Capire Benedetto XVI. Tradizione e modernità ultimo appuntamento

Pubblichiamo il quarto capitolo del volume di Stefano Fontana su "La politica e la religione vera" come invito ad accostare tutto il testo su questi argomenti: "i limiti della libertà religiosa, i rapporti con il pensiero liberale, la presenza pubblica della religione vera cioè cattolica, il posto di Dio nella pubblica piazza, il fondamento ultimo dell'autorità politica, il dialogo interreligioso, la visione legittima della laicità, la presenza del Fine Ultimo nella visione finalistica del bene comune, l'evangelizzazione non solo delle anime ma anche delle culture e delle civiltà, l'insufficienza  di una presenza della Chiesa in pubblico fondata solo sul diritto alla libertà religiosa, le esigenze del dogma cattolico rispetto all'ordine naturale, razionale e politico, i diritti di Dio come fondamento dei diritti umani e non viceversa.

 

4 - LA POLITICA E LA RELIGIO VERA (non ci sono le note)

 

La complessa e ricca riflessione di BXVI finora esaminata ha un suo punto di ricaduta di grande importanza nel tema del rapporto tra la politica e la religione cattolica. Qui si concentrano i temi della laicità, dell'impegno politico dei cattolici, del rapporto tra lo Stato e la Chiesa, della secolarizzazione: tutte componenti del più ampio problema del rapporto tra la Chiesa e il mondo. Qui si può anche verificare la portata della dottrina di BXVI circa la religione del Logos e la centralità di Dio, nonché della sua valutazione della modernità.

Abbiamo visto che Benedetto XVI si contrappone alla teologia contemporanea secolarizzata, chiedendo una presenza di Dio nella pubblica piazza, esecrando la politica che vuole eliminare la religione dall'ambito pubblico, sostenendo che la morale, di cui la politica ha bisogno, sarebbe priva di fondamento senza la centralità di Dio. La sua posizione, più volte espressa, è però che la politica incontra la religione a livello morale ma non a quello ecclesiastico. Questo significa – e su questo punto specifico la posizione è assolutamente condivisibile – che non spetta agli ecclesiastici fare politica direttamente, se non valutandola per gli aspetti di fede e di morale. Questo lo dice anche il n. 36 della Gaudium et spes e Benedetto XVI si attiene a questa posizione. Però dobbiamo notare che l'aspetto ecclesiastico è diverso dall'aspetto religioso. La Chiesa non deve far valere in pubblico il primo, perché in questo caso si potrebbe parlare di teocrazia, come avviene all'interno della galassia islamica per esempio. Però deve far valere in pubblico il secondo, ossia la religio vera, perché senza di questa anche il piano morale non ha la forza di reggere per orientare la politica. L'intervento del piano ecclesiastico comporta che il clero faccia direttamente in politica, la presenza pubblica del piano religioso invece comporta che le decisioni politiche rimangano in capo all'autorità politica ma anche che questa abbia un rapporto essenziale, pur nella distinzione, con la religione cattolica, sia per essere vera politica autenticamente autonoma e sia per concepire e perseguire senza riduzionismi il bene comune. Benedetto XVI ha più volte riconosciuto, come abbiamo dimostrato, che la ragione politica non riesce ad essere se stessa senza l'aiuto della fede cattolica. Dire di no ad una dipendenza del potere politico dal potere ecclesiastico non comporta dire di no anche alla dipendenza della politica dalla religione vera. Se questa non viene riconosciuta, l'incontro tra politica e religione vera si ferma al livello etico, che però è insufficiente, come si è più volte detto sostenendo che si tratterebbe di naturalismo, ossia già una forma di secolarizzazione sia della religione che della politica. Possiamo fare un esempio: quando il magistero interviene in campo politico con dei documenti, lo fa dando un giudizio non direttamente politico (che sarebbe clericalismo ecclesiastico) ma morale, però nello stesso tempo deve anche dare il relativo insegnamento religioso, basato sulla rivelazione, che sostiene e fonda lo stesso pronunciamento morale. La Chiesa non è una agenzia morale perché la religione non è solo una morale anche se contiene in sé una morale. L'esclusione del religioso dall'ambito pubblico, dovuto alla sua equiparazione con l'ecclesiastico, riduce la Chiesa ad animatrice etica della società, privata della sua funzione salvifica, che riguarda le anime ma anche la costruzione della società, così importante al fine della salvezza stessa delle anime. Purtroppo, anziché far valere in pubblico il proprio insegnamento morale, accade che la Chiesa parli spesso in termini solo laici e che nei documenti del magistero non si leggano nemmeno più termini religiosi. Ciò è avvenuto anche in interventi di papa Francesco. Capita anche che anziché ricondurre i discorsi laici a quelli religiosi per rafforzarne l'autorevolezza, si faccia il contrario, sostenendo che se un discorso religioso viene anche condiviso dai laici acquista maggior valore.

