Humanae vitae

“Dell’Humanae vitae ringrazierete Dio e me”

(Paolo VI, 28 giugno 1978)

martedì 11 novembre 2008;
Autore: Oliosi, Don Gino; Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele; Fonte: CulturaCattolica.it

«Non abbiamo fatto altro che raccogliere questa consegna, quando dieci anni fa, promanammo l’Enciclica ‘Humanae vitae’ (25 luglio 1968): ispirato all’intangibile insegnamento biblico ed evangelico, che convalida le norme della legge naturale e i dettami insopprimibili della coscienza sul rispetto della vita, la cu i  t rasmissione è  a f f i data   a l l a   paternità   e   maternità r e sponsabili, quel documento è d i v entato oggi d i nuova e p i ù urgente at tualità per i vulnera i n f e r t i da pubbliche l e g i s l azioni a l l a santità i ndissolubile de l v i ncolo matrimoniale e a l l a i ntangibilità de l l a v i t a umana f i n dal s eno materno » [Paolo VI, Omelia f i dem s e rvavi, 28 giugno 1978].

A quarant’anni di distanza abbiamo tante argomentazioni per ringraziare Dio e  il magistero della Chiesa: Paolo VI, di fronte alla sfida e al rischio di esporre all’arbitrio degli uomini l’ethos della sessualità disgiungendo l’aspetto unitivo da quello procreativo e la missione santificante di generare, come dono, la vita ha riconosciuto i limiti invalicabili alla possibilità di dominio
dell’uomo sul proprio corpo e sulle sue funzioni; Giovanni Paolo II, in sintonia con il Sinodo dei Vescovi sulla Famiglia del 1980 e illuminando il fondamento antropologico e morale mediante la legge della gradualità e non la gradualità della legge, ha offerto linee pedagogico-pastorali veramente adeguate; Benedetto XVI, con il profondo magistero sull’agape e sul suo rapporto con l’eros, ha sollecitato ad evitare il pericolo mortale dell’uomo suscettibile di essere trattato come ogni altro animale soprattutto a livello di sessualità, allargando gli spazi della ragione, riaprendola alle grandi questioni del vero e del bene, sia per comprendere il messaggio della Chiesa sull’ethos della sessualità, sia per il coraggio di dire che la tecnica non può sostituire la maturazione  della  libertà  quando  è  in    gioco
l’amore. Anzi neppure la ragione basta: bisogna che sia il cuore a vedere poiché l’amore sponsale cristiano si conosce solo con il cuore. Solo gli occhi del cuore riescono a cogliere le esigenze proprie di un grande amore, capace di abbracciare la totalità dell’essere umano.
Certo all’uscita dell’Humanae vitae le difficoltà immediate che gli sposi hanno incontrato nel loro cammino morale sono state grandi. In particolare ci sono da tenere presenti “i casi difficili” della vita familiare, in cui rispettare la legge sembra disumano e al di là delle reali possibilità dei coniugi, e l’attuale promiscuità del contatto fisico per i giovani.
Per chi, nel 1968, aveva già presa una decisione non conforme alla dottrina della Chiesa era difficile tornare indietro. Si sono presentati casi in cui sembrava che la fedeltà alla morale comportasse il sacrificio di altri valori morali importanti, casi in cui marito e moglie non erano d’accordo sulla valutazione etica: che cosa fare? Si è teorizzato il riconoscimento della “verità fondamentale”, ma non basta. Occorreva trovare strade di soluzione e di crescita, adeguate al cammino dei coniugi e strade possibili a tutti, ai giovani in particolare.
Di fatto, il Magistero ecclesiastico, anche di fronte alla svolta epocale relativista dell’ethos sessuale con le potenzialità della tecno-scienza – per cui il mondo e con esso molti cattolici  hanno trovato difficoltà non solo a praticarlo ma addirittura a comprenderlo – è stato capace di conservare, sul fondamento biblico, una continuità solida e tuttavia protesa ad una conoscenza sempre più profonda, documentando anche culturalmente la preminente e decisiva azione guida dello Spirito Santo. Per cui non è condivisibile il giudizio del cardinale Carlo Maria Martini in Conversazioni notturne a Gerusalemme: “Saper ammettere i propri errori e la limitatezza delle proprie vedute di ieri è segno di grandezza d’animo e di sicurezza”. Ma non  cogliere questa preminente e decisiva azione    di


