La rinuncia alla verità è letale per la fede

di Benedetto XVI, papa emerito
“Vorrei in primo luogo esprimere il mio più cordiale ringraziamento al Rettore Magnifico e alle autorità accademiche della Pontificia Università Urbaniana, agli Ufficiali Maggiori e ai Rappresentanti degli Studenti, per la loro proposta di intitolare al mio nome l’Aula Magna ristrutturata. Vorrei ringraziare in modo del tutto particolare il Gran Cancelliere dell’Università, il Cardinale Fernando Filoni, per avere accolto questa iniziativa. È motivo di
grande gioia per me poter essere così sempre presente al lavoro della Pontificia Università Urbaniana.

Nel corso delle diverse visite che ho potuto fare come Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, sono rimasto sempre colpito dall’atmosfera di universalità che si respira in questa Università, nella quale giovani provenienti praticamente da tutti i Paesi della Terra si preparano per il servizio al Vangelo nel mondo di oggi. Anche oggi, vedo interiormente di fronte a me, in quest’aula, una comunità formata da tanti giovani, che ci fanno percepire in modo vivo la stupenda realtà della Chiesa cattolica.

“Cattolica”: questa definizione della Chiesa, che appartiene alla professione di fede sin dai tempi più antichi, porta in sé qualcosa della Pentecoste. Ci ricorda che la Chiesa di Gesù Cristo non ha mai riguardato un solo popolo o una sola cultura, ma che sin dall’inizio era destinata all’umanità. Le ultime parole che Gesù disse ai suoi discepoli furono: “Fate miei discepoli tutti i popoli” (Mt 28, 19). E al momento della Pentecoste gli Apostoli parlarono in tutte le lingue, potendo così manifestare, per la forza dello Spirito Santo, tutta l’ampiezza della loro fede.

Da allora la Chiesa è realmente cresciuta in tutti i Continenti. La vostra presenza, care studentesse e cari studenti, rispecchia il volto universale della Chiesa. Il profeta Zaccaria aveva annunciato un regno messianico che sarebbe andato da mare a mare e sarebbe stato un regno di pace (Zc 9, 9s.). E infatti, dovunque viene celebrata l’Eucaristia e gli uomini, a partire dal Signore, diventano tra loro un solo corpo, è presente qualcosa di quella pace che Gesù Cristo aveva promesso di dare ai suoi discepoli. Voi, cari amici, siate cooperatori di questa pace che, in un mondo dilaniato e violento, diventa sempre più urgente edificare e custodire. Per questo è così importante il lavoro della vostra Università, nella quale volete imparare a conoscere più da vicino Gesù Cristo per poter diventare suoi testimoni.

Il Signore Risorto incaricò i suoi Apostoli, e tramite loro i discepoli di tutti i tempi, di portare la sua parola sino ai confini della terra e di fare suoi discepoli gli uomini. Il Concilio Vaticano II, riprendendo, nel decreto “Ad gentes”, una tradizione costante, ha messo in luce le profonde ragioni di questo compito missionario e lo ha così assegnato con forza rinnovata alla Chiesa di oggi.

Ma vale davvero ancora? si chiedono in molti, oggi, dentro e fuori la Chiesa. Davvero la missione è ancora attuale? Non sarebbe più appropriato incontrarsi nel dialogo tra le religioni e servire insieme la causa della pace nel mondo? La contro-domanda è: il dialogo può sostituire la missione? Oggi in molti, in effetti, sono dell’idea che le religioni dovrebbero rispettarsi a vicenda e, nel dialogo tra loro, divenire una comune forza di pace. In questo modo di pensare, il più delle volte si dà per presupposto che le diverse religioni siano varianti di un’unica e medesima realtà; che “religione” sia il genere comune, che assume forme differenti a secondo delle differenti culture, ma esprime comunque una medesima realtà. La questione della verità, quella che in origine mosse i cristiani più di tutto il resto, qui viene messa tra parentesi. Si presuppone che l’autentica verità su Dio, in ultima analisi, sia irraggiungibile e che tutt’al più si possa rendere presente ciò che è ineffabile solo con una varietà di simboli. Questa rinuncia alla verità sembra realistica e utile alla pace fra le religioni nel mondo. 