Esaminiamo in particolare alcuni aspetti di questa problematica nel pensiero di BXVI: la questione della laicità, il fondamento dell'autorità, la visione del bene comune.

Circa il primo punto, BXVI distingue, come già abbiamo visto sopra, tra due tipi di laicità. La prima forma di laicità è quanto egli chiama "illuminismo radicale", la seconda la chiama "sana laicità".  Questa distinzione non si giustifica alla luce dell'impianto generale del suo discorso visto nei capitoli precedenti e in particolare con quello riguardante la centralità di Dio. La laicità viene oggi intesa come la ragione politica che difende l'ambito pubblico per preservarlo integro a disposizione dell'analisi razionale . Ma questo è già razionalismo, ossia possiede già l'assolutezza del sapere razionale, come dice lo stesso Benedetto XVI.  In questo modo la religione vera è ridotta a setta come tutte le altre, non avendo i titoli di ragionevolezza per accedere allo spazio pubblico dominato da una ragione assoluta, cioè senza religione. La religione del Logos è ridotta a un credo irrazionale. La tolleranza politica verso la religione viene di conseguenza ammessa solo in tre casi: «come fatto privato, come setta nel mercato dei sentimenti religiosi, come vaga e generica mistica»  di tipo plurireligioso e sincretistico. In nessuno dei tre casi alla religione viene riconosciuto un titolo di ragionevolezza politica. Come abbiamo già visto, questa pretesa della ragione di difendere l'assolutezza dello spazio pubblico dalla religione è una presa di posizione postulatoria e dogmatica, segno di una nuova religione civile dall'anima irreligiosa. Si tratta di una fede più che di una ragione che combatte Dio ma poi finisce per sottomettersi agli dei  il primo dei quali è essa stessa. La laicità comunemente intesa oggi esclude il discorso religioso, oppure lo ammette solo nelle tre forme viste sopra. Designare la prima come laicità radicale e la seconda come laicità moderata non risolve il problema , perché l'esclusione avviene in ambedue le forme e perché in ambedue le forme la religione vera è equiparata alle altre religioni e non svolge nessun ruolo proprio ed essenziale ma solo uno generico, cessando perciò la pretesa di essere vera, titolo che comporta la pretesa dell'unicità. Una volta acquisita l'autonomia dalla religione vera, la politica alternerà forme acute o forme moderate di laicità a seconda delle contingenze storiche. Va inoltre ricordato che se all'inizio la rivendicazione dell'autonomia dalla religione vera viene fatta in nome della ragione, poi anche la ragione perderà progressivamente consistenza – è sempre Benedetto XVI a dirlo quando afferma che la ragione senza la fede diventa anche meno ragione – e si cadrà nel relativismo. Il relativismo, come anche il razionalismo come abbiamo visto, «non può essere argomentato. Se argomentato, esso farebbe riferimento ad una capacità della ragione di argomentare la verità».  Il relativismo presenta se stesso come verità assoluta, ma non argomentando tale pretesa. Come si vede anche da questo punto di vista, lo scivolamento dalla laicità moderata all'assolutismo antireligioso della laicità forte è inevitabile.

Che ne è allora del concetto di "legittima autonomia" del Vaticano II che Benedetto XVI conferma e a cui si ispira? Tutto sta a precisare chi decida di questa legittimità e con quale criterio si decida. Se è la sola ragione a farlo, allora si aprono le porte al razionalismo con quanto ne consegue e la laicità è perduta. Deve essere la fede a farlo, ma non tutte le fedi perché non tutte le fedi sono fedi ragionevoli. Lo farà la fede cattolica, unica capace di valutare questa legittimità, abilitando la ragione stessa a vederla con le proprie forze ma purificate dalla fede. Non la ragione semplicemente, quindi, ma la ragione che opera nella fede, la filosofia cristiana. Non una ragione vagamente "aperta" alla fede o al trascendente, perché sarebbe come sostenere che tutte le religioni possono svolgere questo compito, ma la ragione che procede nell'orizzonte della religione vera come propria esigenza fondativa ed essenziale. Senza queste precisazioni la frase del paragrafo 36 della Gaudium et spes risulta ambigua.  

