Le Radici cristiane dell’Europa e noi

Autore: Paciolla, Sabino
Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
Fonte: CulturaCattolica.it

L’editoriale di TRACCE di giugno e l’articolo dell’amico prof. Costantino Esposito, contenuto nello stesso numero, riprendono il concetto di Europa alla luce anche del discorso di Papa Francesco, che ha tenuto ai primi di maggio scorso, alla ricezione del premio Carlo Magno assegnatogli dalle autorità europee. Questi articoli mi offrono la possibilità di
fare qualche riflessione con tutta l’umiltà ma anche con tutta la sincerità possibile.
E’ certo che l’Europa soffre di una crisi notevole che ha la sua origine sia nella sua modalità costitutiva (è stato prediletto l’aspetto economico-monetario a detrimento di quello politico in generale, e della politica fiscale in particolare) sia nella sua “anima”, ma che oggi è vieppiù provocata dalle ondate migratorie, in verità forse solo all’inizio, che sono portatrici sia di drammi di intere popolazioni, bisognose di tutto, sia di nuova cultura, radicata prevalentemente nella religione islamica. Tutto ciò richiama la prepotente domanda circa la nostra identità, che deve essere continuamente richiamata e riaffermata nella contingenza della vita, negli incontri che siamo destinati ad avere con i “nuovi”.
Ronzano le seguenti domande: l’Europa è destinata a perire sotto le martellate della perenne crisi economica? E’ destinata a sciogliersi sotto i colpi delle migrazioni che chiamano in causa la capacità di accoglienza di ciascuno Stato in solidarietà con tutti gli altri? In verità, alla base della capacità di rispondere a queste sfide vi è la tenuta della nostra “anima” europea. A tal proposito, nella lettura degli articoli, un particolare ha attirato la mia attenzione: la scomparsa della parola “cristiane” dalla frase “radici cristiane dell’Europa”, che viene così sostituita dalla più breve “radici dell’Europa”. Questo delle “radici cristiane” è un tema che si è posto più di una decina di anni fa, ai tempi del loro richiamo nella Costituzione Europea, e che ora torna alla ribalta per altri motivi. Viene poi fortemente sottolineata la necessità di un forte “dialogo” con il “diverso”, come condizione per superare questa crisi. Dunque, l’imputato principale è la parola “crisi”, e crisi della cristianità, una cristianità che ha innervato per secoli la civiltà europea, cioè quella occidentale.

Costantino Esposito, nel suo articolo, dice che in Europa si rileva un venir meno dei valori della tradizione cristiana, che è diventata minoritaria, e ciò “non tanto perché il relativismo e la secolarizzazione abbiano intaccato i suoi antichi fondamenti (questo piuttosto è una conseguenza, non l’origine della crisi dell’Europa) ma perché la grande storia cristiana può continuare solo se succede di nuovo oggi, nel presente”. Questo concetto di Costantino ha certamente del vero, ma sono anche convinto che non è tutto, e per questo è opinabile. Infatti, nella storia della cultura europea, fino ad un certo punto, fede e ragione hanno convissuto in feconda sintonia, in armoniosa distinzione dei ruoli. In seguito, la ragione si è contrapposta alla fede in un potente impeto di presunta e autoreferenziale superiorità nell’indagare la realtà. La ragione ha preteso di decifrare la realtà esclusivamente per mezzo del metodo scientifico, facendo fuori il suo Mistero, e dunque riducendola. Al di fuori di questa visione “scientifica”, secondo questo modo di pensare, vi è solo una volgare superstizione. Ma, a tal proposito, ci aiuta il prologo di Giovanni, nel Vangelo, che ci ricorda: “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta”; oppure, come ci dice il grande drammaturgo T.S. Eliot, nei Cori da “La Rocca”: “Essi (gli uomini) cercano sempre d’evadere/ dal buio esterno e interiore/ sognando sistemi talmente perfetti che più nessuno avrebbe bisogno d’essere buono”. Quindi, è connaturata alla natura dell’uomo questa sua tendenza verso le “tenebre”, che oggi prendono le sembianze di quello che chiamiamo “ideologia”, una tendenza verso il sentirsi e voler essere Dio, come può chiaramente vedersi in questa letale ideologia del gender, oggi così diffusa, in cui l’uomo crede di poter definire, o “creare”, a suo piacimento, la sua natura, come appunto fosse Dio. L’ideologia tende ad eliminare la realtà, il vero, a sovrapporre un suo disegno esplicativo e definitorio, e per questo essa è intrinsecamente violenta. E allora, il relativismo e la secolarizzazione, come forme aggressive ideologiche che vogliono la “morte di Dio”, certo che possono aver intaccato gli antichi fondamenti della tradizione cristiana, anzi, l’hanno combattuta e continuano a combatterla. Il relativismo e la secolarizzazione, dunque, non sono solo una conseguenza della crisi dell’Europa, come afferma Costantino Esposito, poiché l’uomo ama farsi contagiare, anche dal “Male”. E’ sempre T.S. Eliot che dai Cori da “La Rocca” riprende: “Perché gli uomini dovrebbero amare la Chiesa? Perché dovrebbero amare le sue leggi? / Essa ricorda loro la Vita e la Morte, e tutto ciò che vorrebbero scordare./ È gentile dove sarebbero duri, e dura dove essi vorrebbero essere teneri./ Ricorda loro il Male e il Peccato, e altri fatti spiacevoli”.

