Dal Gesù di Nazareth dall'ingresso a Gerusalemme fino alla Risurrezione raccontato da Benedetto XVI

Gesù di Nazareth dall'ingresso a Gerusalemme, Crocifissione, Deposizione nel Sepolcro fino alla Risurrezione raccontato da Benedetto XVI, da meditare liturgicamente per i tre giorni di Passione, Morte e Risurrezione

Dal Gesù di Nazareth di Benedetto XVI  Tomo II – dall'ingresso a Gerusalemme fino alla Risurrezione

Capitolo 8

 

Riflessione preliminare: parola ed evento nel racconto della passione

        Tutti e quattro gli evangelisti ci parlano delle ore del Gesù sofferente sulla croce e della sua morte – concordi circa le grandi linee dell'evento, ma con accentuazioni diverse nei dettagli. La cosa particolare in questi racconti è che sono pieni di allusioni all'Antico Testamento e di citazioni tratte da esso: la parola di Dio e l'evento si compenetrano a vicenda. I fatti sono, per così dire, riempiti di parola – di senso; e anche inversamente: ciò che fino ad allora era stata soltanto parola – spesso parola incomprensibile – diventa realtà e solo così si dischiude alla comprensione.

 

        Dietro questo modo particolare di raccontare sta un processo di apprendimento, che la Chiesa nascente ha percorso e che per il formarsi di essa è stato costitutivo. In un primo momento, la fine di Gesù sulla croce era stata semplicemente un fatto irrazionale, che metteva in questione tutto il suo annuncio e l'intera sua figura. Il racconto circa i discepoli di Emmaus (cfr Le 24,13-35) descrive il cammino fatto insieme, la conversazione nella comune ricerca, come un processo in cui il buio delle anime pian piano si rischiara grazie all'accompagnamento di Gesù (cfr v. 15). Si rende evidente che Mosè e i Profeti, che «tutte le Scritture» avevano parlato degli eventi di questa passione (cfr v. 26s): l'«assurdità» si rivela ora nel suo profondo significato. Nell'avvenimento apparentemente privo di senso si è in realtà schiuso il vero senso del cammino umano; il senso ha riportato la vittoria sulla potenza della distruzione e del male.

 

        Ciò che qui è sintetizzato in un grande colloquio di Gesù con due discepoli era nella Chiesa nascente un processo di ricerca e di maturazione. Nella luce della risurrezione, nella luce del dono di un nuovo camminare in comunione col Signore, si doveva imparare a leggere l'Antico Testamento in modo nuovo: Nessuno, infatti, si era aspettato una fine in croce del Messia. O forse, fino a quel momento, erano solo state ignorate le rispettive allusioni nella Sacra Scrittura?  Non sono state le parole della Scrittura a suscitare il racconto di fatti, ma i fatti in un primo tempo incomprensibili hanno condotto ad una nuova comprensione della Scrittura.

 

        La concordanza riscontrata così tra fatto e parola determina non soltanto la struttura dei racconti dell'evento della passione (e dei Vangeli in genere), ma è costitutiva per la stessa fede cristiana. Senza di essa non si può capire lo sviluppo della Chiesa, il cui messaggio ricevette e riceve tuttora la sua credibilità e la sua rilevanza storica proprio da questo intreccio di senso e storia: dove questa connessione viene sciolta, si dissolve la stessa struttura basilare della fede cristiana. Nel racconto della passione è intessuta una molteplicità di allusioni a testi veterotestamentarii. Due di essi sono di importanza fondamentale, perché abbracciano ed illuminano teologicamente, per così dire, l'intero arco dell'evento della passione: sono il Salmo 22 ed Isaia 53. Gettiamo pertanto fin d'ora un rapido sguardo su questi due testi, che sono fondamentali per l'unità tra parola della Scrittura (Antico Testamento) ed evento di Cristo (Nuovo Testamento).

 

        Il Salmo 22 è il grande grido angosciato rivolto dall'Israele sofferente al Dio che apparentemente tace. La parola «gridare», che soprattutto in Marco ha poi anche nel racconto su Gesù in croce un'importanza centrale, caratterizza, per così dire, il tono di questo Salmo. «Sei lontano dal mio grido», vi si dice subito all'inizio. Nei versetti 3 e 6 si parla ancora di questo gridare. Diventa udibile tutta la pena del sofferente di fronte al Dio apparentemente assente. Qui non basta più un semplice chiamare o pregare. Nell'estrema angoscia la preghiera diventa necessariamente un grido.

 

        I versetti 7-9 parlano dello scherno che circonda l'orante. Questo scherno diventa una sfida a Dio e così ancor maggiormente un dileggio del sofferente: «Si rivolga al Signore; lui lo liberi, lo porti in salvo, se davvero lo ama!». La sofferenza indifesa viene interpretata come prova del fatto che Dio veramente non ama il torturato. Il versetto 19 parla del sorteggio delle vesti, come è avvenuto di fatto sotto la croce.

 

        Ma poi il grido di angustia si trasforma in una professione di fiducia, anzi, viene anticipato e celebrato in tre versetti un grande esaudimento. Innanzitutto: «Da te la mia lode nella grande assemblea; scioglierò i miei voti davanti ai suoi fedeli» (v. 26). La Chiesa nascente sa di essere la grande assemblea in cui si celebra l'esaudimento dell'implorante, il suo salvamento – la risurrezione! Seguono poi due altri elementi sorprendenti. La salvezza riguarda non soltanto l'orante, ma diventa un «saziare i poveri» (v. 27). Ancora di più: «Torneranno al Signore tutti i confini della terra; davanti a lui si prostreranno tutte le famiglie dei popoli» (v. 28).

 

        Come avrebbe potuto la Chiesa nascente non intuire in quei versetti, da una parte, il «saziare i poveri» mediante il misterioso banchetto nuovo, donatole dal Signore nell'Eucaristia? E come, dall'altra, avrebbe potuto non vedervi l'evento insospettato che i popoli del mondo si convertivano al Dio di Israele, al Dio di Gesù Cristo – che cioè la Chiesa si formava attingendo da tutti i popoli? L'Eucaristia (la lode: v. 26; il saziare: v. 27) e l'universalismo della salvezza (v. 28) appaiono come il grande esaudimento da parte di Dio, che risponde al grido di Gesù. È importante tener sempre presente il vasto arco degli avvenimenti contenuti in questo Salmo per capire perché nel racconto della croce esso abbia un ruolo così centrale.

 

        Del secondo testo fondamentale – Isaia 53 – abbiamo già trattato nel contesto della Preghiera sacerdotale di Gesù. Di questo testo misterioso si può nuovamente apprendere stupore della prima cristianità per il fatto che cammino di Gesù Cristo sia stato predetto passo passo.. Passiamo ora ad una breve considerazione circa gli elementi essenziali nel racconto della croci- fissione.

 

_09 Dalla Crocifissione alla Deposizione 82 Gesù sulla croce

 

La prima parola di Gesù sulla croce: «Padre, perdona loro»

 

        La prima parola di Gesù sulla croce, pronunciata quasi ancora durante l'atto della crocifissione, è la richiesta del perdono per coloro che lo trattano così: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Le 23,34). Ciò che il Signore ha predicato nel discorso della montagna lo compie qui personalmente. Egli non conosce alcun odio. Non grida vendetta. Implora il perdono per quanti lo mettono in croce e motiva questa richiesta: «Non sanno quello che fanno».

 

        Questa parola riguardo all'ignoranza ritorna poi nel discorso di san Pietro negli Atti degli Apostoli. Egli ricorda alla folla riunitasi dopo la guarigione dello storpio nel portico di Salomone innanzitutto: «Voi avete rinnegato il Santo e il Giusto e avete chiesto che vi fosse graziato un assassino. Avete ucciso l'autore della vita, ma Dio l'ha risuscitato dai morti» (3,14s).

 

Dopo questo ricordo doloroso che ha già fatto parte della sua predica di Pentecoste e trafitto il cuore della gente (cfr 2,37), egli continua: «Ora, fratelli, io so che voi avete agito per ignoranza, come pure i vostri capi» (3,17).

