Preghiera 6

Una tentazione costante nel cammino di fede e quindi di preghiera: eludere il mistero per un dio corrispondente ai propri schemi, ai propri progetti

“Leggendo l’Antico Testamento, una figura risalta tra le altre: quella di Mosé, proprio come uomo di preghiera. Mosé, il grande profeta e condottiero del tempo dell’Esodo, ha svolto la sua funzione di mediatore tra Dio e Israele facendosi portatore, presso il popolo, delle parole e di comandi divini, conducendolo verso la libertà della Terra Promessa, insegnando agli Israeliti a
vivere nell’obbedienza e nella fiducia verso Dio durante la lunga permanenza nel deserto, ma anche, e direi soprattutto, pregando. Egli prega per il Faraone quando Dio, con le piaghe, tentava di convertire il cuore degli Egiziani (Es 8 – 10); chiede al Signore la guarigione della sorella Maria colpita dalla lebbra (Nm 12,9-13), intercede per il popolo che si era ribellato, impaurito dal racconto degli esploratori (Nm 14, 1-19), prega quando il fuoco stava per divorare l’accampamento ( Nm 11,1-2) e quando serpenti velenosi facevano strage (Nm 21,4-9); si rivolge al Signore e reagisce protestando quando il peso della sua missione si era fatto troppo pesante (Nm 11,10-15); vede Dio e parla con Lui “faccia a faccia, come uno parla con il proprio amico” (Ez 24, 9-17; 33,7-23; 34, 1-10.28-35).
Anche quando il popolo, al Sinai, chiede ad Aronne di fare il vitello d’oro, Mosé prega, esplicando in modo emblematico la propria funzione di intercessore. L’episodio è narrato nel capitolo 32 del Libro dell’Esodo ed ha un racconto parallelo in Deuteronomio al capitolo 9. E’ su questo episodio che vorrei soffermarmi nella catechesi di oggi, ed in particolare sulla preghiera di Mosé che troviamo nella narrazione dell’Esodo. Il popolo di Israele si trovava ai piedi del Sinai mentre Mosé, sul monte, attendeva il dono delle tavole della Legge, digiunando per quaranta giorni e quaranta notti (Es 24,18; Dt 9,9). Il numero quaranta ha valore simbolico e significa la totalità dell’esperienza, mentre con il digiuno si indica che la vita viene da Dio, è Lui che la sostiene. L’atto del mangiare, infatti, implica l’assunzione del nutrimento che ci sostiene; perciò digiunare, rinunciando al cibo, acquista, in questo caso, un significato religioso: è un modo per indicare che non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca del Signore (Dt 8,3). Digiunando, Mosé mostra di attendere il dono della Legge divina come fonte della vita: essa svela la volontà di Dio e nutre il cuore dell’uomo, facendolo entrare in un’alleanza con l’Altissimo, che è fonte della vita, è la vita stessa.
Ma mentre il Signore, sul monte, dona a Mosé la Legge, ai piedi del monte il popolo la trasgredisce. Incapaci di resistere all’attesa e all’assenza del mediatore, gli Israeliti chiedono ad Aronne: “Fa’ per noi un dio che cammini alla nostra testa, perché a Mosé, quell’uomo che ci fatto uscire dalla terra d’Egitto, non sappiamo cosa sia accaduto” (Es 32,1). Stanco di un cammino con un Dio invisibile, ora che anche Mosé, il mediatore, è sparito, il popolo chiede una presenza tangibile,toccabile del Signore, e trova nel vitello di metallo fuso fatto da Aronne, un dio reso accessibile, manovrabile, alla portata dell’uomo. E’ questa una tentazione costante nel cammino di fede: eludere il mistero divino costruendo un dio comprensibile, corrispondente ai propri schemi, ai propri progetti. Quanto avviene al Sinai mostra tutta la stoltezza e l’illusoria vanità di questa pretesa perché, come ironicamente afferma il Salmo 106, “scambiarono la loro gloria con la figura di un toro che mangia erba” (Sal 106.30). Perciò il Signore reagisce e ordina a Mosé di scendere dal monte rivelandogli quanto il popolo stava facendo e terminando con queste parole: “Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li divori. Di te invece farò una garnde nazione” (Es 32,10). Come con Abramo a proposito di Sodoma e Gomorra, anche ora Dio svela a Mosé che cosa intende fare, quasi non volesse agire senza il suo consenso (Am 3,7). Dice: lascia che si accenda la mia ira”. In realtà, questo “lascia che si accenda la mia ira” è detto proprio perché Mosè intervenga e gli chieda di non farlo, rivelando così che il desiderio di Dio è sempre di salvezza. Come per le due città dei tempi di Abramo, la punizione e la distruzione, in cui si esprime l’ira di Dio come rifiuto del male, indicano la gravità del peccato commesso; allo stesso tempo, la richiesta dell’intercessore intende manifestare la volontà di perdono del Signore. Questa è la salvezza di Dio, che implica misericordia, ma insieme anche denuncia della verità del peccato, del male che esiste, così che il peccatore, riconosciuto e rifiutato il proprio male, possa lasciarsi perdonare da Dio. La preghiera di intercessione rende così operante, dentro la realtà corrotta dell’uomo peccatore, la misericordia divina, che trova voce nella supplica dell’orante e si fa presente attraverso di lui dove c’è bisogno di salvezza” (Benedetto XVI, Udienza Generale, 1 giugno 2011).

Il Dio che possiede un volto umano e che ci ha amato sino alla fine, ciascuno di noi individualmente e come umanità,  è il nuovo Mosé, il grande intercessore nella preghiera del Getzemani. Egli ha voluto esperimentare l’angoscia primordiale della creatura di fronte alla vicinanza della morte e soprattutto lo sconvolgimento di Colui che è la vita stessa davanti al’abisso di tutto il potere della distruzione, del male, di ciò che si oppone a Dio, e che ora accetta liberamente cioè per amore che gli crolli direttamente addosso, che Egli in modo immediato deve ora prendere su di sé, anzi deve accogliere dentro di sé fino al punto di essere personalmente “fatto peccato” (“ Cor 5,21).
Proprio perché è il Figlio, Egli vede con estrema chiarezza l’intera marea sporca del male, tutto il potere della menzogna, dell’idolatria e della superbia, tutta l’astuzia e l’atrocità del male, che si mette la maschera della vita e serve continuamente la distruzione dell’essere, la deturpazione e l’annientamento della vita. Proprio perché è il Figlio del Padre, Egli sente profondamente l’orrore, la sporcizia e la perfidia che deve bere in quel “calice” a Lui destinato: tutto il potere del peccato e della morte. Tutto questo Egli deve accogliere dentro di sé, affinché in Lui il male-Maligno sia privato di potere e superato dal perdono, dalla possibilità di salvezza per ogni uomo.

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