Quanto abbiamo detto dimostra che non può esistere una laicità vera – sia essa radicale o moderata – se non nell'orizzonte della fede cattolica e rispettando un legame essenziale e non accidentale, quindi anche unico, tra politica e religio vera. Oggi questa affermazione è considerata contraddittoria, dato che fonda la laicità sulla dipendenza della ragione dalla fede, ma ad esserlo è il suo opposto: solo la dipendenza dalla fede vera rende la ragione veramente tale, ossia legittimamente autonoma. Qualsiasi autonomia della ragione politica di altro genere è illegittima, anche se si presenta come tale. Da ciò un'altra conseguenza molto importante: la religione vera deve avere una presenza pubblica conforme a questa sua essenziale funzione, e quindi non solo di animazione delle coscienze come agenzia sociale e culturale, ma come fondamento e garanzia dell'uso legittimo della ragione politica. Questo richiede che la religione vera penetri e informi le strutture sociali dal di sopra e dal di dentro e non solo le coscienze, anche se non potrà farlo senza anche penetrare nelle coscienze. Chiedere che essa animi solo le coscienze ma non le leggi è le strutture non permette una vera e ultimativa legittimazione della politica e risulta anche impraticabile, non si capisce infatti come possano le coscienze cristianamente informate non informare a loro volta le leggi e le strutture.

Abbiamo già osservato che Benedetto XVI non giunge a queste conclusioni, che pure a nostro avviso sarebbero richieste dall'architettura del suo pensiero. Per lui la religione vera deve limitarsi alla formazione delle coscienze, dato che la religione non può essere imposta, ma liberamente. accolta. Per fare un esempio, non ci dovrebbe essere una scuola pubblica statale cattolica, ma la scuola cattolica dovrebbe vivere liberamente accanto a scuole di altro genere, laiche o confessionali delle varie religioni che siano. Però questo comporterebbe l'abbandono della ragione a se stessa nelle scuole non cattoliche, a mano di rimangiarsi il principio che la ragione ha bisogno della religione vera per essere vera ragione. L'autorità politica dovrebbe quindi abbandonare le scuole (non cattoliche) ad una ragione diminuita o deviata? Se si pensa che la scuola debba attestarsi solo sulla coltivazione della ragione, escludendo la fede, si cade nel razionalismo, che anche Benedetto XVI condanna, come abbiamo più volte visto. È evidente che la problematica richiede di mettere a fuoco il tema della libertà di religione e di coscienza, che affronteremo nel prossimo capitolo.

Anche il tema del bene comune, con la necessaria connessione con il fondamento dell'autorità politica, si presta ad una valutazione del rapporto tra politica e religio vera . Il principio della centralità di Dio, così ampiamente sostenuto da Benedetto XVI, comporta necessariamente la verticalità del bene comune , nel quale non può mancare certamente Dio e, quindi la religione vera e la Chiesa cattolica. Così era la concezione del bene comune in Leone XIII, secondo il quale esso coincideva con la società cristiana. Ma nella definizione di bene comune contenuta nel paragrafo 74 della Gaudium et spes del Vaticano II il riferimento diretto a Dio non è più presente. Come non è presente nel paragrafo n. 7 della Caritas in veritate. Come ho scritto in altre occasioni, ciò non significa che, integrando quelle definizioni con altri passi dei testi interessati, non si possa ricomporre il quadro del bene comune, sta di fatto però che la secolarizzazione del concetto è evidente. Tale secolarizzazione riguarda non solo l'esplicito riferimento a Dio della religione cattolica come fondamento del bene comune, ma anche al significato naturale e finalistico dello stesso perché, come si è più volte ripetuto, senza il fondamento trascendente nel Dio vero, anche il fondamento naturale finisce per evaporare. Nel frattempo è venuta anche meno la chiara affermazione che l'autorità viene da Dio. Negli insegnamenti di Benedetto XVI il concetto è affermato solo indirettamente. Per il discorso fatto sopra a proposito della laicità, la non menzione di Dio nella definizione di bene comune e di autorità non comporta solo di scendere ad una laicità moderata, ma apre la porta ad una laicità radicale.