 

        Ancora un'altra volta il motivo dell'ignoranza appare in una retrospettiva autobiografica di san Paolo. Egli ricorda di essere stato lui stesso precedentemente «un bestemmiatore, un persecutore e un violento»; poi prosegue: «Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede» (1 Tm 1,13). In considerazione del suo precedente orgoglio da perfetto alunno della Legge, che conosceva ed adempiva la Scrittura, questa è una parola dura: egli che aveva studiato con i maestri migliori e poteva reputare se stesso un vero scriba, guardandosi indietro deve ora riconoscere di essere stato ignorante. Ma è stata l'ignoranza a salvarlo e a renderlo capace di conversione e di perdono. Certo, questa combinazione tra dotta erudizione e profonda ignoranza deve indurre a pensare. Rivela la problematicità di un sapere che resta autosufficiente e così non raggiunge la verità stessa che dovrebbe trasformare l'uomo.

 

        In un'altra maniera ancora appare lo stesso intreccio tra sapere ed ignoranza nel racconto dei Magi provenienti dall'Oriente. I capi dei sacerdoti e gli scribi sanno precisamente dove il Messia dovrebbe nascere. Ma non lo riconoscono. Sapienti, rimangono ciechi (cfr Mt 2,4-6).

 

        È ovvio che questo insieme di sapere ed ignoranza, di conoscenza materiale e profonda incomprensione, esiste in tutti i tempi. Per questo, la parola di Gesù riguardo all'ignoranza, con le sue applicazioni nelle diverse situazioni della Scrittura, deve anche, proprio oggi, scuotere i presunti sapienti. Non siamo forse ciechi proprio come sapienti? Non siamo forse, proprio a causa del nostro sapere, incapaci di riconoscere la verità stessa che in ciò che sappiamo vuole venirci incontro? Non ci sottraiamo forse al dolore provocato dalla verità che trafigge il cuore – quella verità di cui Pietro ha parlato nella sua predica di Pentecoste? L'ignoranza riduce la colpa – lascia aperta la via verso la conversione. Ma non è semplicemente una scusante, perché rivela al tempo stesso un'ottusità del cuore, un'ottusità che resiste all'appello della verità. A maggior ragione rimane una consolazione per tutti i tempi e per tutti gli uomini il fatto che il Signore, a riguardo sia di coloro che veramente non sapevano – i carnefici – sia di coloro che sapevano e lo avevano condannato, pone l'ignoranza quale motivo della richiesta di perdono – la vede come porta che può aprirci alla conversione.

 

        _09 Dalla Crocifissione alla Deposizione 9Gesù deriso

 

Appaiono nel Vangelo tre gruppi di beffeggiatori. Come primi, i passanti.

 

Essi ripetono al Signore la parola riguardante la distruzione del tempio: «Ehi, tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso scendendo dalla croce!» (Me 15,29s). Le persone che in questo modo si fanno beffe del Signore, esprimono con ciò il loro disprezzo per l'impotente, gli fanno sentire una volta di più la sua impotenza. Al tempo stesso vogliono indurlo in tentazione, come aveva già fatto il diavolo: «Salva te stesso!». Serviti del tuo potere. Non sanno che proprio in questo momento si realizza la distruzione del tempio e che in tal modo si forma il nuovo tempio.

 

        Alla fine della passione, con la morte di Gesù, il velo del tempio si squarcia in due – così raccontano i sinottici – da cima a fondo (cfr Mt 27,51; Me 15,38; Le 23,45). Probabilmente s'intende, dei due veli del tempio, quello interno, quel velo cioè che impedisce alla gente l'accesso al Santo dei Santi. Una sola volta all'anno il sommo sacerdote può passare attraverso il velo, comparire al cospetto dell'Altissimo e pronunciare il santo nome di Lui.

 

        Adesso, nel momento della morte di Gesù, questo velo si squarcia da cima a fondo. Con ciò si allude a due cose: da una parte, diventa evidente che l'epoca del vecchio tempio e dei suoi sacrifici è finita; al posto dei simboli e dei riti, che rimandavano al futuro, subentra ora la realtà stessa, il Gesù crocifisso che riconcilia tutti noi col Padre. Ma al contempo, squarciarsi del velo del tempio significa che ora è aperto l'accesso a Dio. Fino a quel momento il volto di Dio era stato velato. Solo mediante segni e una volta all'anno il sommo sacerdote poteva comparire davanti a Lui. Ora Dio stesso ha tolto il velo, nel Crocifisso si è manifestato come Colui che ama fino alla morte. L'accesso a Dio è libero.

 

Secondo gruppo di beffeggiatori è composto da membri del sinedrio. Matteo menziona tutti e tre i raggruppamenti: sacerdoti, scribi e anziani. Essi formulano la loro espressione di scherno in connessione con il Libro della Sapienza, che nel secondo capitolo parla del giusto che è di ostacolo alla vita malvagia degli altri, chiama se stesso figlio di Dio e viene consegnato alla sofferenza (cfr Sap 2,10- 20). Riallacciandosi a quelle parole, i membri del sinedrio dicono adesso di Gesù, il Crocifisso: «È il re d'Israele; scenda ora dalla croce e crederemo in lui. Ha confidato in Dio; lo liberi lui, ora, se gli vuol bene. Ha detto infatti: "Sono Figlio di Dio"!» (Mt 27′,42s; cfr Sap 2,18). Senza accorgersene, gli schernitori riconoscono con ciò che Gesù è veramente Colui di cui parla il Libro della Sapienza. Proprio nella situazione dell'esteriore impotenza, Egli si rivela come il vero Figlio di Dio.

 

        Possiamo aggiungere che il Libro della Sapienza conosceva forse l'esperimento mentale di Platone, che nella sua opera sullo Stato prova ad immaginare quale destino sarebbe riservato in questo mondo al giusto perfetto e giunge alla conclusione che egli sarebbe crocifisso (cfr Politela II, 361e – 362a). Il Libro della Sapienza ha forse ripreso questo pensiero del filosofo, lo ha introdotto nell'Antico Testamento, e ora tale pensiero rinvia direttamente a Gesù. Proprio nella derisione il mistero di Gesù Cristo si dimostra vero. Come non si è lasciato indurre dal diavolo a buttarsi giù dal pinnacolo del tempio (cfr Mt 4,5-7; Le 4,9-13), così ora non cede a questa tentazione. Egli sa: Dio stesso lo salverà – ma in maniera diversa da come qui questa gente lo immagina. La risurrezione sarà il momento in cui Dio lo libererà dalla morte e lo accrediterà come il Figlio

 

Il terzo gruppo di beffeggiatori è costituito da coloro che sono stati crocifissi insieme con Lui e che da Matteo e Marco sono caratterizzati con la stessa parola lestés (brigante) con cui Giovanni caratterizza Barabba (cfr Mt 27,38; Me 15,27; Gv 18,40). È chiaro che così essi sono qualificati come combattenti della resistenza ai quali i Romani, per criminalizzarli, avevano dato semplicemente il titolo di «briganti». Vengono crocifissi insieme con Gesù, perché dichiarati colpevoli dello stesso reato: resistenza contro il potere romano.

 

        In Gesù, però, il genere di delitto è diverso che nei due, che forse avevano partecipato con Barabba alla sua insurrezione. Pilato sa bene che Gesù non aveva in mente una cosa di questo genere, e così, nell'iscrizione per la croce, definisce il «reato» in maniera particolare: «Gesù il Nazareno, il re dei Giudei» (Gv 19,19). Fino a quel momento, Gesù aveva evitato il titolo di Messia o di re, ovvero l'aveva subito connesso con la sua passione (cfr Me 8,27-31) per impedire interpretazioni errate. Ora il titolo di re può apparire davanti a tutti. Nelle tre grandi lingue di allora Gesù viene pubblicamente proclamato re

 

È comprensibile che i membri del sinedrio si urtino per questo titolo in cui Pilato sicuramente vuole anche esprimere il suo cinismo contro le autorità giudaiche e, se pur in ritardo, vendicarsi di loro. Ma tale iscrizione che equivale ad una proclamazione a re sta ora davanti alla storia del mondo. Gesù è stato «elevato». La croce è il suo trono, dal quale attira il mondo a sé. Da questo luogo dell'estremo dono di sé, da questo luogo di un amore veramente divino, Egli domina come il vero re, a modo suo – nel modo che né Pilato né i membri del sinedrio avevano potuto comprendere.