guida dello Spirito Santo è grave per tutti, tanto più per un cardinale! Profeticamente Paolo VI il 4 maggio del 1970, proprio nel culmine della bufera, invitato a cena da una coppia in difficoltà, ha anticipato tutto il cammino successivo della Chiesa: “Il cammino degli sposi, come ogni vita umana, conosce molte tappe, e le fasi difficili e dolorose – voi lo esperimentate nel corso degli anni – vi hanno il loro posto. Ma bisogna dirlo ad alta voce: mai l’angoscia e la paura dovrebbero trovarsi in anime di buona volontà, perché, infine, il vangelo non è forse una buona novella anche per i coniugi, ed un messaggio che, se pur esigente, non è meno profondamente liberatore? Prendere coscienza del fatto che non si è ancora conquistata la propria libertà interiore, che si è ancora sottoposti all’impulso delle proprie tendenze, scoprirsi quasi incapaci di rispettare, sul momento, la legge morale in un campo così fondamentale, suscita naturalmente una reazione di sconforto. Ma è il momento decisivo in cui il cristiano, nel suo sgomento, invece di abbandonarsi alla rivolta sterile e distruttiva, accede nell’umiltà alla scoperta sconvolgente dell’uomo davanti a Dio, di un peccatore davanti all’amore  di Cristo salvatore. A partire da questa presa di coscienza radicale ha inizio tutto il progresso, la tensione della vita morale, poiché la coppia si trova in tal modo “evangelizzata” nel profondo, gli sposi scoprono “con timore e tremore” (Fil 2,12), ma con una gioia piena di meraviglia, che nel loro matrimonio, come nell’unione di Cristo e della Chiesa, si realizza il mistero pasquale di morte e di risurrezione”. C’è già l’intuizione della legge della gradualità argomentata nel Sinodo dei Vescovi sulla Famiglia del 1980: saper capire con il cuore il meraviglioso disegno che Dio ha scritto nel corpo umano, aiutandoli ad accogliere come tensione, come un tentare e ritentare con fiducia e speranza senza scoraggiarsi mai anche quando immediatamente non si riesce, quanto comporta un autentico cammino di maturazione, sapendo che la riuscita, la coerenza è un miracolo della presenza e del rapporto con Dio, non  opera dell’uomo e quindi va invocata senza sosta nella preghiera. Segno della moralità cristiana allora non è la riuscita, ma l’atteggiamento del cuore che cerca di essere fedele a come è stato fatto all’origine: si chiama povertà di spirito. La moralità in tutti i campi, soprattutto  nell’ethos della sessualità, è una tensione, come quella  diun bambino che impara a camminare e cade dieci volte nei dieci metri che deve percorrere, ma tende a sua madre, si rialza e tende: è la legge della gradualità.

Il Papa Benedetto XVI non ritirerà certo l’enciclica, un importante documento nel quale è affrontato uno degli aspetti essenziali della vocazione matrimoniale e  del cammino di santità che ne consegue

Oggi, con il fondamento di una antropologia adeguata e il magistero sull’agape e sul suo rapporto con l’eros, è possibile capire meglio quanto questa luce profetica sia decisiva per comprendere il grande “sì” all’amore coniugale. “In concreto – ha specificato il magistero di Benedetto XVI al IV Convegno ecclesiale di Verona –, perché l’esperienza della fede e dell’amore cristiano sia accolta e vissuta e si trasmetta da una generazione all’altra, una questione fondamentale e decisiva è quella dell’educazione della persona. Occorre preoccuparsi della formazione della sua intelligenza, senza trascurare quelle della sua libertà e capacità di amare. E per questo è necessario il ricorso anche all’aiuto della Grazia. Solo in questo modo si potrà contrastare efficacemente quel rischio per le sorti della famiglia umana che è costituito dallo squilibrio tra la crescita tanto rapida del nostro potere tecnico e la crescita ben più faticosa delle nostre risorse morali. Un’educazione vera ha bisogno di risvegliare il coraggio delle decisioni definitive, che oggi vengono considerate un vincolo che mortifica la nostra libertà, ma in realtà sono indispensabili per crescere e raggiungere  qualcosa di grande nella vita, in particolare per far maturare l’amore in tutta la sua bellezza: quindi per dare consistenza e significato alla stessa libertà. Da questa sollecitudine per la persona umana e la sua formazione vengono i nostri “no” a forme deboli e deviate di amore e alle contraffazioni della libertà, come anche alla riduzione della ragione soltanto a ciò che è calcolabile e manipolabile. In verità, questi “no” sono piuttosto dei “sì” all’amore autentico, alla realtà dell’uomo come è stato creato da Dio”.