E tuttavia essa è letale per la fede. Infatti, la fede perde il suo carattere vincolante e la sua serietà, se tutto si riduce a simboli in fondo interscambiabili, capaci di rimandare solo da lontano all’inaccessibile mistero del divino.

Cari amici, vedete che la questione della missione ci pone non solo di fronte alle domande fondamentali della fede ma anche di fronte a quella di cosa sia l’uomo. Nell’ambito di un breve indirizzo di saluto, evidentemente non posso tentare di analizzare in modo esaustivo questa problematica che oggi riguarda profondamente tutti noi. Vorrei, comunque, almeno accennare alla direzione che dovrebbe imboccare il nostro pensiero. Lo faccio muovendo da due diversi punti di partenza.

I

1. L’opinione comune è che le religioni stiano per così dire una accanto all’altra, come i Continenti e i singoli Paesi sulla carta geografica. Tuttavia questo non è esatto. Le religioni sono in movimento a livello storico, così come sono in movimento i popoli e le culture. Esistono religioni in attesa. Le religioni tribali sono di questo tipo: hanno il loro momento storico e tuttavia sono in attesa di un incontro più grande che le porti alla pienezza. 

Noi, come cristiani, siamo convinti che, nel silenzio, esse attendano l’incontro con Gesù Cristo, la luce che viene da lui, che sola può condurle completamente alla loro verità. E Cristo attende loro. L’incontro con lui non è l’irruzione di un estraneo che distrugge la loro propria cultura e la loro propria storia. È, invece, l’ingresso in qualcosa di più grande, verso cui esse sono in cammino. Perciò quest’incontro è sempre, a un tempo, purificazione e maturazione. Peraltro, l’incontro è sempre reciproco. Cristo attende la loro storia, la loro saggezza, la loro visione delle cose.

Oggi vediamo sempre più nitidamente anche un altro aspetto: mentre nei Paesi della sua grande storia il cristianesimo per tanti versi è divenuto stanco e alcuni rami del grande albero cresciuto dal granello di senape del Vangelo sono divenuti secchi e cadono a terra, dall’incontro con Cristo delle religioni in attesa scaturisce nuova vita. Dove prima c’era solo stanchezza, si manifestano e portano gioia nuove dimensioni della fede.

2. La religione in sé non è un fenomeno unitario. In essa vanno sempre distinte più dimensioni. Da un lato c’è la grandezza del protendersi, al di là del mondo, verso l’eterno Dio. Ma, dall’altro, si trovano in essa elementi scaturiti dalla storia degli uomini e dalla loro pratica della religione. In cui possono rivenirsi senz’altro cose belle e nobili, ma anche basse e distruttive, laddove l’egoismo dell’uomo si è impossessato della religione e, invece che in un’apertura, l’ha trasformata in una chiusura nel proprio spazio. 

Per questo, la religione non è mai semplicemente un fenomeno solo positivo o solo negativo: in essa l’uno e l’altro aspetto sono mescolati. Ai suoi inizi, la missione cristiana percepì in modo molto forte soprattutto gli elementi negativi delle religioni pagane nelle quali s’imbatté. Per questa ragione, l’annuncio cristiano fu in un primo momento estremamente critico della religione. Solo superando le loro tradizioni che in parte considerava pure demoniache, la fede poté sviluppare la sua forza rinnovatrice. Sulla base di elementi di questo genere, il teologo evangelico Karl Barth mise in contrapposizione religione e fede, giudicando la prima in modo assolutamente negativo quale comportamento arbitrario dell’uomo che tenta, a partire da se stesso, di afferrare Dio. Dietrich Bonhoeffer ha ripreso questa impostazione pronunciandosi a favore di un cristianesimo “senza religione”. Si tratta senza dubbio di una visione unilaterale che non può essere accettata. E tuttavia è corretto affermare che ogni religione, per rimanere nel giusto, al tempo stesso deve anche essere sempre critica della religione. Chiaramente questo vale, sin dalle sue origini e in base alla sua natura, per la fede cristiana, che, da un lato, guarda con grande rispetto alla profonda attesa e alla profonda ricchezza delle religioni, ma, dall’altro, vede in modo critico anche ciò che è negativo. Va da sé che la fede cristiana deve sempre di nuovo sviluppare tale forza critica anche rispetto alla propria storia religiosa. 