Benedetto XVI dice bene che Dio è fondamentale per la vita politica e per il bene comune e che la Chiesa deve far valere tutto ciò anche in pubblico svolgendo così anch'essa un ruolo pubblico. Però non arriva a chiedere che il sistema politico e l'autorità politica facciano propri questi criteri, perché secondo lui in questo caso si creerebbe un sistema politico confessionale lesivo della libertà di coscienza. Bloccando questo secondo passaggio, non si finisce per svuotare anche il primo? Benedetto XVI ripetutamente afferma che «La testimonianza della Chiesa è per sua natura pubblica: essa cerca di convincere proponendo argomenti razionali nella pubblica piazza».  Il ruolo pubblico della Chiesa viene qui inteso come equivalente alla sua presenza in pubblico. Si noti però la differenza di contenuto tra le due espressioni. Per ruolo pubblico si intende non la semplice presenza in uno spazio pubblico, non un diritto di parola e di espressione alla pari di tanti altri soggetti pubblici, non un semplice «diritto di cittadinanza»  della Chiesa come tanti altri soggetti, ma si vuol significare un ruolo di fondamento e legittimazione ultima della vita pubblica in Dio. La riduzione del ruolo pubblico della Chiesa alla richiesta della sua libertà di parola in pubblico è conforme all'idea di una laicità moderata, né confessionale né giacobina. Anche in questo caso però si nota una eterogenesi dei fini. Nelle società occidentali, ove la Chiesa non lotta più per il proprio ruolo pubblico ma semmai solo per la presenza in pubblico delle religioni (di tutte le religioni), essa sta perdendo sempre di più anche la libertà di essere presente in pubblico. Anche questo era stato ben visto da BXVI, quando prevedeva la dittatura del relativismo: «Il concetto di discriminazione viene sempre più allargato, e così il divieto di discriminazione può trasformarsi sempre di più in una limitazione della libertà di opinione e della libertà religiosa. Ben presto non si potrà più affermare che l'omosessualità, come insegna la Chiesa cattolica, costituisce un obiettivo disordine nello strutturarsi dell'esistenza umana».  

Chiedendo per sé non un ruolo pubblico ma una presenza in pubblico, la Chiesa non può rifarsi ad una sua naturale e originaria sovranità, ma dovrà fondare le proprie pretese sul principio della libertà di coscienza e di religione, quindi dovrà chiedere tale presenza pubblica per tutte le religioni. Non potrà fare riferimento ad un diritto a base ontologica propria, un diritto connaturato con la propria essenza e con l'essenza del mondo, ma espressione personalistica di un diritto umano come base della medesima libertà per tutte le religioni. Ecco un passo significativo: «Quando le Chiese o le comunità ecclesiali intervengono nel dibattito pubblico, esprimendo riserve o richiamando certi principi, ciò non costituisce una forma di intolleranza o un'interferenza perché tali interventi sono volti solamente a illuminare le coscienze, permettendo loro di agire liberamente e responsabilmente.»  In questo modo, però, si rischia di assumere il principio di Habermas dell'etica pubblica fondata sul dibattito pubblico e di limitarsi a chiedere un posto nel grande talk-show, non solo per sé ma anche per le altre religioni, ed infatti il testo ora visto parla di Chiese al plurale. Viene contestata l'esclusione di Dio, ma non per rivendicare un ruolo pubblico della religione cattolica bensì per pretendere un posto in pubblico per tutte le religioni: «Non si può escludere Dio dall'orizzonte dell'uomo e della storia! Ecco perché va accolto il desiderio comune a tutte le tradizioni autenticamente religiose di mostrare pubblicamente la propria identità, senza essere costretti a nasconderla o mimetizzarla».  Abbiamo già ricordato nei capitoli precedenti che molto spesso Benedetto XVI esprime questo diritto di Dio ad un posto nella pubblica piazza con espressioni che si riferiscono alle tradizioni religione in generale e non specificamente alla religione cattolica. La cosa è comprensibile tenendo conto di quanto si è appena detto, ossia che la presenza di Dio nel mondo viene fondata non sui diritti di Dio ma sui diritti umani, in particolare sul diritto alla libertà di religione, e quindi deve valere per tutte le religioni. Ci si può chiedere: per tutte le religioni? Con quale criterio stabilire quali sì e quali no? Quali sono le "tradizioni autenticamente religiose"? Ci si può anche chiedere: i diritti umani fanno parte della legge morale naturale, la quale non si mantiene senza la religio vera, come è possibile allora che quest'ultima, da cui essi dipendono, ne dipenda a sua volta per fondare la propria presenza pubblica? Il fondamento non può fondarsi sul fondato, il principio sul principiato.

