Un anno di guerra 'urge ripensare la pace, senza schematismi'
La guerra è una cosa complessa, chi la semplifica non fa gli interessi della pace. Vale anche per la guerra in Ucraina a un anno esatto dal suo inizio: l'aggressione c'è stata, ma la situazione sembra tendente al peggio. Prevale l'idea sbagliata che l'unico modo di aiutare l'Ucraina sia fornirle armi sempre più potenti, ossia scendere in campo nel conflitto e quindi allargarlo. Urge una nuova opinione pubblica europea per la pace.
Stefano Fontana in "La Nuova Bussola" – 23 febbraio 2023
A un anno dall'invasione russa in Ucraina e dunque dallo scoppio di una nuova guerra nel cuore dell'Europa (l'anniversario ricorre domani), è bene concentrarsi su una riflessione imprescindibile: la guerra si fa con le armi, ma si fa anche con la regia delle informazioni, la propaganda, la creazione di una opinione pubblica favorevole.
Dietro e dentro una guerra operano molti interessi particolari, alcuni di essi sono noti mentre altri non si vedono perché rimangono sotto traccia. La guerra è fatta dagli eserciti in campo ma anche dai servizi segreti nell'ombra. Durante una guerra molti avvenimenti hanno cause segrete, i loro veri autori non verranno mai nominati dalle agenzie e le descrizioni dei giornali non accedono al backstage ma si fermano al proscenio. Le guerre hanno cause prossime ma anche cause remote. Spesso sono conseguenza di una lunga storia di errori, ingiustizie e violenze di varia responsabilità e i cui fili sono difficili da riannodare. La guerra è sempre anche un fenomeno globale, coinvolge tutte le dimensioni della vita civile dei popoli coinvolti direttamente o indirettamente.
In sintesi: la guerra è una cosa molto complessa. Chi la semplifica non fa gli interessi della pace. Affrontare la guerra come cosa complessa, senza paraocchi ideologici o di interessi di qualche genere che si sovrappongano ai fatti, può permettere di trovare qualche spiraglio per avviare un timido e fragile processo di raffreddamento della situazione se non proprio di pace, dato che anche la pace è una cosa complessa.
Semplificare in modo rigido e schematico tra il bene e il male dà sempre l'impressione di una impostazione di parte. È proprio delle parti in causa, infatti, presentare il quadro come uno scontro tra la giustizia e l'ingiustizia, ma raramente è così nella realtà delle cose. Ciò non vuol dire non dare un giudizio sulle responsabilità, soprattutto quelle più scatenanti, significa piuttosto farlo lasciando parlare anche la storia, depurando il discorso dalle forzature, non tacitando le voci critiche e pensanti con una tesi preconfezionata.
Quanto detto vale anche per la guerra in Ucraina. L'aggressione c'è stata, ma questo non chiude la questione, piuttosto la apre ad una serie di considerazioni che permettano di ampliare lo sguardo alle cause e alle concause. Davanti ad una aggressione i modi di rispondere possono essere tanti sia per l'immediata difesa da parte dell'aggredito sia per l'azione della diplomazia internazionale, sia per l'informazione dell'opinione pubblica. Cancellare i concerti degli artisti russi in Europa significa non distinguere i piani. Mettere le armi in mano ai civili per la difesa della nazione vuol dire assegnare delle responsabilità improprie. Mettere una pietra sopra al problema di una regione ucraina di nazionalità e lingua russa significa non considerare il problema delle minoranze, che è invece una acquisizione del diritto internazionale e delle genti.
Presentare la storia delle culture dividendo la storia europea dalla storia russa e addirittura contrapponendole è un errore di metodo storico prima ancora che politico. Mentre c'è bisogno di categorie che uniscano, si sfornano categorie che contrappongono irrimediabilmente. Pensare che l'unico modo di fronteggiare l'aggressore sia punirlo militarmente dell'aggressione è sbagliato e reca danno all'aggredito stesso che va protetto sì, ma difeso anche per vie non militari e senza tacere eventuali sue responsabilità passate e presenti. La storia ha i suoi diritti dall'una e dall'altra parte.
L'opinione pubblica dei Paesi occidentali non è mai stata messa in grado di conoscere la complessità della situazione e delle possibili vie diplomatiche verso un processo, magari complicato, di pacificazione. Non è mai emersa, per esempio, la possibile soluzione di un Donbass a statuto speciale, soluzione già attuata in altre occasioni, oppure quella di un cessate il fuoco temporaneo.
La narrazione prevalente è stata quella della semplificazione forzata, dell'amplificazione spettacolare di una sola versione, di schematiche contrapposizioni tra occidente e oriente, tra democrazia e autoritarismo, tra cristianesimo occidentale e orientale. Tutte le antinomie che potevano alimentare il fuoco della contrapposizione sono state coniate e diffuse. E questo è evidente nella superficialità delle opinioni espresse dalla gente comune, che conosce solo il bianco e il nero, che non fa sconti a nessuno, che ha rinunciato all'analisi critica.
Le grandi testate giornalistiche non hanno svolto a pieno il loro dovere, che non doveva essere certamente quello di negare delle responsabilità, ma quello di portarne alla luce anche delle altre. Ancora meno lo hanno fatto i servizi della TV di Stato che spesso si sono piegati ad un appiattimento informativo filogovernativo privo di ripensamenti. Si spiega così l'assenza nei Paesi occidentali di una vasta e impegnata opinione pubblica che prema per la pace. Non si sono viste manifestazioni o marce. Non mi riferisco al pacifismo ideologico, generico e adolescenziale, quello delle bandiere arcobaleno sul balcone, ma di un pacifismo adulto serio e documentato, che non cancella le responsabilità ma non si piega alle interpretazioni univoche. Un pacifismo consapevole della complessità della guerra.
Dopo un anno, la situazione sembra bloccata e tendente al peggio. Prevale l'idea sbagliata che l'unico modo di aiutare l'Ucraina sia fornirle armi sempre più potenti, ossia scendere in campo nel conflitto e, quindi allargarlo. Urge una nuova opinione pubblica europea per la pace.
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