 

        Non entrambi gli uomini crocifissi con Lui si associano alla derisione. Uno dei due intuisce il mistero di Gesù. Sa e vede che il genere di «delitto» di Gesù era del tutto diverso; che Gesù era un non violento, un giusto. E ora s'accorge che quest'Uomo crocifisso con loro veramente rende visibile il volto di Dio, è il Figlio di Dio. Così lo prega: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno» (Le 23,42). Come il buon ladrone abbia immaginato precisamente l'entrata di Gesù nel suo regno e in che senso abbia quindi chiesto il ricordo di Gesù, non sappiamo. Ma ovviamente egli proprio sulla croce ha capito che quest'uomo privo di ogni potere è il vero re – Colui del quale Israele è in attesa e a fianco del quale ora egli non vuole essere sol- tanto sulla croce, ma anche nella gloria.

 

        La risposta di Gesù va oltre la richiesta. Al posto di un futuro indeterminato pone il suo «oggi»: «Oggi sarai con me nel paradiso» (23,43). Anche questa parola è piena di mistero, ma ci mostra con sicurezza una cosa: Gesù sapeva di entrare direttamente nella comunione col Padre – che poteva promettere il «paradiso» già per «oggi». Sapeva che avrebbe ricondotto l'uomo nel paradiso dal quale era decaduto: in quella comunione con Dio in cui è la vera salvezza dell'uomo.

 

        Così nella storia della devozione cristiana il buon ladrone è diventato l'immagine della speranza – la certezza consolante che la misericordia di Dio può raggiungerci anche nell'ultimo istante; la certezza, anzi, che dopo una vita sbagliata, la preghiera che implora la sua bontà non è vana. «Tu che hai esaudito il ladrone anche a me hai dato speranza», prega ad esempio anche il Dies ire.

 

_09 Dalla Crocifissione alla Deposizione 5Il grido di abbandono di Gesù

 

Matteo e Marco ci raccontano concordemente che, all'ora nona, Gesù esclamò a gran voce: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46; Me 15,34). Essi trasmettono il grido di Gesù in una mescolanza di ebraico e di aramaico e lo traducono poi in greco. Questa preghiera di Gesù ha stimolato sempre nuovamente l'interrogarsi e il riflettere dei cristiani: come poteva il Figlio di Dio essere abbandonato da Dio? Che cosa significa questo grido? Rudolf Bultmann, per esempio, osserva al riguardo: L'esecuzione di Gesù avvenne «a causa di un'interpretazione errata del suo operare visto come agitazione politica. Sarebbe allora – parlando dal punto di vista storico – un destino privo di senso. Se o come Gesù in esso abbia trovato un senso, non possiamo sapere. Non ci si deve nascondere la possibilità che Egli sia crollato» (Das Verhältnis, p. 12).

 

Che cosa dobbiamo dire di fronte a tutto ciò?

 

        Innanzitutto c'è da considerare il fatto che, secondo il racconto di ambedue gli evangelisti, i circostanti non hanno compreso l'esclamazione di Gesù, ma l'hanno interpretata come un grido verso Elia. In studi eruditi si è cercato di ricostruire l'esclamazione di Gesù precisamente in modo tale che, da una parte, potesse essere fraintesa come un grido verso Elia e, dall'altra, costituisse il grido d'abbandono del Salmo 22. Comunque sia: solo la comunità credente ha compreso l'esclamazione di Gesù, non capita e fraintesa dai circostanti, come l'inizio del Salmo 22 e, in base a ciò, ha potuto intenderlo come grido veramente messianico.

 

        Non è un qualsiasi grido di abbandono. Gesù recita il grande Salmo dell'Israele sofferente e assume così in sé tutto il tormento non solo di Israele, ma di tutti gli uomini che soffrono in questo mondo per il nascondimento di Dio. Egli porta davanti al cuore di Dio stesso il grido d'angoscia del mondo tormentato dall'assenza di Dio. Si identifica con l'Israele sofferente, con l'umanità che soffre a causa del «buio di Dio», assume in sé il suo grido, il suo tormento, tutto il suo bisogno di aiuto e con ciò, al contempo, li trasforma.

 

        Il Salmo 22 pervade – come abbiamo visto – il racconto della passione e va al di là di esso. L'umiliazione pubblica, lo scherno e lo scuotere il capo da parte dei beffeggiatori, i dolori, la terribile sete, la trafittura delle mani e dei piedi, il sorteggio dei vestiti – l'intera passione in tale Salmo è come raccontata in anticipo. Mentre Gesù pronuncia le parole iniziali del Salmo è però, in ultima analisi, già presente il tutto di questa magnifica preghiera – anche la certezza dell'esaudimento che si manifesterà nella risurrezione, nel formarsi della «grande assemblea» e nell'appagamento della fame dei poveri (cfr vv. 25ss). Il grido nell'estremo tormento è al contempo certezza della risposta divina, certezza della salvezza – non soltanto per Gesù stesso, ma per «molti».

 

        Nella teologia più recente sono stati fatti molti tentativi penetranti di scrutare, in base a questo grido d'angoscia di Gesù, negli abissi della sua anima e di comprendere il mistero della sua persona nell'estremo tormento. Tutti questi sforzi, in fin dei conti, sono caratterizzati da un approccio troppo limitato e individualistico.

 

        Penso che i Padri della Chiesa con il loro modo di comprendere il pregare di Gesù siano stati i più vicini alla realtà. Già presso gli oranti dell'Antico Testamento, le parole dei Salmi non appartengono ad un singolo soggetto chiuso in se stesso. Certo, sono parole molto personali, sviluppatesi nella lotta con Dio, ma parole alle quali, tuttavia, sono al contempo associati in preghiera tutti i giusti che soffrono, tutto l'Israele, anzi, l'intera umanità in lotta, e perciò questi Salmi abbracciano sempre il passato, il presente e il futuro. Stanno nel presente della sofferenza e, tuttavia, portano in sé già il dono dell'esaudimento, della trasformazione.

 

        Questa figura basilare, che nella ricerca più recente viene caratterizzata come «personalità corporativa», i Padri l'hanno accolta ed approfondita a partire dalla loro fede in Cristo: nei Salmi – ci dice Agostino – è Cristo che prega insieme come Capo e come Corpo (cfr ad es. En. in Ps., 60,ls; 61,4; 85,1.5). Prega come «Capo» – come Colui che ci unisce tutti in un soggetto comune e ci accoglie tutti in sé. E prega come «Corpo», ciò significa che la lotta di tutti noi, le nostre proprie voci, la nostra tribolazione e la nostra speranza sono presenti. Noi stessi siamo oranti di questo Salmo, ma ora in maniera nuova nella comunione con Cristo. E a partire da Lui, passato, presente e futuro sono sempre uniti.

 

        Sempre di nuovo ci troviamo nell'abissale oggi della sofferenza. Sempre, però, anche la risurrezione e l'appagamento dei poveri avvengono già «oggi». In una tale prospettiva non viene cancellato niente dell'orrore della passione di Gesù. Al contrario: aumenta, perché non è soltanto individuale, ma porta realmente in sé la tribolazione di tutti noi. Ma al tempo stesso la sofferenza di Gesù è una passione messianica – un soffrire in comunione con noi, per noi; un essere-con che deriva dall'amore e così già porta in sé la redenzione, la vittoria dell'amore.

 

___ 000 LE PREGHIERE BXVI 3Il sorteggio delle vesti di Gesù

 

Gli evangelisti ci raccontano che i quattro soldati incaricati dell'esecuzione capitale di Gesù si divisero le sue vesti tirandole a sorte.

 

Ciò corrispondeva all'usanza romana, secondo cui le vesti del giustiziato spettavano al plotone d'esecuzione. Giovanni cita esplicitamente il Salmo 22,19 riportandolo con queste parole: «Si sono divisi tra loro le mie vesti e sulla mia tunica hanno gettato la sorte» (19,24).

 

        Adeguandosi al parallelismo tipico della poesia ebraica, in cui un unico atto viene espresso in due tempi, Giovanni distingue due azioni: dapprima i soldati fecero quattro parti delle vesti di Gesù e le divisero tra loro. Poi presero anche «la tunica. Ma quella tunica era senza cuciture, tessuta tutta d'un pezzo da cima a fondo. Perciò dissero tra loro: "Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca "» (19,23s).