Per noi cristiani Gesù Cristo è il Logos di Dio, la luce che ci aiuta a distinguere tra la natura della religione e la sua distorsione.

3. Nel nostro tempo diviene sempre più forte la voce di coloro che vogliono convincerci che la religione come tale è superata. Solo la ragione critica dovrebbe orientare l’agire dell’uomo. Dietro simili concezioni sta la convinzione che con il pensiero positivistico la ragione in tutta la sua purezza abbia definitivamente acquisito il dominio. In realtà, anche questo modo di pensare e di vivere è storicamente condizionato e legato a determinate culture storiche. Considerarlo come il solo valido sminuirebbe l’uomo, sottraendogli dimensioni essenziali della sua esistenza. L’uomo diventa più piccolo, non più grande, quando non c’è più spazio per un ethos che, in base alla sua autentica natura, rinvia oltre il pragmatismo, quando non c’è più spazio per lo sguardo rivolto a Dio. Il luogo proprio della ragione positivista è nei grandi campi d’azione della tecnica e dell’economia, e tuttavia essa non esaurisce tutto l’umano. Così, spetta a noi che crediamo spalancare sempre di nuovo le porte che, oltre la mera tecnica e il puro pragmatismo, conducono a tutta la grandezza della nostra esistenza, all’incontro con il Dio vivente.

II

1. Queste riflessioni, forse un po’ difficili, dovrebbero mostrare che anche oggi, in un mondo profondamente mutato, rimane ragionevole il compito di comunicare agli altri il Vangelo di Gesù Cristo. 

E tuttavia c’è anche un secondo modo, più semplice, per giustificare oggi questo compito. La gioia esige di essere comunicata. L’amore esige di essere comunicato. La verità esige di essere comunicata. Chi ha ricevuto una grande gioia, non può tenerla semplicemente per sé, deve trasmetterla. Lo stesso vale per il dono dell’amore, per il dono del riconoscimento della verità che si manifesta. 

Quando Andrea incontrò Cristo, non poté far altro che dire a suo fratello: “Abbiamo trovato il Messia” (Gv 1, 41). E Filippo, al quale era stato donato lo stesso incontro, non poté far altro che dire a Natanaele che aveva trovato colui del quale avevano scritto Mosè e i profeti (Gv 1, 45). Annunciamo Gesù Cristo non per procurare alla nostra comunità quanti più membri possibile; e tanto meno per il potere. Parliamo di Lui perché sentiamo di dover trasmettere quella gioia che ci è stata donata. 

Saremo annunciatori credibili di Gesù Cristo quando l’avremo veramente incontrato nel profondo della nostra esistenza, quando, tramite l’incontro con Lui, ci sarà stata donata la grande esperienza della verità, dell’amore e della gioia.

2. Fa parte della natura della religione la profonda tensione fra l’offerta mistica a Dio, in cui ci si consegna totalmente a lui, e la responsabilità per il prossimo e per il mondo da lui creato. Marta e Maria sono sempre inscindibili, anche se, di volta in volta, l’accento può cadere sull’una o sull’altra. Il punto d’incontro tra i due poli è l’amore nel quale tocchiamo al contempo Dio e le sue creature. “Abbiamo conosciuto e creduto l’amore” (1 Gv 4, 16): questa frase esprime l’autentica natura del cristianesimo. L’amore, che si realizza e si rispecchia in modo multiforme nei santi di tutti i tempi, è l’autentica prova della verità del cristianesimo.
(Benedetto XVI papa emerito , 21 ottobre 2014)