Il capitolo V di Conversazioni notturne a Gerusalemme, Imparare l’amore ci porta in un pianeta totalmente diverso dal magistero, soprattutto criticando il cammino che la Chiesa ha fatto dall’Humanae vitae ad oggi.
“Già nel 1964 – afferma il cardinale Martini – una commissione composta da specialisti dei settori della medicina, della biologia, della sociologia, della psicologia e della teologia presentava a Papa Paolo VI un parere esauriente sui temi che furono in seguito trattati nella Humanae vitae. Tuttavia, con un solitario senso del dovere e mosso da profonda convinzione personale, il papa pubblicò l’enciclica. Sottrasse scientemente l’argomento ai dibattiti dei padri conciliari; in questa materia volle assumere una responsabilità altamente personale. A lunga scadenza, la solitudine (ma quando un Papa esercita il magistero può essere considerato alla luce della fede solo?) di questa decisione non si è dimostrata un presupposto favorevole per trattare il tema della sessualità e famiglia. Papa Giovanni Paolo II, una grande personalità, ha seguito la via di una rigorosa applicazione. Non voleva che su questo punto sorgessero dubbi. Pare che avesse perfino pensato ad una dichiarazione che godesse del privilegio dell’infallibilità papale.
Dopo l’enciclica Humanae vitae, i vescovi austriaci e tedeschi, e molti altri vescovi, hanno seguito, con le loro dichiarazioni di preoccupazione, un orientamento che oggi potremmo portare avanti. Quasi quarant’anni di distanza (un periodo lungo quanto il passaggio  di Israele nel deserto: molte persone si sono allontanate dalla Chiesa e la Chiesa dalle  persone. Ne è derivato un grave danno) potrebbero consentirci una nuova visione”. Dispiace che non ci sia nessun accenno al Sinodo della famiglia del 1980 con la relativa Esortazione post-sinodale Familiaris consortio.
Ma ciò che mi lascia terribilmente addolorato, avendo vissuto il 28 giugno del 1978 in san Pietro la professione di fede del Credo del 1968 e l’omelia testamento Fidem servavi con la  profezia “Dell’Humanae vitae ringrazierete Dio e me”a nemmeno due mesi dalla morte, è ciò che il cardinale Martini narra a p. 92: “Con l’enciclica voleva esprimere considerazione per la vita umana. Ad alcuni amici spiegò il suo intento servendosi di un paragone: anche se non si deve mentire, a volte non è possibile fare altrimenti; forse occorre nascondere la verità, oppure è inevitabile dire una bugia. Spetta ai moralisti spiegare dove comincia il peccato, soprattutto nei casi in cui esiste un dovere più grande della trasmissione della vita”. Questo non può essere Paolo VI e la labilità del riferimento ad alcuni amici rende offensiva la notizia.