 

        Questa notizia sulla tunica (chiton) senza cuciture è riportata con tanta accuratezza, perché con ciò Giovanni ha ovviamente voluto ricordare qualcosa di più che un dettaglio casuale. Alcuni esegeti fanno riferimento, in questo contesto, ad un'informazione di Giuseppe Flavio, secondo cui la tunica (chitön) del sommo sacerdote veniva intessuta con un unico filo continuo (cfr Ant. lud., 111,7,4). Quindi, in questo accenno sommesso dell'evangelista si può forse individuare un'allusione alla dignità di sommo sacerdote di Gesù, una dignità che Giovanni, dal punto di vista teologico, aveva ampiamente presentato nella Preghiera sacerdotale di Gesù. Colui che lì muore non è soltanto il vero Re di Israele. E' anche il Sommo Sacerdote che, proprio in questa ora del suo estremo disonore, compie il suo ministero sacerdotale.

 

        I Padri, riflettendo su tale testo, hanno messo un accento diverso: essi vedono nella tunica senza cuciture, che anche i soldati non vogliono dividere in pezzi, un'immagine dell'unità indistruttibile della Chiesa. La tunica senza cuciture è espressione dell'unità che il sommo sacerdote Gesù aveva chiesto per i suoi la sera prima della passione. Di fatto, nella Preghiera sacerdotale si collegano inscindibilmente insieme il sacerdozio di Gesù e l'unità dei suoi. Ai piedi della croce percepiamo ancora una volta in modo penetrante il messaggio che Gesù nella sua preghiera, prima di uscire incontro alla morte, ci ha posto davanti e ha scritto nei nostri cuori.

 

«Ho sete»

 

All'inizio della crocifissione era stato offerta a Gesù, come si era soliti fare, una bevanda narcotizzante per attenuare i dolori insostenibili.

 

Gesù rifiutò questa bevanda – Egli voleva sopportare la sua sofferenza in modo pienamente cosciente (cfr Me 15,23). Al culmine della passione, nel sole cocente di mezzogiorno, steso sulla croce, Gesù gridò: «Ho sete» (Gv 19,28). Secondo la consuetudine, gli venne offerto il vino acidulo diffuso tra i poveri, che si poteva qualificare anche come aceto; era considerato una bevanda dissetante.

 

        Qui troviamo nuovamente quella compenetrazione di parola biblica ed evento sulla quale abbiamo riflettuto all'inizio di questo capitolo. Da una parte, la scena è del tutto realistica – la sete del Crocifisso e la bevanda acidula che i soldati in quei casi solevano somministrare. Dall'altra, sentiamo immediatamente trapelare il Salmo 69, applicabile alla passione, nel quale l'assetato lamenta: «Quando avevo sete mi hanno dato aceto» (v. 22). Gesù è il Giusto sofferente. In Lui si compie la passione del Giusto, illustrata dalla Scrittura nelle grandi esperienze degli oranti sofferenti.

 

        Ma come non pensare con ciò anche al canto della vigna nel 5° capitolo del profeta Isaia, quel canto sul quale abbiamo riflettuto nel contesto del discorso sulla vite (cfr Parte I, pp. 297-300)? In esso Dio aveva portato davanti a Israele il suo lamento. Su di una collina fertile, Dio aveva piantato una vigna e le aveva dedicato molta cura. «Egli aspettò che producesse uva; essa produsse, invece, acini acerbi» (Is 5,2). La vigna di Israele non porta a Dio il frutto nobile della giustizia, che ha il suo fondamento nell'amore. Essa produce gli acini acerbi dell'uomo che si preoccupa soltanto di se stesso. Produce aceto invece che vino. Il lamento di Dio, che sentiamo nel canto profetico, si concretizza in quest'ora in cui al Redentore assetato si offre aceto.

 

        Come il canto di Isaia illustra, al di là della sua ora storica, la sofferenza di Dio per il suo popolo, così anche la scena presso la croce si estende oltre l'ora della morte di Gesù. Non solo Israele, anche la Chiesa, anche noi rispondiamo all'amore premuroso di Dio sempre di nuovo con l'aceto – con un cuore acido che non vuole percepire l'amore di Dio. «Ho sete»: questo grido di Gesù è rivolto a ciascuno di noi.

 

        Le donne sotto la croce – la Madre di Gesù

 

        Tutti e quattro gli evangelisti ci parlano – ognuno a modo suo – delle donne sotto la croce.

 

Marco riferisce: «Vi erano anche alcune donne, che osservavano da lontano, tra le quali Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo il minore e di loses, e Salome, le quali, quando era in Galilea, lo seguivano e lo servivano, e molte altre che erano salite con lui a Gerusalemme» (15,40s). Anche se gli evangelisti in modo diretto non ne dicono niente, si può tuttavia percepire lo sconcerto e il lutto di tali donne di fronte all'accaduto semplicemente sulla base del fatto che la loro presenza viene menzionata.

 

Giovanni cita alla fine del suo racconto della crocifissione una parola del profeta Zaccaria: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (19,37; Zc 12,10). All'inizio dell'Apocalisse, questa parola, che qui illustra la scena presso la croce, egli l'applicherà in modo profetico al tempo finale – al momento del ritorno del Signore, quando tutti guarderanno a Colui che viene con le nubi – il Trafitto – e si batteranno il petto (cfr 1,7).

 

        Le donne guardano al Trafitto. Possiamo qui richiamare alla mente anche le altre parole del profeta Zaccaria: «Ne faranno il lutto come si fa il lutto per un figlio unico, lo piangeranno come si piange il primogenito» (12,10). Mentre fino alla morte di Gesù solo derisione e crudeltà avevano circondato il Signore, ora i Vangeli presentano un epilogo conciliante che conduce alla deposizione nel sepolcro ed alla risurrezione. Le donne rimaste fedeli sono presenti. La loro compassione e il loro amore si volgono al Redentore morto.

 

        Possiamo quindi tranquillamente aggiungere anche la conclusione del testo di Zaccaria: «In quel giorno vi sarà per la casa di Davide e per gli abitanti di Gerusalemme una sorgente zampillante per lavare il peccato e l'impurità» (13,1). Il guardare al Trafitto e il compatire diventano già per se stessi una fonte di purificazione. La forza trasformante della passione di Gesù prende inizio.

 

Giovanni non ci racconta soltanto che presso la croce di Gesù stavano delle donne – «sua madre e la sorella di sua madre, Maria di Clèopa e Maria di Magdala» (19,25) -, ma egli prosegue: «Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: "Donna, ecco tuo figlio!". Poi disse al discepolo: " Ecco tua madre! ". E da quell'ora il discepolo l'accolse con sé» (19,26s). È questa un'ultima disposizione di Gesù, quasi un atto di adozione. Egli è l'unico figlio di sua madre che, dopo la sua morte, rimarrebbe sola nel mondo. Ora Egli le pone a fianco il discepolo amato, lo rende, per così dire, figlio di lei al posto suo, e da quel momento questi è responsabile per lei – l'accoglie con sé. La traduzione letterale è ancora più forte; si potrebbe renderla più o meno così: egli l'accolse fra le proprie cose – l'accolse nel suo intimo contesto di vita. Questo è dunque innanzitutto un gesto del tutto umano del Redentore che sta per morire. Non lascia sola la madre, l'affida alla premura del discepolo a Lui molto vicino. E così anche al discepolo è donato un nuovo focolare – la madre che si cura di lui e della quale egli si prende cura.

 

Se Giovanni comunica vicende umane del genere, egli vuole certamente ricordare cose avvenute. Tuttavia, ciò che gli interessa è sempre qualcosa di più di singoli fatti del passato. L'evento rimanda al di là di se stesso verso ciò che permane. Che cosa, quindi, intende dirci con questo?

 

        Un primo approccio ce lo dà l'appellativo per la madre: «donna». È lo stesso appellativo che Gesù aveva usato nelle nozze di Cana (cfr Gv 2,4). Le due scene vengono così collegate l'una con l'altra. Cana era stata un'anticipazione delle nozze definitive – del vino nuovo che il Signore voleva donare. Solo adesso diventa realtà ciò che allora era stato soltanto un segno che rimandava al futuro.

