebrazioni –, processo che potrà essere applicato alla liturgia dai vescovi o da un papa, che abbiano una ferma volontà restauratrice. Ciò sarà necessario perché la nuova liturgia ha creato abitudini profondamente radicate, che, anche in un clima favorevole al ritorno verso forme antiche, obbligheranno a preparare delle fasi di transizione. Questo processo graduale applicato alla lex orandi potrà ispirare, certo per analogia, un movimento di ritorno dogmatico alla lex credendi. Si tratta di un'analogia remota, poiché nessun accomodamento, foss'anche quello di una transizione provvisoria, si saprebbe operare nell'espressione concettuale della verità.

 

Allora perché parlare di «riforma della riforma» in materia di dottrina? Ci sembra che si tratti di considerare i punti controversi del Vaticano II come una sorta di obiezioni, di videtur quod non, fatte al magistero, proprio come nelle scuole medioevali si facevano obiezioni al maestro di teologia. Quest'ultimo, a tali obiezioni, dava risposte, esplicitando il suo pensiero con tutte le distinzioni necessarie. Non è così che procedette Pio XII, per fare un esempio tra molti altri, quando, alla sentenza «Fuori dalla Chiesa, nessuna salvezza», i contemporanei obiettarono l'apparente ingiustizia di tale affermazione, tenuto conto dell'esigua percentuale di coloro che avrebbero potuto ricevere la luce della Rivelazione dagli albori dell'umanità ad oggi. Pio XII rispose allora, con Mystici Corporis, che nel segreto di Dio possono accedere alla salvezza «coloro che per un qual certo desiderio e per un inconsapevole auspicio, si trovino ordinati al Corpo mistico del Redentore»: anche questi, che Dio solo conosce, vengono pertanto salvati dalla Chiesa (come d'altronde inversamente sono dannati coloro che sembrano appartenere alla Chiesa, ma in realtà ne sono separati dall'eresia).

 

Ciò comporterebbe una vera e propria rettifica degli ambiti controversi, tale da cercare ad esempio una via per qualificare i cristiani separati non come cattolici «imperfetti» (Unitatis redintegratio, n. 3), ciò che è di dubbia ortodossia, bensì, in virtù degli «elementi» di Chiesa che si trovano nella loro comunità come il battesimo, la Scrittura (ibidem), come tali da beneficiare concretamente d'una preparazione e di un invito a tornare in comunione con Cristo e con la Chiesa.

 

Quest'opera di rettifica dottrinale è certamente la più importante tra quelle che i Successori degli Apostoli, coscienti della necessità d'una restaurazione della Chiesa – di una vera riforma -, dovranno preparare per un papa futuro e già devono esercitare, in nome di quella sollecitudine ch'essi devono a tutta la Chiesa (Fidei Donum ripresa da Lumen Gentium 23), per il fatto stesso d'essere vescovi, dottori della fede.

 

___________________

 

[1] Si veda Res Novæ, novembre 2022, Per una vera riforma della Chiesa.

[2] Si veda Res Novæ, ottobre 2022, Il magistero come un piumino.

[3] Parole et Silence, 2020. Il prossimo papa, Fede & Cultura, 2021. The Next Pope, Ignatius Press, 2020.

[4] Tra i cardinali circola un memorandum sul prossimo conclave. Eccolo, Settimo Cielo Blog.

[5] Si veda Res Novæ, giugno 2022, Se il papa tace, che parlino i vescovi!.

[6] Cardinalis – La rivista dei cardinali (cardinalis-magazine.com).

[7] Armand Colin, 2021.

[8] Si veda Res Novæ, marzo 2021, La critica al Consiglio gode di ottima salute.

[9] «Il pluralismo e le diversità di religione, di colore, di sesso, di razza e di lingua sono una saggia volontà divina».

[10] «[La Chiesa cattolica] considera con un rispetto sincero questi modi d'agire e di vivere, queste regole e queste dottrine, che, pur differendo in molti aspetti da ciò ch'essa stessa sostiene e propone, riflettono tuttavia spesso un raggio della verità, che illumina tutti gli uomini».

[11] A.M. Valli (a cura di ), L'altro Vaticano II. Voci da un Concilio che non vuole finire, Chorabooks, 2021,

 

Fonte: resnovae.fr

 

 

Commenti

Post popolari in questo blog

Nove mesi di novena alla Madonna, fino al 25 dicembre

Anglicani

I peccati che mandano più anime all'inferno