C’è un passo del discorso di Papa Francesco che ha suscitato una qualche perplessità: “Le radici dei nostri popoli, le radici dell’Europa si andarono consolidando nel corso della sua storia imparando a integrare in sintesi sempre nuove le culture più diverse e senza apparente legame tra loro. L’identità europea è, ed è sempre stata, un’identità dinamica e multiculturale”. Ora, che l’Europa nella sua storia ha coinvolto popoli e culture diverse è indubbio. Ma è altrettanto certo che nell’arco della sua storia ultra millenaria il denominatore comune dell’Europa è stata l’eredità greca-cristiana-latina, dove per latina qui si intende la cultura relativa a popolazioni germaniche, anglosassoni ed in parte slave. L’Europa, infatti, prim’ancora che una entità geografica è innanzitutto una dimensione culturale ben definita, nella quale il cristianesimo ha giocato un ruolo essenziale e fondamentale. Per questo attribuire all’Europa l’aggettivo “multiculturale” appare azzardato. Tanto più se a questo aggettivo oggi gli si attribuisce il significato fallimentare e negativo che richiama il meticciato culturale, l’insieme di culture che, pur convivendo su un territorio, fianco a fianco, rimangono estranee l’una all’altra, fino a creare ghetti, come le Banlieue parigine o quelle di Bruxelles, entro le quali si sono generate le frange estremiste islamiche autrici delle recenti stragi. E’, dunque, da escludere che Papa Francesco abbia inteso il termine “multiculturale” in questo modo.

Proprio Benedetto XVI, nel suo dialogo con Marcello Pera intitolato “Senza radici. Europa, relativismo, cristianesimo, islam” dice: “La multiculturalità, che viene continuamente e con passione incoraggiata e favorita, è talvolta soprattutto abbandono e rinnegamento di ciò che è proprio, fuga dalle cose proprie”. E’ questo annacquamento, questa rinuncia a ciò che ci ha da sempre alimentato, alle nostre radici, anche da parte di noi cristiani, succubi dello spirito dei tempi, che ha fatto invecchiare l’Europa e che la rende così fragile e vulnerabile. 
A tal proposito, una delle pagine più nere della storia europea è quella legata alla seconda guerra mondiale. Una crisi fortissima che certamente ha avuto varie cause riconducibili, tra l’altro, a quelle economiche, a frustrazioni politiche a lungo covate, ecc. D’altra parte, possiamo anche dire che quelle cause hanno avuto un denominatore comune, una base, legata alla ideologia che ha preso il sopravvento sulla fede. La potenza della ideologia prende il sopravvento sull’anima cristiana. E fu così la catastrofe, con milioni di morti. Non è un caso che, da quelle terribili macerie, sarà proprio il ritorno a quell’anima, a quello spirito cristiano incarnato dai padri fondatori dell’Europa, Schuman,De Gasperi e Adenauer, che consentirà all’Europa di riprendersi, rinascere e prosperare. Non dimentichiamo che Schuman e De Gasperi sono già “servi di Dio” e per Adenauer da più parti si levano richieste per l’apertura della causa di beatificazione. Dunque, e venendo ai nostri giorni, anche l’attuale crisi dell’Europa potrebbe essere generata da un nuovo prevalere di uno spirito ideologico, che prende le sembianze del gender e del conformismo del Pensiero Unico, e che sta rapidamente contagiando tutta la popolazione, allontanandola dalle sue origini vere, quelle cristiane. Se la rinascita dell’Europa ha avuto la sua base ideale nel cristianesimo dei Padri Fondatori, un cristianesimo non “spirituale”, ma concreto, declinato necessariamente anche in valori come la dignità della persona, il rispetto della vita, ecc. che hanno trovato posto in leggi fondamentali, perché, oggi, che l’Europa è scristianizzata, ci poniamo proprio noi cristiani il problema di “scrostare” la nostra fede da quei valori che naturalmente da essa derivano? 