 

        L'appellativo «donna», al tempo stesso, rinvia al racconto della creazione in cui il Creatore presenta ad Adamo la donna. Adamo reagisce a questa nuova creatura dicendo: «Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne. La si chiamerà donna…» (Gen 2,23). San Paolo nelle sue Lettere ha presentato Gesù come il nuovo Adamo col quale l'umanità ricomincia in modo nuovo. Giovanni ci dice che al nuovo Adamo appartiene nuovamente «la donna», che egli ci presenta nella figura di Maria. Nel Vangelo ciò rimane un'allusione sommessa che nella fede della Chiesa sarebbe poi stata sviluppata passo passo.

 

        L'Apocalisse parla del segno grandioso della donna che appare nel cielo, coinvolgendovi tutto Israele, anzi l'intera Chiesa. Continuamente la Chiesa deve con dolori generare Cristo (cfr 12,1- 6). Un altro passo nella maturazione del medesimo pensiero lo troviamo nella Lettera agli Efesini che applica a Cristo e alla Chiesa l'immagine dell'uomo che lascia il padre e la madre e diventa una sola carne con la moglie (cfr 5,31s). In base al modello della «personalità corporativa», la Chiesa antica – secondo il modo di pensare della Bibbia – non ha trovato alcuna difficoltà, da una parte, a riconoscere nella donna in modo del tutto personale Maria e, dall'altra, a vedere in essa, abbracciando tutti i tempi, la Chiesa sposa e madre, in cui il mistero di Maria si estende nella storia.

 

Come Maria, la donna, anche il discepolo prediletto è insieme una figura concreta e un modello del discepolato che esisterà sempre e sempre deve esistere. Al discepolo, che è veramente discepolo nella comunione d'amore col Signore, viene affidata la donna: Maria – la Chiesa.

 

        La parola di Gesù sulla croce rimane aperta a molte realizzazioni concrete. Sempre di nuovo essa viene rivolta sia alla madre che al discepolo, e a ciascuno è affidato il compito di porla in atto nella propria vita, così come previsto nel piano del Signore. Sempre di nuovo viene chiesto al discepolo di accogliere nella propria personale esistenza Maria come persona e come Chiesa e di adempie- re così l'ultima disposizione di Gesù.

 

_09 Dalla Crocifissione alla Deposizione 13Gesù muore sulla croce

 

Secondo il racconto degli evangelisti, Gesù è morto pregando all'ora nona, cioè alle tre del pomeriggio.

 

Secondo Luca, la sua ultima preghiera era tratta dal Salmo 31: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Le 23,46; cfr Sai 31,6). Secondo Giovanni, l'ultima parola di Gesù è stata: «È compiuto!» (19,30). Nel testo greco, questa parola (tetélestai) rimanda indietro all'inizio della passione, all'ora della lavanda dei piedi il cui racconto l'evangelista introduce sottolineando che Gesù amò i suoi «sino alla fine (télos)» (13,1). Questa «fine», questo estremo compimento dell'amare è raggiunta ora, nel momento della morte. Egli è veramente andato sino alla fine, sino al limite ed al di là del limite. Egli ha realizzato la totalità dell'amore – ha dato se stesso.

 

        Nel capitolo 6, trattando della preghiera di Gesù sul Monte degli ulivi, abbiamo conosciuto, in base ad Ebrei 5,9, ancora un altro significato della stessa parola (teleioùn): nella Torà, essa significa «iniziazione», consacrazione in ordine alla dignità sacerdotale, cioè totale passaggio nella proprietà di Dio. Penso che, con riferimento alla Preghiera sacerdotale di Gesù, possiamo anche qui sottintendere tale significato. Gesù ha compiuto fino in fondo l'atto di consacrazione, la consegna sacerdotale di se stesso e del mondo a Dio (cfr Gv 17,19). Così risplende in questa parola il grande mistero della croce. È stata compiuta la nuova liturgia cosmica. Al posto di tutti gli altri atti cultuali subentra la croce di Gesù come l'unica vera glorificazione di Dio, nella quale Dio glorifica se stesso mediante Colui in cui Egli ci dona il suo amore e così ci attrae in alto verso di sé.

 

        I Vangeli sinottici caratterizzano la morte in croce esplicitamente come evento cosmico e liturgico: il sole si oscura, il velo del tempio si squarcia in due, la terra trema, dei morti risuscitano.

 

        Più importante ancora del segno cosmico è un processo di fede: il centurione – comandante del plotone d'esecuzione -, nello sconvolgimento per gli avvenimenti che vede, riconosce Gesù come Figlio di Dio: «Davvero, quest'uomo era Figlio di Dio» (Me 15,39). Sotto la croce prende inizio la Chiesa dei pagani. A partire dalla croce, il Signore raduna gli uomini per la nuova comunità della Chiesa universale. In virtù del Figlio sofferente essi riconoscono il vero Dio.

 

        Mentre i Romani, come intimidazione, lasciavano volutamente pendere i crocifissi dopo la morte dallo strumento di tortura, questi, secondo il diritto giudaico, dovevano essere tolti il giorno stesso (cfr Dt 21,22s). Per questo era compito del plotone d'esecuzione di accelerare la morte spezzando loro le gambe. Avviene così anche nel caso dei crocifissi sul Gòlgota. Ai due «briganti» vengono spezzate le gambe. Ma poi i soldati vedono che Gesù è già morto. Allora rinunciano a spezzargli le gambe. Invece di ciò, uno di loro trafigge il lato destro – il cuore – di Gesù «e subito ne uscì sangue e acqua» (Gv 19,34). È l'ora in cui vengono immolati gli agnelli pasquali. Per essi vige la prescrizione secondo cui non deve esserne spezzato alcun osso (cfr Es 12,46). Gesù appare qui come il vero Agnello pasquale, che è puro e perfetto.

 

        Possiamo quindi in questa parola scorgere anche un tacito rimando all'inizio della vicenda di Gesù – a quell'ora in cui il Battista aveva detto: «Ecco l'agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!» (Gv 1,29). Ciò che allora doveva rimanere ancora incomprensibile – era soltanto un'allusione misteriosa a qualcosa di futuro – è adesso realtà. Gesù è l'Agnello scelto da Dio stesso. Sulla croce Egli porta il peccato del mondo, e lo «toglie» via. Al tempo stesso risuona, però, anche il Salmo 34, dove si legge: «Molti sono i mali del giusto, ma da tutti lo libera il Signore. Custodisce tutte le sue ossa: neppure uno sarà spezzato» (v. 20s). Il Signore, il Giusto, ha sofferto molto, ha sofferto tutto, eppure Dio lo ha custodito: non gli è stato spezzato alcun osso.

 

        Sangue e acqua uscirono dal cuore trafitto di Gesù. In tutti i secoli la Chiesa, secondo la parola di Zaccaria, ha guardato a questo cuore trafitto e riconosciuto in esso la fonte di benedizione indicata anticipatamente nel sangue e nell'acqua. La parola di Zaccaria spinge addirittura a cercare una comprensione più profonda di ciò che lì è accaduto.

 

        Un primo grado di questo processo di penetrazione lo troviamo nella Prima Lettera di Giovanni, che riprende con vigore il discorso del sangue e dell'acqua usciti dal costato di Gesù: «Egli è colui che è venuto con acqua e sangue, Gesù Cristo; non con l'acqua soltanto, ma con l'acqua e con il sangue. Ed è lo Spirito che dà testimonianza, perché lo Spirito è la verità. Poiché tre sono quelli che danno testimonianza: lo Spirito, l'acqua e il sangue, e questi tre sono concordi» (5,6ss).

 

        Che cosa intende dire l'autore con l'affermazione insistente che Gesù è venuto non soltanto con l'acqua ma anche col sangue? Si può probabilmente supporre che egli alluda ad una corrente di pensiero che attribuiva valore soltanto al battesimo, ma accantonava la croce. E ciò significa forse anche che si considerava importante solo la parola, la dottrina, il messaggio, ma non «la carne», il corpo vivente di Cristo, dissanguato sulla croce; significa che si cercava di creare un cristianesimo del pensiero e delle idee, dal quale si voleva togliere via la realtà della carne: il sacrificio e il Sacramento.

 

        I Padri hanno visto in questo duplice flusso di sangue e di acqua un'immagine dei due sacramenti fondamentali – l'Eucaristia e il Battesimo – che scaturiscono dal fianco trafitto del Signore, dal suo cuore. Essi sono la corrente nuova che crea la Chiesa e rinnova gli uomini. Ma i Padri, di fronte al costato aperto del Signore dormiente sulla croce nel sonno della morte, hanno pensato anche alla creazione di Eva dal costato di Adamo addormentato, vedendo così nella corrente dei sacramenti al contempo l'origine della Chiesa: hanno visto la creazione della nuova donna dal costato del nuovo Adamo.