“Cattolica”: questa definizione della Chiesa,  che appartiene alla professione di fede sin dai tempi più antichi, porta in sé qualcosa della Pentecoste. Ci ricorda che la Chiesa di Gesù Cristo non ha mai riguardato un solo popolo o una sola cultura, ma che sin dall’inizio era destinata all’umanità. Le ultime parole che Gesù disse ai suoi discepoli furono: “Fate miei discepoli tutti i popoli” (Mt 28,19). E al momento della Pentecoste gli Apostoli parlarono in tutte le lingue, potendo così manifestare, per la forza dello Spirito Santo, tutta l’ampiezza della loro fede”.
Questo testo, essendo del papa emerito, non è magistero ma suo lavoro di teologo. E Benedetto XVI nella prefazione del Gesù di Nazareth distingue il suo magistero di papa da quello di teologo. Tuttavia c’è una profonda corrispondenza e unità sostanziale.
Egli ha insegnato prima teologia fondamentale e poi teologia dogmatica, con un approccio ai problemi dove la penetrazione teoretica e filosofica si colloca dentro a una prospettiva anzitutto storica e concreta.
Dal suo libro autobiografico La mia vita (pp. 92-93) emerge che la sua formazione è essenzialmente biblica, patristica e liturgica e alla luce di essa egli affronta le problematiche attuali. E riguardo al tema sulla “Verità salvifica di Gesù Cristo alla ragione del nostro tempo” egli parte dalla convinzione che “al termine del secondo millennio, il cristianesimo si trova, proprio nel luogo della sua originaria diffusione, in Europa, in una crisi profonda, basata sulla crisi della sua pretesa di verità”. Questa crisi ha una duplice dimensione:
- La sfiducia riguardo alla possibilità, per l’uomo, di conoscere la verità su Dio e sulle cose divine,
- E i dubbi che le scienze moderne, naturali e storiche, hanno sollevato riguardi ai contenuti e alle origini del cristianesimo.
Diversamente da altre parti del mondo, dove la Nuova evangelizzazione è soprattutto basata sull’essenziale, in Europa e nella cultura occidentale la gravità e il carattere radicale di una simile crisi, la priorità essenziale perenne occorre comprenderla alla luce di quella che è la natura propria del cristianesimo.
E’ certamente vero che esso non è anzitutto una filosofia e nemmeno “una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva”, ma è altrettanto vero che l’opzione per il logos, e non per il mito, ha caratterizzato fin dall’inizio lo stesso cristianesimo.
J. Ratzinger ha argomentato ampiamente questa affermazione, anzitutto sul piano storico,  a partire dalla sua prima prolusione accademica, nel 1959 all’Università di Bonn, intitolato “Il Dio della fede e il Dio dei filosofi”, e poi da papa all’Università di Regensburg.
In concreto, già ben prima della nascita di Gesù Cristo la critica dei miti religiosi compiuta dalla filosofia greca – critica che può definirsi come l’illuminismo filosofico dell’antichità – ha trovato un corrispettivo nella critica agli dei falsi condotta dai profeti di Israele (in particolare il Deutero – Isaia) in nome del monoteismo javistico, e poi l’incontro tra fede giudaica e filosofia greca dell’Antico Testamento dei “Settanta”, che “è più di una semplice traduzione” e rappresenta “uno specifico importante passo della storia della Rivelazione”.
Pertanto l’affermazione “In principio era il Logos”, con cui inizia il prologo del Vangelo di Giovanni, costituisce “la parola conclusiva sul concetto biblico di Dio, la parola in cui tutte le vie spesso faticose e tortuose della fede biblica raggiungono la loro meta, trovano la loro sintesi” (Regensburg).
Nella stessa linea si è mossa la patristica, come emerge dalla frase audace e incisiva di Tertulliano “Cristo ha affermato di essere la verità, non la consuetudine” (Introduzione al Cristianesimo, p. 102) e dalla netta scelta di S. Agostino che, rifacendosi alle tre forme di religione individuate dall’autore pagano Terenzio Marrone, colloca risolutamente il cristianesimo nell’ambito della “teologia fisica”, cioè della razionalità filosofica, e non in quello della “teologia mitica” dei poeti, o della “teologia civile” degli stati e dei politici.