Papa Francesco, nel suo discorso in occasione del premio Carlo Magno, ha detto: “Dicevo agli Eurodeputati che da diverse parti cresceva l’impressione generale di un’Europa stanca e invecchiata, non fertile e vitale, dove i grandi ideali che hanno ispirato l’Europa sembrano aver perso forza attrattiva; un’Europa decaduta che sembra abbia perso la sua capacità generatrice e creatrice”. Ha esortato dunque l’Europa a riscoprire un “nuovo umanesimo”, che a suo parere dovrebbe essere fondato su tre capacità: “la capacità di integrare, la capacità di dialogare e la capacità di generare”. Papa Francesco in quel discorso sembra sorvolare sulla genesi di questa “sterilità” europea, ma si concentra sul “come” uscirne, ponendo con insistenza alla sua base il dialogo e l’integrazione. Ora, il dialogo è certamente il “mezzo” attraverso il quale due persone possono conoscersi, ma è altrettanto vero che non è il dialogo in sé e per sé che possa portare ad un nuovo umanesimo, ma quello che si comunica, la coscienza di una esperienza in atto. Infatti, uno può anche dialogare, ma se non ha nulla da comunicare, il dialogo, sarebbe meglio dire “parlare”, si trasforma in “vuoto spinto”. 
In verità, è proprio ora, cioè mentre arrivano nuovi popoli, nuove culture, le quali spingono al confronto non solo dal punto di vista di un dialogo culturale, ma anche da un punto di vista del modo concreto di vivere, che si palesa la necessità di riapprofondire, ritornare al nostro proprium, al nostro essere come è sempre stato, alle nostre radici, che sono oggettivamente plasmate dal cristianesimo. Ma, attenzione, non come mera “tradizione”, o nazionalismo difensivo, ma proprio come origine del nostro essere per una giusta posizione nei confronti del reale. Se il dialogo non avviene fruttuosamente tra due coscienze, esso o non potrà avvenire, o sarà subìto dalla coscienza più debole, o sarà foriero di contrasti sociali. 

La radice della crisi dell’Europa in realtà va ricercata in un male più profondo, che andrebbe indagato prima di trovare il “come” uscirne, e che ha fatto dire a Benedetto XVI queste profetiche parole: “C’è qui un odio di sé dell’Occidente che è strano e che si può considerare solo come qualcosa di patologico; l’Occidente tenta sì, in maniera lodevole, di aprirsi pieno di comprensione a valori esterni, ma non ama più se stesso; della sua storia vede oramai soltanto ciò che è deprecabile e distruttivo, mentre non è più in grado di percepire ciò che è grande e puro. L’Europa ha bisogno di una nuova – certamente critica e umile – accettazione di se stessa, se vuole davvero sopravvivere”.
Per questo, occorre sì andare incontro all’altro, offrire accoglienza, dialogare con chiunque, testimoniando la nostra esperienza di vita cambiata dall’incontro con Cristo, che è la Misericordia, poiché una vita cambiata è certamente contagiosa; ma questo dialogo non può che avvenire a partire da una posizione umana che si misura con il Mistero, con una coscienza critica e sistematica dell’esistenza, coscienza che si fa cultura. Perché, come ci ha ammoniti san Giovanni Paolo II: “Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta”. Lo stesso Papa Francesco ci sta educando ad avere uno “sguardo di misericordia” come condizione per “penetrare” la realtà nella sua profonda essenza, prim’ancora di dotarci di una adeguata analisi interpretativa della vita. Ma, allo stesso tempo, dobbiamo tener conto di quanto ci dice il salmo 84: “misericordia e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno”.