 

        La deposizione di Gesù nel sepolcro

 

        Tutti e quattro gli evangelisti ci raccontano che un membro benestante del sinedrio, Giuseppe d'Arimatea, chiese a Pilato il corpo di Gesù.

 

Marco (15,43) e Luca (23,51) aggiungono che Giuseppe era uno che «aspettava il regno di Dio», mentre Giovanni (cfr 19,38) lo qualifica un discepolo segreto di Gesù, un discepolo che, per timore dei circoli giudaici dominanti, fino a quel momento non si è apertamente manifestato come tale. Giovanni menziona inoltre la partecipazione di Nicodèmo (cfr 19,39), circa il cui colloquio notturno con Gesù su nascita e rinascita dell'uomo egli aveva riferito nel terzo capitolo (cfr vv. 1-8). Dopo il dramma del processo, in cui tutto sembrava congiurare contro Gesù e nessuna voce sembrava più alzarsi in suo favore, veniamo ora a conoscere l'altro Israele: persone che sono in attesa. Persone che si fidano delle promesse di Dio e vanno in cerca del loro adempimento. Persone che nella parola e nell'opera di Gesù riconoscono l'irruzione del regno di Dio, l'inizio del compiersi delle promesse. Persone del genere finora le avevamo incontrate nei Vangeli prevalentemente tra la gente semplice: Maria e Giuseppe, Elisabetta e Zaccaria, Simeone ed Anna – inoltre i discepoli che tutti, pur provenendo da differenti livelli culturali e da correnti diverse in Israele, tuttavia non appartenevano ai circoli influenti. Ora – dopo la morte di Gesù – ci vengono incontro due personaggi ragguardevoli della classe colta di Israele che, pur non avendo ancora osato dichiarare la loro condizione di discepoli, avevano tuttavia quel cuore semplice che rende l'uomo capace della verità (cfr Mt 10,25s).

 

        Mentre i Romani abbandonavano i corpi dei giustiziati sulla croce agli avvoltoi, i Giudei ci tenevano che essi venissero seppelliti; esistevano luoghi assegnati dall'autorità giudiziaria proprio per questo. In tale senso, la richiesta di Giuseppe rientra nella consuetudine giudiziaria giudaica. Marco riferisce che Pilato si meravigliò che Gesù fosse già morto e che anzitutto si informò presso il centurione circa la verità di tale notizia. Dopo la conferma della morte di Gesù, egli concesse il corpo di Gesù al membro del consiglio (cfr 15,44s).

 

        Sulla deposizione stessa nel sepolcro gli evangelisti ci trasmettono una serie di informazioni importanti. Innanzitutto viene sottolineato che Giuseppe fa mettere il corpo del Signore in un sepolcro nuovo di sua proprietà nel quale nessuno era stato ancora sepolto (cfr Mt 27,60; Le 23,53; Gv 19,41). In ciò si esprime un rispetto profondo nei confronti di questo defunto. Come nella «Domenica delle Palme» si è servito di un asino sul quale nessuno era ancora salito (cfr Me 11,2), così ora Egli viene messo anche in un sepolcro nuovo.

 

        Inoltre è importante la notizia secondo cui Giuseppe comprò un lenzuolo in cui avvolse il defunto. Mentre i sinottici parlano semplicemente di un lenzuolo al singolare, Giovanni usa il plurale «teli» di lino (cfr 19,40) secondo l'usanza giudaica nelle sepolture – il racconto della risurrezione ritorna su questo ancora più dettagliatamente. La questione circa la concordanza con la sindone di Torino non deve qui occuparci; in ogni caso, l'aspetto di tale reliquia è in linea di massima conciliabile con ambedue i rapporti.

 

        Infine Giovanni ci racconta che Nicodèmo portò una mistura di mirra e di aloè, «circa cento libbre [trenta chili]». E prosegue: «Essi presero allora il corpo di Gesù e lo avvolsero con teli, insieme ad aromi, come usano fare i Giudei per preparare la sepoltura» (19,39s). La quantità degli aromi è straordinaria e supera ogni misura comune: è una sepoltura regale. Se nel sorteggio delle vesti abbiamo intravisto Gesù come sommo sacerdote, ora il genere della sua sepoltura lo manifesta come re: nei momenti in cui tutto sembra finito emerge tuttavia in modo misterioso la sua gloria.

 

        I Vangeli sinottici ci raccontano che alcune donne osservavano la sepoltura (cfr Mt 27,61; Me 15,47), e Luca informa che si trattava delle donne «che erano venute con Gesù dalla Galilea» (23,55). Egli aggiunge: «Poi tornarono indietro e prepararono aromi e oli profumati. Il giorno di Sabato osservarono il riposo come era prescritto» (23,56). Dopo il riposo sabbatico, al mattino del primo giorno della settimana, esse verranno per ungere il corpo di Gesù ed effettuare così la sepoltura definitiva. L'unzione è un tentativo di fermare la morte, di sottrarre il cadavere alla decomposizione. E, tuttavia, questo è uno sforzo inutile: l'unzione può conservare il defunto soltanto come defunto, non può ridargli la vita.

 

        Al mattino del primo giorno, le donne vedranno che la loro premura per il defunto e per la sua conservazione è stata una premura troppo umana. Vedranno che Gesù non deve essere conservato nella morte, ma che Egli è vivo nuovamente e soltanto ora vive veramente. Vedranno che Dio, in un modo definitivo e solo a Lui possibile, lo ha sottratto alla corruzione e con ciò al potere della morte. Tuttavia, nella premura e nell'amore delle donne si preannuncia già il mattino della risurrezione.

 

_09 Dalla Crocifissione alla Deposizione 43 La morte di Gesù come riconciliazione (espiazione) e salvezza

 

In un ultimo punto vorrei cercare di far vedere, per lo meno a grandi linee, come la Chiesa nascente, sotto la guida dello Spirito Santo, sia lentamente penetrata nella verità più profonda della croce, mossa dal desiderio di capire almeno da lontano il motivo e lo scopo di essa. Sorprendentemente, una cosa era chiara fin dall'inizio: con la croce di Cristo, gli antichi sacrifici del tempio erano definitivamente superati. Era accaduto qualcosa di nuovo.

 

        L'attesa contenuta nella critica dei profeti, che s'era espressa in particolare anche nei Salmi, aveva trovato adempimento: Dio non voleva essere glorificato mediante i sacrifici di tori e di capri, il cui sangue non può purificare l'uomo né espiare per lui. Il nuovo culto atteso, e tuttavia fino a quel momento non ancora definito, era diventato una realtà. Nella croce di Gesù era avvenuto ciò che nei sacrifici animali era stato tentato invano: il mondo aveva ottenuto l'espiazione. L'«Agnello di Dio» aveva caricato su di sé il peccato del mondo e l'aveva tolto via. Il rapporto di Dio col mondo – rapporto disturbato a causa della colpa degli uomini – era stato rinnovato. Si era realizzata la riconciliazione.

 

        Così Paolo poteva sintetizzare l'evento di Gesù Cristo, il suo nuovo messaggio, con le parole: «E' stato Dio infatti a riconciliare a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio!» (2 Cor 5,19s). Soprattutto dalle Lettere di Paolo conosciamo gli acuti contrasti che c'erano nella Chiesa nascente circa la questione se la legge mosaica conservasse anche per i cristiani la sua forza vincolante. Tanto più sorprendente è il fatto che su una cosa – come s'è detto – ci fosse concordia fin dall'inizio: i sacrifici del tempio – il centro cultuale della Torà – erano superati. Cristo aveva preso il loro posto. Il tempio rimaneva un luogo venerabile di preghiera e di annuncio. I suoi sacrifici, invece, non erano più validi per i cristiani.

 

        Ma come ciò doveva essere capito più precisamente? Nella letteratura neotestamentaria ci sono diversi tentativi di interpretare la croce di Cristo come il nuovo culto, la vera espiazione e la vera purificazione del mondo inquinato.