Il cristianesimo si qualifica pertanto come “religione vera”, a differenza dalle religioni pagane, ormai prive di verità agli occhi della stessa razionalità precristiana, e realizza rispetto ad esse una grande opera di “demitizzazione”.
Un cammino del genere era già iniziato nel giudaismo, ma rimaneva la difficoltà del legame speciale tra l’unico Dio creatore universale e il solo popolo giudaico, legame superato dal cristianesimo, nel quale l’unico Dio che liberamente, per amore ha creato, come Dio che possiede un volto umano, che ci ha amato sino alla fine, l’umanità e ogni singolo uomo, Crocefisso risorto si annuncia a tutti i popoli senza discriminazioni.
In questo senso, l’incontro tra il messaggio biblico e il pensiero filosofico greco non è stato un caso cioè senza ragione, ma la concretizzazione storica del rapporto tra rivelazione e razionalità che ha dato vita, con una fede pienamente accolta, pensata, alla cultura cristiana, all’umanesimo, all’Europa, all’Occidente.  E proprio questo è anche uno die motivi fondamentali della forza di penetrazione del cristianesimo nel mondo ellenistico – romano. E questo, anche in vista del prossimo Convegno ecclesiale nazionale sull’umanesimo a Firenze nel 2015, una memoria da rivivere. Ci ha preparati Benedetto XVI, papa, nel Convegno Ecclesiale Nazionale di Verona il 19 ottobre 2006. La fecondità del cammino cui guida la Chiesa verso la verità o realtà in tutti gli ambiti tra finito e infinito o senso religioso, verso il bene, Dio e in questo orizzonte, in questo cammino apre verso il Dio che possiede un volto umano con tutto quello che fede-ragione ha prodotto nei secoli in Europa e nel mondo. Ha affermato Benedetto XVI, quindi magistero: “La fecondità di questo incontro si manifesta, in maniera peculiare e creativa, anche nell’attuale contesto umano e culturale, anzitutto in rapporto alla ragione che ha dato vita alle scienze moderne e alle relative tecnologie. Una caratteristica fondamentale di queste ultime è infatti l’impiego sistematico degli strumenti della matematica per poter operare con la natura e mettere al nostro servizio le sue immense energie. La matematica come tale è una creazione della nostra intelligenza: la corrispondenza tra le sue strutture e le strutture reali dell’universo – che è il presupposto di tutti i moderni sviluppi scientifici e tecnologici, già espressamente formulato da Galileo Galilei con la celebra affermazione che il libro della natura è scritto in linguaggio matematico – suscita la nostra ammirazione e pone una grande domanda. Implica infatti che l’universo stesso sia strutturato in maniera intelligente, in modo che esista una corrispondenza profonda tra la nostra ragione soggettiva e la ragione oggettivata nella natura. Diventa allora inevitabile chiedersi se non debba esservi un’unica intelligenza originaria, che sia la comune fonte dell’una e dell’altra. Così proprio la riflessione sullo sviluppo delle scienze ci riporta verso il Logos creatore. Viene capovolta la tendenza a dare il primato all’irrazionale, al caso e alla necessità, a ricondurre ad esso anche la nostra intelligenza e la nostra libertà. Su queste basi diventa anche di nuovo possibile allargare gli spazi della nostra razionalità, riaprirla alle grandi questioni del vero e del bene, coniugare tra loro la teologia, la filosofia e le scienze, nel pieno rispetto dei loro metodi propri e della loro reciproca autonomia, ma anche nella consapevolezza dell’intrinseca unità che le tiene insieme. E’ questo un compito che sta davanti a noi, un’avventura affascinante nella quale merita spendersi, per dare nuovo slancio alla cultura del nostro tempo e per restituire in essa alla fede cristiana piena cittadinanza”. Quanto questo è urgente nella Nuova evangelizzazione per i mezzi di comunicazione e per la scuola.