Dialogare è giusto, ma il dialogo, per essere fecondo, richiede un prerequisito che è la coscienza di sé, una coscienza che, certamente, si approfondisce sempre più, ma che non è “tabula rasa”. Un dialogo che voglia attuarsi nell’oblio della coscienza di ciò che si è, di ciò che è la nostra sorgente, si rivelerà velleitario. E ciò, tanto più oggi, poiché la cultura europea, quella occidentale, è caratterizzata dalla tirannia dell’indifferentismo, del relativismo, dell’abolizione di ogni certezza, che tende a spegnere la persona come essere autonomo pensante per soggiogarlo e affogarlo nel conformismo del Pensiero Unico. Per questo motivo, e perché il dialogo sia vero, occorre ritornare e recuperare le tre colonne portanti delle “radici cristiane”, radici che hanno plasmato la tradizione e la cultura europea: 
a) RAGIONE: la tensione a voler comprendere la realtà, la tensione al vero, che era tipica del pensiero greco, e che rende rispettosi dell’altro poiché considerato fratello nella comune ricerca del vero; 
b) FEDE: la dimensione profetica della fede in Gesù Cristo che ci dice che la verità che noi cerchiamo ci è stata rivelata, ci precede, è la Sua Persona, e questo ci dà una fiduciosa certezza nella nostra continua e necessaria ricerca del Vero; 
c) REALTA’: la dimensione dello stare alla concretezza, dello spirito romano, oggi tanto mancante (vedi il gender). Il Pensiero Unico, per affermarsi, DEVE distruggere la tradizione cristiana; noi, per contrastarlo, e per far sì che il dialogo tanto bramato sia fecondo, dobbiamo recuperare questa tradizione che trova la sua fonte nella fede definita nelle sue dimensioni fondamentali di cultura, carità e missione. 

Per noi cristiani, poi, è bene fare una precisazione. Parliamo, infatti, e giustamente, sempre di dialogo, ma noi cristiani non dobbiamo mai dimenticare che ci è stato dato un compito che è quello della missione, che è qualcosa di più e ben diverso dal semplice dialogo. Una missione che non abbia, ovviamente, alcuno spirito di conquista (vedi a tal proposito il passaggio su questo tema, che ha suscitato perplessità, dell’intervista di Papa Francesco concessa a La Croix).
E’ chiaro che le “radici cristiane” non sono qualcosa da esigere o imporre agli altri, ma, al contrario, sono la “caratteristica”, sono quell’habitus della nostra coscienza, quel tesoro che noi dobbiamo recuperare, e che ci permette di metterci in rapporto con l’altro in maniera adeguata, in un vero dialogo. Le “radici cristiane” non sono assolutamente un richiamo nostalgico, ma innanzitutto una presa di coscienza da parte nostra della vera posizione umana di fronte alla realtà, che ci permette di affrontare l’attuale cultura razionalistica e radicalmente anti-umana, che porta in sé i germi della distruzione della società, come possiamo ben vedere dagli esiti inumani che questa cultura genera, come la legalizzazione dell’aborto, la pratica dell’utero in affitto, la tecno-scienza manipolatrice della vita, la distruzione del concetto antropologico di famiglia. Quando viene spezzato il legame tra fede e ragione, l’unico esito è il totalitarismo. Dobbiamo riaffermare e testimoniare il dialogo fruttuoso tra fede e ragione, come è ben sintetizzato dall’apostolo Pietro quando ci dice: «Siate pronti in ogni momento a dare ragione della speranza che è in voi», o dall’allora card. Ratzinger quando, nel 2005, terminò la conferenza a Subiaco con queste parole: “Abbiamo bisogno di uomini che tengano lo sguardo dritto verso Dio, imparando da lì la vera umanità. Abbiamo bisogno di uomini il cui intelletto sia illuminato dalla luce di Dio e a cui Dio apra il cuore, in modo che il loro intelletto possa parlare all’intelletto degli altri, ed il loro cuore possa aprire il cuore degli altri”.