 

        Più volte abbiamo già parlato del testo fondamentale di Romani 3,25 in cui Paolo chiaramente riprende una tradizione della prima comunità giudeo-cristiana di Gerusalemme, qualificando Gesù crocifisso come hilastèrion. Con tale parola, come abbiamo visto, viene indicato il coperchio dell'arca dell'alleanza che durante il sacrificio espiatorio, nel grande giorno dell'Espiazione, veniva asperso col sangue della riparazione. Diciamo subito come i cristiani ora interpretavano questo rito arcaico: non è il contatto di sangue animale con un arredo sacro a riconciliare Dio e l'uomo. Nella passione di Gesù, tutto lo sporco del mondo viene a contatto con l'immensamente Puro, con l'anima di Gesù Cristo e così con lo stesso Figlio di Dio. Se di solito la cosa impura mediante il contatto contagia ed inquina la cosa pura, qui abbiamo il contrario: dove il mondo, con tutta la sua ingiustizia e con le sue crudeltà che lo inquinano, viene a contatto con l'immensamente Puro – là Egli, il Puro, si rivela al contempo il più forte. In questo contatto lo sporco del mondo viene realmente assorbito, annullato, trasformato mediante il dolore dell'amore infinito. Siccome nell'Uomo Gesù è presente il bene infinito, è ora presente ed efficace nella storia del mondo la forza antagonista di ogni forma di male, il bene è sempre infinitamente più grande di tutta la massa del male, per quanto essa sia terribile.

 

        Se cerchiamo di riflettere un po' più a fondo su questa convinzione, troviamo anche la risposta ad una obiezione che ripetutamente viene sollevata contro l'idea di espiazione. Sempre di nuovo si dice: Non è forse un Dio crudele colui che richiede un'espiazione infinita? Non è questa un'idea indegna di Dio? Non dobbiamo forse, a difesa della purezza dell'immagine di Dio, rinunciare all'idea di espiazione?

 

Nel discorso su Gesù come hilasterion diventa evidente che il perdono reale che avviene a partire dalla croce si realizza proprio in modo inverso. La realtà del male, dell'ingiustizia che deturpa il mondo e insieme inquina l'immagine di Dio – questa realtà c'è: per colpa nostra. Non può essere semplicemente ignorata, deve essere smaltita. Ora, tuttavia, non è che da un Dio crudele venga richiesto qualcosa di infinito. È proprio il contrario: Dio stesso si pone come luogo di riconciliazione e, nel suo Figlio, prende la sofferenza su di sé. Dio stesso introduce nel mondo come dono la sua infinita purezza. Dio stesso «beve il calice» di tutto ciò che è terribile e ristabilisce così il diritto mediante la grandezza del suo amore, che attraverso la sofferenza trasforma il buio.

 

        Obiettivamente, il Vangelo di Giovanni (specialmente con la teologia della Preghiera sacerdotale) e la Lettera agli Ebrei (con l'intera interpretazione della Torà cultuale nella prospettiva della teologia della croce) hanno sviluppato proprio questi pensieri e così al tempo stesso hanno reso evidente come nella croce si compie l'intimo senso dell'Antico Testamento – non soltanto la critica cultuale dei profeti ma, positivamente, anche ciò che sempre era stato il significato e l'intenzione del culto.

 

        Traendolo dalla grande ricchezza della Lettera agli Ebrei, vorrei qui proporre alla riflessione solo un unico testo fondamentale. L'autore qualifica il culto dell'Antico Testamento come «ombra» (10,1) e lo spiega così: «È impossibile infatti che il sangue di tori e di capri elimini i peccati» (10,4). Poi cita il Salmo 40,7ss ed interpreta queste parole del Salmo come dialogo del Figlio col Padre, un dialogo in cui si compie l'incarnazione e, al contempo, la nuova forma del culto divino diventa realtà: «Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: "Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà"» (Ebr 10,5ss; cfr Sai 40,7ss).

 

        In questa breve citazione del Salmo c'è una modifica importante rispetto al testo originale, una modifica che presenta il punto finale di uno sviluppo in tre tappe nella teologia del culto. Mentre la Lettera agli Ebrei legge: «Un corpo mi hai preparato», il Salmista aveva detto: «Gli orecchi mi hai aperto». Già qui, al posto dei sacrifici del tempio era subentrata l'obbedienza. La vita impostata sulla base della parola di Dio e all'interno di essa era stata riconosciuta come il vero modo di venerare Dio. In ciò il Salmo s'incontrava con una corrente dello spirito greco nell'ultimo periodo prima della nascita di Cristo: anche nel mondo greco si sentiva sempre più insistentemente l'insufficienza dei sacrifici animali di cui Dio non ha bisogno e nei quali l'uomo non dà a Dio ciò che Egli potrebbe aspettarsi dall'uomo. Così venne qui formulata l'idea del «sacrificio a modo di parola»: la preghiera, l'aprirsi dello spirito umano verso Dio è il vero culto. Quanto più l'uomo diventa parola – o meglio: diventa con l'intera sua esistenza risposta a Dio – tanto più egli pone in essere il culto giusto.

 

        Nell'Antico Testamento, dal primo inizio dei Libri di Samuele fino alla tarda profezia di Daniele, troviamo in maniera sempre nuova la ricerca affannosa intorno a questo pensiero che si collega sempre più strettamente con l'amore per la parola orientativa di Dio, cioè per la Torà. Dio viene venerato in modo giusto se noi viviamo nell'obbedienza alla sua parola e, plasmati così interiormente dalla sua volontà, diventiamo conformi a Dio. D'altra parte, rimane pur sempre anche un'impressione di insufficienza. La nostra obbedienza è sempre nuovamente mancante. Sempre di nuovo la volontà personale si fa avanti. Il profondo senso dell'insufficienza di ogni obbedienza umana verso la parola di Dio fa, tuttavia, erompere sempre nuovamente il desiderio dell'espiazione, che però in virtù di noi stessi e della nostra «prestazione di obbedienza» non può realizzarsi. Per questo, nel bel mezzo del discorso sull'insufficienza degli olocausti e dei sacrifici, erompe poi anche sempre di nuovo il desiderio che essi possano ritornare in modo più perfetto (cfr ad es. Sai 51,19ss).

 

        Nella versione che la parola del Salmo 40 ha trovato nella Lettera agli Ebrei, è contenuta la risposta a tale desiderio: il desiderio che a Dio sia dato ciò che noi non siamo in grado di dargli e che il dono sia tuttavia dono nostro trova il suo adempimento. Il salmista aveva pregato: «Non hai chiesto olocausto né sacrificio per il peccato. Gli orecchi mi hai aperto». Il vero Logos, il Figlio, dice al Padre: «Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato». Il Logos stesso, il Figlio, si fa carne; assume un corpo umano. Così è possibile una nuova forma di obbedienza, un'obbedienza che va al di là di ogni adempimento umano dei Comandamenti. Il Figlio diventa Uomo e nel suo corpo riporta a Dio l'intera umanità. Solo il Verbo fattosi carne, il cui amore si compie sulla croce, è l'obbedienza perfetta. In Lui non è soltanto divenuta definitiva la critica ai sacrifici del tempio, ma è adempiuto anche il desiderio che era restato: la sua obbedienza «corporea» è il nuovo sacrificio nel quale coinvolge tutti noi e in cui al contempo tutta la nostra disobbedienza è annullata mediante il suo amore.

 

        Detto ancora in altre parole: la nostra personale moralità non basta per venerare Dio in modo giusto. Questo san Paolo ha chiarito con grande forza nella controversia circa la giustificazione. Ma il Figlio fattosi carne porta in sé tutti noi e dona così ciò che noi da soli non potremmo dare. Per questo fa parte dell'esistenza cristiana sia il sacramento del Battesimo quale accoglienza nell'obbedienza di Cristo, sia l'Eucaristia in cui l'obbedienza del Signore sulla croce ci abbraccia tutti, ci purifica e ci attira nell'adorazione perfetta realizzata da Gesù Cristo.