E’ logico che nella pastorale di una situazione dove è in crisi la stessa fede, essenziale, prioritario è l’annuncio essenziale, gioioso del Vangelo, come ci richiama Papa Francesco. Ma poi i fedeli si trovano davanti ai mezzi di comunicazione, i ragazzi nella scuola e nell’università. Ratzinger nel discorso del 1959 su “Il Dio della fede e il Dio dei filosofi”, richiamato a Regensburg,  ha sottolineato che il Dio della fede non è una qualsiasi idea filosofica di Dio, un qualsiasi dio, ma quel Dio che possiede un volto umano, rivelando chi è Dio e chi è ogni uomo, quale il suo rapporto un Dio che ci ha amati sino alla fine: ogni singolo e l’umanità nel suo insieme. Il suo regno non è un al di là immaginario, posto in un futuro che arriva mai, il suo regno è presente là dove Egli è amato e dove il suo amore ci raggiunge. Solo il suo amore ci dà la possibilità di perseverare con ogni sobrietà giorno per giorno, senza perdere lo slancio della speranza, in un mondo che, per sua natura, è imperfetto. E il suo amore, allo stesso tempo, è per noi garanzia che esiste ciò che solo vagamente intuiamo e, tuttavia, nell’intimo aspettiamo: la vita che è “veramente” vita. J. Ratzinger mette grande impegno nel mostrare l’esame die testi biblici, dal racconto del roveto ardente di Esodo 3 fino al “Io sono” che Gesù applica a se stesso nel Vangelo di Giovanni, l’unico Dio dell’Antico e del Nuovo testamento, l’Essere trascendente che esiste da se stesso e in eterno, fuori del tempo e dello spazio, con l’Essere tutto in atto, fondamento dell’atto d’essere di ogni ente che viene all’esistenza, che accade, ricercato dai filosofi.
Ma egli sottolinea con uguale forza che questo Dio, fuori del tempo e dello spazio, causa e dell’uno e dell’altro, si è auto rivelato, superando radicalmente ciò che i filosofi erano giunti ad argomentare sulla natura di Lui.
In primo luogo, infatti, il carattere tripersonale dell’unico essere divino è nettamente distinto dalla natura, dal mondo che Egli ha liberamente creato nel tempo: così la “fisica” e la “metafisica” giungono a una chiara distinzione l’una dall’altra, senza separazione. Creando gli angeli e l’uomo, intelligenti e volenti cioè liberi, capaci di essere amati e di amare, ha autolimitato la sua onnipotenza per cui si è rivelato come amore. Lui non tratta da onnipotente gli uomini come dei robot, ma attira con il suo amore che arriva fino al perdono, rischiando il no.
E soprattutto questo Dio non è una realtà a noi inaccessibile, che noi come persone non possiamo incontrare, dialogare e a cui sarebbe inutile rivolgersi nella preghiera, come ritenevano i filosofi.
Il Dio biblico ama ogni uomo e per questo entra nella nostra storia con la sua natura che è l’Amore, dà vita ad una autentica storia di amore con Israel, suo popolo, e poi in Cristo, non solo dilata questa storia di amore e di salvezza dell’umanità, ma la conduce all’estremo, al punto di limitare la sua onnipotenza fino a lasciarsi uccidere per amore rivelando l’altezza, la profondità, la lunghezza, la larghezza di questo amore che non guarda quante volte l’uomo cade, ma quante si rialza con il suo perdono dove manifesta la sua onnipotenza; non ci ama quando e perché siamo buoni ma per farci suoi amici e chiama ogni uomo a quell’unione con Lui, crocefisso e risorto, che culmina nella sua presenza eucaristica  e agisce realmente nella storia attraverso i sacramenti e i sacramentali della Chiesa, suo corpo da risorto con cui continua l’incarnazione del Dio con noi.
In questo modo il Dio che è l’Essere, la Verità, e è anche identicamente l’Agape, l’Amore.
Più precisamente, questo amore è del tutto disinteressato, libero e gratuito. Dio infatti crea liberamente l’universo dal nulla (solo con la libertà della creazione diventa piena e definitiva la distinzione tra Dio e il mondo, tra la fisica e la metafisica, distinte ma inseparabili nel rapporto tra finito e infinito o senso religioso) e liberamente, per la sua misericordia senza limiti, attrae, salva l’umanità peccatrice.
Così la fede biblica riconcilia tra loro quelle due dimensioni storiche del senso religioso o rapporto tra finito e infinito che prima erano separate, cioè il Dio eterno di cui parlavano i filosofi, e il bisogno di salvezza, di liberazione che ogni uomo porta dentro di sé e che le religioni pagane tentavano in qualche modo di soddisfare.
Il Dio che possiede un volto umano, che ci ha amati sino alla fine, ogni singolo e l’umanità nel suo insieme, il Dio che con l’incarnazione entra nella storia  e nel tempo, è in rapporto con ogni uomo, che egli ama e attira a sé.

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