Non possiamo dunque essere noi cristiani i primi, per esigenze “tecniche” legate al dialogo, a spossessarci di tutto quanto è derivato da una sincera fede in Gesù Cristo. Se noi cristiani siamo i primi a censurarci, a spogliarci di quei valori che ci costituiscono, o a nasconderli per paura che essi costituiscano un impedimento al dialogo; se noi cristiani siamo i primi a rifiutare di “andare in piazza” (Family Day) per difendere democraticamente valori umani fondamentali, a tutela dei più deboli, dicendo di quell’immenso raduno, come ha scritto un sacerdote, che “in quella piazza abbiamo perso tutti”... viene da chiedersi: ma, allora, di quale amore, necessario per incontrare l’altro, parliamo? È forse un amore disincarnato? Un amore etereo, visto che opportunisticamente non dovrà essere “declinato” per evitare di minare i “ponti” che si vogliono costruire? E’ bene chiarire che lo “sguardo di misericordia” non riduce la realtà, non riduce il peccato, abbraccia sì la mia umanità ferita, ma in tutta la sua verità. Altrimenti si corre il rischio che questo “sguardo di misericordia” sia ridotto ad una nostra astrazione, ad un afflato sentimentale. Non possiamo ripetere, proprio noi cristiani, forse anche senza volerlo, l’errore già avvenuto nei secoli scorsi di scindere il legame tra fede-ragione-realtà, che è, per altro, proprio quello che oggi vuole il potere quando impone, ad esempio, l’ideologia del gender.

Si dirà, come ha fatto anche Renato Farina in un suo articolo per Il Giornale dell’anno scorso, che i tempi sono cambiati, che bisogna guardare la realtà con “acuto realismo”, che i tempi di una vigorosa presenza nell’arena pubblica sono finiti, che noi cristiani siamo oramai una minoranza, che i tempi di una Chiesa, o un movimento, impegnati, con la testa all’indietro, verso epiche battaglie in piazza, pronti a denunciare relativismo culturale e laicismo, appartengono, oramai, ai tempi che furono. Ma questo, mi si consenta, è opinabile. Comprendo che l’Italia, l’Europa, sono scristianizzate, persino a-cristiane, e che bisogna ricominciare come fossimo ai tempi dei romani. Riconosco pure che se il fatto cristiano non riaccade oggi “i valori cristiani perdono il loro smalto, la loro attrattiva”, come scrive Costantino Esposito. Certo è così, concordo. Quello che però non capisco, quello che nella mia testa rimane come un “buco nero” concettuale è questa necessità di usare la logica dell’“aut-aut”, cioè quella logica che ci fa dire che bisogna smetterla di mettere l’accento sulla difesa dei valori, poiché oggi le evidenze sono crollate, e che, invece, bisogna usare uno sguardo misericordioso, e nient’altro. Nient’altro! Mi sembra che si faccia una ingiustizia. Primo, perché non mi sono, non ci siamo immolati sull’altare dei “valori”, ma abbiamo inteso dare testimonianza alla Verità, pur nei limiti della nostra povera carne. Una testimonianza che si è giocata e si gioca con tutta la realtà, nella totalità dei suoi fattori (compresa la dimensione giuridica). Secondo, perché ho, abbiamo sempre creduto che rompere il prezioso e delicato legame tra fede e ragione, privilegiando ora l’una, ora l’altra, sia rischioso e foriero di tenebrose conseguenze. La giusta logica, allora, è quella dell’“et-et”, quella che coniuga, contemporaneamente, lo sguardo misericordioso ed accogliente dell’altro, frutto della vita cambiata da una Presenza che accade, con il giudizio che nasce dalla ragione illuminata dalla fede, cioè dalla stessa Presenza.

Di questi tempi, proprio di questi tempi, mi è di conforto il mea culpa che il 9 maggio scorso, un principe della Chiesa, il card. Angelo Bagnasco, presidente della CEI, ha fatto davanti all’assise dei vescovi italiani: “Quanto silenzio oggi nel mondo, silenzio di noi cristiani, silenzio non di amore, come a volte deve accadere, ma di timidezza, di poco coraggio, silenzio di omertà culturale ed etica” (…) “Quanto silenzio colpevole, quanta omertà culturale, quanta prostrazione al pensiero unico, alla paura di essere derisi e giudicati fuori tempo” (…) “Non possiamo tacere per amore a Gesù e all’umanità, allo smarrimento diffuso, alla confusione di valori e princìpi sull’uomo, sulla vita e sulla morte, sull’anima immortale, sulla famiglia, sulla libertà vera”.

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