 

        Ciò che qui, nell'assimilazione orante dell'Antico Testamento e della via di Gesù, la Chiesa nascente dice circa l'incarnazione e la croce si pone nel bel mezzo della ricerca drammatica che in quel periodo si svolge circa la giusta comprensione del rapporto tra Dio e l'uomo. Non risponde solo al «perché» della croce, ma contemporaneamente anche alle domande assillanti, sia per il mondo giudaico che per quello pagano, su come l'uomo possa diventare retto davanti a Dio e come, inversamente, possa comprendere in modo giusto il Dio misterioso e nascosto, supposto che ciò sia alla portata degli uomini. Sulla base di tutte le riflessioni precedenti si è già reso evidente che con ciò non solo è stata elaborata un'interpretazione teologica della croce come anche – a partire dalla croce – dei fondamentali sacramenti cristiani, del culto cristiano, ma che è coinvolta sempre anche la dimensione esistenziale: che cosa comporta questo per me? che cosa significa per il mio cammino di persona umana?

 

L'obbedienza «corporea» di Cristo è, appunto, presentata come spazio aperto nel quale noi veniamo accolti e per mezzo del quale la nostra vita personale trova un nuovo contesto. Il mistero della croce non sta semplicemente di fronte a noi, ma ci coinvolge e dà alla nostra vita un nuovo valore.

 

        Questo lato esistenziale della nuova concezione di culto e di sacrificio appare particolarmente chiaro nel capitolo 12 della Lettera ai Romani: «Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio, come la vostra adorazione nello spirito [letteralmente: come culto a modo di parola]» (v. 1). È qui ripreso il concetto del culto a Dio mediante la parola (logiké latreia) e s'intende l'abbandono a Dio dell'intera esistenza, un abbandono in cui, per così dire, l'uomo intero diventa come parola, diventa conforme a Dio. In ciò è sottolineata la dimensione della corporeità: proprio la nostra esistenza corporea deve essere pervasa dalla Parola e diventare dono per Dio. Paolo, che pone tanto in rilievo l'impossibilità della giustificazione in base alla propria moralità, presuppone in ciò indubbiamente che questo nuovo culto dei cristiani, in cui essi stessi sono il «sacrificio vivente e santo» sia possibile solo nella partecipazione all'amore corporeizzato di Gesù Cristo, quell'amore che mediante il potere della sua santità supera ogni nostra insufficienza.

 

        Se, da una parte, dobbiamo dire che Paolo con una tale esortazione non cede ad alcuna forma di moralismo e non smentisce affatto la sua dottrina circa la giustificazione mediante la fede – e non mediante le opere -, dall'altra, diventa tuttavia evidente che l'uomo con questa dottrina della giustificazione non è condannato alla passività – non diventa un destinatario solamente passivo della giustizia di Dio che, in tal caso, resterebbe in fondo sempre qualcosa di esterno a lui. No, la grandezza dell'amore di Cristo si mostra proprio nel fatto che Egli, nonostante tutta la nostra miserevole insufficienza, ci accoglie in sé, nel suo sacrificio vivente e santo, così che diventiamo veramente il «suo corpo».

 

        Nel capitolo 15 della Lettera ai Romani, Paolo riprende lo stesso pensiero ancora una volta con molta insistenza, interpretando il suo apostolato come sacerdozio e qualificando i pagani diventati credenti come il sacrificio vivente gradito a Dio: vi ho scritto «a motivo della grazia che mi à stata data da Dio per essere ministro di Gesù Cristo tra le genti, adempiendo il sacro ministero di annunciare il vangelo di Dio perché le genti divengano un'offerta gradita, santificata dallo Spirito Santo» (15,15s).

 

        In tempi più recenti, questo modo di parlare di sacerdozio e di sacrificio è stato qualificato come semplicemente allegorico. Si tratterebbe di sacerdozio e di sacrificio soltanto in senso improprio, puramente spirituale, non in senso cultuale, reale. Paolo stesso e tutta la Chiesa antica, invece, hanno visto questo proprio nel senso opposto. Per loro, i sacrifici materiali erano sacrificio e culto solo in senso improprio – un tentativo di protendersi verso qualcosa che, tuttavia, non erano in grado di realizzare. Il culto vero è l'uomo vivente che è diventato interamente risposta a Dio, plasmato dalla sua parola risanatrice e trasformante. E il vero sacerdozio è quindi quel ministero della Parola e del Sacramento che trasforma gli uomini in un dono per Dio e rende il cosmo una lode al Creatore e Redentore. Per questo il Cristo che sulla croce offre se stesso è il vero sommo sacerdote, al quale il sacerdozio aronnitico rimandava in modo simbolico. Il dono che Egli fa di se stesso – la sua obbedienza che accoglie tutti noi e ci riporta a Dio – è quindi il vero culto, il vero sacrificio (di questo basti approfondire il vero sacerdozio del Cristo che è quello citato nella misteriosa figura di Melchisedec).

 

        Per questo, al centro del ministero apostolico e dell'annuncio del Vangelo che conduce verso la fede deve stare l'ingresso nel mistero della croce. Conseguentemente, se nella celebrazione dell'Eucaristia, nella partecipazione, ogni volta nuova, al mistero sacerdotale di Gesù Cristo, possiamo vedere il centro del culto cristiano, resta tuttavia da tener sempre presente la sua estensione totale: lo scopo è costantemente quello di attrarre dentro l'amore di Cristo ogni singolo e il mondo così che tutti divengano insieme con Lui «un'offerta gradita a Dio, santificata dallo Spirito Santo» (Rm 15,16).

 

_09 Dalla Crocifissione alla Deposizione 7A partire da queste riflessioni lo sguardo si apre, infine, verso un'ulteriore dimensione dell'idea cristiana di culto e di sacrificio. Essa si rende evidente nel seguente versetto della Lettera ai Filippesi nel quale Paolo prevede il suo martirio e, al tempo stesso, lo interpreta teologicamente: «Anche se io devo essere versato come sacrificio e nella liturgia della vostra fede, sono lieto e mi rallegro con tutti voi» (2,17; cfr 2 Tm 4,6). Paolo considera il suo previsto martirio come liturgia e come un evento sacrificale. Anche questo, di nuovo, non è semplicemente un'allegoria né un modo di parlare improprio. No, nel martirio egli viene tirato totalmente dentro l'obbedienza di Cristo, dentro la liturgia della croce e così dentro il vero culto.

 

        In base a questa interpretazione, la Chiesa antica ha potuto comprendere il martirio nella sua vera profondità e grandezza. Così ad esempio Ignazio d'Antiochia, secondo la tradizione, ha qualificato se stesso come frumento di Cristo, che nel martirio viene macinato per diventare pane di Cristo (cfr Ad Rom. 4.1). Nel rapporto sul martirio di san Policarpo si racconta che le fiamme, nelle quali egli doveva essere bruciato, presero la forma di un velo gonfiato dal vento; esso «circondava così il corpo del martire; questi, però, stava al centro non come carne bruciata, ma come un pane che viene cotto» ed emanava «un odore buono come di incenso profumato» (Mart. Polyc. 15). Analogamente i cristiani di Roma hanno interpretato anche il martirio di san Lorenzo, che venne bruciato sulla graticola: vedevano in ciò non solo la perfetta unione di lui con il mistero di Cristo, che nel martirio è divenuto pane per noi, ma anche un'immagine dell'esistenza cristiana in generale: nelle tribolazioni della vita veniamo lentamente purificati nel fuoco, possiamo per così dire diventare pane, nella misura in cui nella nostra vita e nella nostra sofferenza si comunica il mistero di Cristo e il suo amore fa di noi un dono per Dio e per gli uomini.

 

        Vivendo il Vangelo e soffrendo per esso, la Chiesa, sotto la guida del messaggio apostolico, ha imparato a comprendere sempre di più il mistero della croce, anche se questo, in ultima analisi, non è scomponibile in formule della nostra ragione: nella croce l'oscurità e l'illogicità del peccato s'incontrano con la santità di Dio nella sua luminosità abbagliante per i nostri occhi e questo va al di là della nostra logica. E tuttavia, nel messaggio del Nuovo Testamento e nel suo verificarsi nella vita dei santi, il grande mistero è diventato del tutto luminoso.

 

        Il mistero dell'espiazione non deve essere sacrificato a nessun razionalismo saccente. Ciò che il Signore rispose alla richiesta da parte dei figli di Zebedeo circa i troni accanto a Lui rimane una parola chiave per la fede cristiana in generale: «Il Figlio dell'uomo non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,45).

 

(dal Gesù di Nazaret di Benedetto XVI – Tomo II – dall'ingresso aGerusalemme fino alla Risurrezione)

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