La ricostruzione del pensiero di Benedetto XVI condotta da Massimo Borghesi e da noi già ricordata afferma che egli ha proposto di intendere il martirio dei primi cristiani sotto le persecuzioni romane come la rivendicazione della libertà religiosa e, quindi, come il rifiuto assoluto di un potere politico a sfondo confessionale. In questo modo, secondo Borghesi, Benedetto XVI avrebbe contestato tutto il periodo cosiddetto costantiniano che va dal 313 d.C., o meglio dal 380 con l'Editto di Tessalonica di Teodosio, fino alla Dignitatis humanae del Vaticano II. La forzatura del discorso è evidente, però alcuni passi di Benedetto XVI offrono il destro ad una simile forzatura, come nel caso del già ricordato discorso alla curia romana del dicembre 2005. Se si può sostenere che il rifiuto dei cristiani di sacrificare all'imperatore sia l'inizio del principio della libertà religiosa, si può anche sostenere al contrario che esso sia stata la richiesta implicita di un impero cristiano, che liberasse definitivamente dall'obbligo di sacrificare non solo all'imperatore ma anche ad altri dei.

Collegato con il discorso che stiamo facendo c'è il problema della presenza pubblica dei cattolici. Anche a questo proposito si ripropongono le difficoltà già viste. Il personalismo cristiano di Maritain et alii sosteneva, in quanto forma di naturalismo, che l'agire politico dei credenti dovesse avvenire in modo laico, non come cristiani ma da cristiani, e dovesse avere come bussola il concetto di persona e l'ideale storico concreto di un personalismo comunitario animato dal cristianesimo, ma ormai considerato un fatto laico sul quale possono convergere tutte le altre religioni e famiglie spirituali. In questo modo si proponeva la laicità come autonomia ma la si realizzava come separazione. Nascevano così le varie forme, più o meno radicali, di impegno cattolico nella società incapaci di una "risposta a sfida", come diceva del Noce, nei confronti della modernità. Sia nella forma del cattolicesimo liberale sia in quella del cattolicesimo democratico, i cattolici si impegnarono nella società secondo una linea modernista .

Si deve dire che Benedetto XVI ha contrastato questa posizione, soprattutto ribadendo la necessità di una coerenza del cristiano tra fede e impegno politico incentrata sul primato di Dio. Nella "Nota Ratzinger" del 2002 il primato non viene assegnato alla coscienza, come nel personalismo, perché l'insegnamento sociale della Chiesa pone necessariamente «un dovere morale di coerenza per i fedeli laici» dato che «tutti i vari campi della vita laicale rientrano nel disegno di Dio».  Però nello stesso tempo si parla di un dovere "morale" sostanziato nel rispetto dei principi non negoziabili senza «cedere a compromesso alcuno»  vale a dire rispettando il diritto naturale che è laico, pur se «alcune di queste verità sono anche insegnate dalla Chiesa».  Si tratta allora ancora di una coerenza personale, vissuta in coscienza, che non tiene conto che come il dovere morale della persona non si sostiene da solo avendo bisogno della vita di fede e sacramentale, così il diritto naturale non viene difeso adeguatamente senza che la religione cattolica non lo confermi pubblicamente attraverso una presenza pubblica che non operi solo nelle coscienze ma anche nelle leggi e nelle istituzioni. Torna quindi in Benedetto XVI l'insufficienza di pensare che la laicità consista nella "autonomia della sfera civile e politica da quella religiosa ed ecclesiastica – ma non da quella morale". La morale non riesce sufficientemente ad evitare il laicismo e la diaspora cattolica se rivendica un'autonomia oltre che dal piano ecclesiastico anche da quello religioso. Per comprendere il problema è sufficiente paragonare tra loro alcune affermazioni del Concilio. La costituzione pastorale Gaudium et spes dice che i fedeli laici hanno il compito di animare cristianamente l'ordine temporale, rispettandone la natura e la legittima autonomia.  La costituzione Lumen gentium dice qualcosa di più: «Per la loro propria vocazione è dei laici cercare il regno di Dio trattando e ordinando secondo Dio le cose temporali».  Animare cristianamente e ordinare a Dio sono cose molto diverse. La prima espressione riduce i fedeli laici ad un gruppo di animatori culturali e sociali, la seconda li converte in costruttori di un ordine pubblico con al centro Dio. Il decreto conciliare sull'Apostolato dei laici talora li considera animatori, ma talaltra li chiama «ad informare di spirito cristiano la mdi coscienza e di religione. Con ciò siamo entrati nell'argomento del prossimo capitolo. 

ente e i costumi, le leggi e le strutture della comunità in cui uno vive».  Anche qui c'è molto più di un impegno di animazione. Se animare cristianamente significa informare le leggi e le strutture, ne nasce una società cristiana, la quale però sarebbe ritenuta irrispettosa della libertà di coscienza e di religione. Con ciò siamo entrati nell'argomento del prossimo capitolo.

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