Obiezioni all’insegnamento di Humanae v i t ae in nome della coscienza
Mi rifaccio liberamente a quanto il prof. Livio Melina scrive da pagina 161 a pagina 191 in Amore Coniugale e Vocazione alla Santità (Effatà Editrice).
La concezione della coscienza soggettiva come un assoluto che nessuno può giudicare e a cui è completamente affidato il giudizio morale sulle azioni ha avuto una grande ripercussione anche nei dibattiti intorno a Humanae vitae e in particolare intorno alla applicazione pratica della sua affermazione normativa centrale, quella che si trova al n.14:
- “E’ altresì esclusa ogni azione che, o in previsione dell’atto coniugale, o nel suo compimento, o nello sviluppo delle sue conseguenze naturali, si proponga, come scopo o come mezzo, di rendere impossibile la procreazione”.
Alcuni teologi cattolici, infatti, pur non contestando la norma morale in se stessa, hanno proposto una concezione della coscienza nel suo rapporto con la norma che rende praticamente i coniugi liberi di agire contro quanto insegnato dal magistero, almeno in determinati casi. Purtroppo queste proposte teologiche sono molto divulgate, anche perché hanno trovato echi in alcune dichiarazioni ambigue di episcopati dopo l’enciclica di Paolo VI. Nonostante Giovanni Paolo II abbia chiesto di rivedere alcune di queste dichiarazioni (Allocuzione ai Vescovi Austriaci, 9 giugno 1987) e di fatto i vescovi le abbiano poi, almeno in parte, precisate, si continua ad approfittare di esse, come fa il cardinale Martini, per  contrapposi ad Humanae   vitae.
E’ utile analizzare le due principali obiezioni:
1.  La prima è quella che si rifà alla cosiddetta autonomia della coscienza. E’ stata proposta in modo chiaro dal teologo tedesco Franz Bockle e trova eco nelle dichiarazioni dei vescovi tedeschi e belgi, seguite immediatamente ad Humanae vitae. Dice Bockle: “La coscienza esige  dall’uomo un giudizio ben fondato. Perciò la decisione può essere presa solo sulla base di motivi ragionevoli. Le norme  morali insegnate dal Magistero obbligano solo nella misura in cui la coscienza viene convinta dalla ragionevolezza degli argomenti posti a loro sostegno”. Così la coscienza diventa giudice della validità della, norma: sono valide solo le norme che la coscienza ritiene fondate razionalmente. Un cristiano, una coppia potrebbe rifiutare di seguire le norme proposte dal Magistero, senza sentirsi in colpa, quando non ne fosse persuasa. Anzi dovrebbe farlo. Questo esigerebbe l’autonomia morale della coscienza. Va qui subito osservato che il conflitto ipotizzato non è tra coscienza e Magistero, ma tra opinione personale dell’io e insegnamento autentico dei pastori. Si sostiene cioè che il singolo cristiano che con fede appartiene liberamente a un vissuto ecclesiale di comunione autorevolmente guidata perché vi coglie la presenza della Persona di Cristo ha il diritto di avere un’opinione personale diversa dal magistero e il dovere di seguirla. Il Magistero non è più quindi riconosciuto come interprete “autentico” (che parla cioè a nome dell’Autore stesso della Legge, cioè la Presenza del Risorto, per un carisma particolare del dono del Suo Spirito). San Tommaso osserva che chi segue l’insegnamento della Chiesa solo in quanto    coincide    con    le   proprieopinioni pur volendo appartenere liberamente cioè per amore alla  Chiesa, in realtà non segue quell’insegnamento, ma solo  le proprie opinioni e quindi si stacca  dalla comunione per appartenere solo a se stesso. Voler appartenere alla Chiesa e seguire solo le proprie opinioni è contraddittorio.
2.  Una seconda obiezione si presenta con tono meno contestativo. Essa  non nega direttamente il valore della norma insegnata dal Magistero, ma sostiene che nella prassi morale concreta occorre distinguere tra “principi generali” e “norme concrete”. L’Enciclica Humanae vitae, per esempio, darebbe i principi validi in generale, ma poi, nella situazione concreta, le circostanze particolari potrebbero legittimamente condurre la coscienza ad un giudizio diverso e contrario.  I vescovi francesi hanno parlato di “conflitto di valori”, nel quale solo alla coscienza dei coniugi spetterebbe di scegliere il valore concretamente ed esistenzialmente preminente. Un’infelice dichiarazione della Congregazione del Clero del 1971, per risolvere il cosiddetto “caso Washington”, ha affermato, seguendo questa linea, che “le particolari  circostanze che intervengono in un atto  umano oggettivamente cattivo, mentre non possono trasformarlo in oggettivamente virtuoso, possono renderlo incolpevole, meno colpevole o soggettivamente difendibile”. Non fa problema l’affermazione che le circostanze possono rendere un atto  in sé cattivo meno colpevole o non colpevole, quando tali circostanze comportano una diminuzione o, al limite estremo, una scomparsa della responsabilità soggettiva. Quello  che fa realmente problema è l’affermazione che, alla luce delle circostanze, si possa “difendere soggettivamente”   la    scelta   di    un   atto intrinsecamente cattivo dal punto di vista morale. Per capire come questa teoria sulla coscienza in rapporto alla legge non sia sostenibile basta che  proviamo a pensare alla sua applicazione nel caso dell’uccisione di un innocente, del suicidio, dell’eutanasia o dell’aborto: questi sarebbero atti in sé cattivi, ma che potrebbero diventare soggettivamente giustificabili! Va ricordato che di fronte ad abusi di questa dichiarazione, un anno dopo, la stessa Congregazione sentì il dovere di emettere un appunto nel quale precisava di non essere un’istanza dottrinale, ma solo disciplinare, di non aver voluto cambiare la dottrina della Chiesa sulla coscienza e ripeteva la frase incriminata togliendo “soggettivamente            difendibile”. Tuttavia, purtroppo, questa precisazione non viene considerata ed anche in opuscoli ampiamente diffusi nelle parrocchie per la preparazione al matrimonio (ad esempio quello delle Edizioni Dehoniane di Bologna), nonché in numerose conferenze e pubblicazioni, si continua a citare il primo  comunicato                  della Congregazione per il Clero, come interpretazione autorizzata di Humanae vitae, dicendo che esso lascia alla coscienza dei coniugi la libertà di ricorrere alla contraccezione  quando lo ritengano giustificabile per le circostanze concrete della loro situazione. Un chiarimento definitivo su questo punto controverso è quello offerto da Veritatis splendor, la quale  al
n. 8 afferma: “Le circostanze e le  intenzioni non potranno mai trasformare un atto intrinsecamente disonesto per il suo oggetto (come la contraccezione) in un atto soggettivamente onesto o difendibile come scelta”.
Coscienza morale del cristiano  e Magistero circa Humanae v i t ae
C’è una libera obbedienza all’insegnamento del Magistero nella formazione della propria coscienza morale. Per fede io so che Gesù Cristo ha promesso al noi della Chiesa e ha assicurato ai pastori che la guidano, e in particolare a Pietro, il dono dello Spirito del Risorto presente in essa, per interpretare autenticamente la legge divina, quella rivelata e quella naturale (Humanae vitae,  4). E’ di inciampo, cioè di scandalo, il giudizio del cardinale Martini in rapporto a Paolo VI, Giovanni Paolo II, a Benedetto XVI.
Il cristiano che accoglie come Parola del suo Signore, biblicamente fondata, sa che un Altro conosce la verità di lui più di se stesso. Egli sa che Gesù ha affidato al noi della comunione ecclesiale gerarchicamente strutturata e quindi al Magistero l’interpretazione autentica di questa conoscenza. Egli quindi, pur maturando anche nel proprio io le ragioni, si fida di questa promessa, anche quando immediatamente non vede pienamente la persuasività razionale degli argomenti. E non mettendo mai in discussione l’appartenenza al noi concreto di comunione ecclesiale autorevolmente guidata, si ascolta, si fa esperienza di una tensione e di una crescita cercando di capire e quindi si giunge a scoprire che è anche ragionevole fidarsi. Man mano che si capisce, non dipendi più da chi te lo dice; man mano che te lo si dice, chi te lo ha detto è come se diventasse una cosa sola con te stesso: ascolta – segui – capisci autonomamente te stesso.
E’ il principio del “seguire un Altro” che rimanda alla presenza del Risorto nel noi del suo corpo che è la Chiesa per essere veramente se stessi senza brancolare nel buio o vivere da animali. Ora, questo giudizio secondo cui “è giusto seguire un Altro per capire”, un Altro che si è rivelato, che è presente, che ci parla qui e ora e ci conduce attraverso il magistero, non è un giudizio estraneo o contrario alla coscienza del proprio io. E’ invece il primo e fondamentale giudizio della coscienza cristiana tipica del pensare di Cristo in noi: il giudizio della fede, quel giudizio che non è solo informativo ma performativo, cioè che le dà la sua forma propria di coscienza credente. Nella lettera ai


Romani san Paolo equipara, per il cristiano, “l’essere contro la propria coscienza” all’“essere contro la fede”, contro il pensiero di Cristo in noi. Il giudizio della fede, che mi fa seguire sempre il Magistero come interprete autentico della Parola del Signore per indicarmi la direzione, la via della vita da seguire, mi fa capire sempre di più, è un giudizio ragionevole. Esso  ha le sue ragioni proprie e non viola  la coscienza: man mano che capisci sempre di più secondo la legge della gradualità non dipendi più dall’esterno.
Quando, dunque, mi muovo nel nuovo orizzonte che l’incontro con la Persona di Gesù Cristo mi dà e con ciò la direzione decisiva che  la Chiesa mi offre, la coscienza segue un’indicazione del Magistero che essa non riesce immediatamente a capire nelle sue argomentazioni razionali, non va contro se stessa, non è succube di un fare meccanico quello che ti dicono, non nega la sua “autonomia”. Essa infatti segue ed obbedisce a ciò che non comprende sulla base del più fondamentale giudizio di coscienza che è “giusto obbedire”. Al di là dell’inevidenza delle ragioni particolari, c’è l’evidenza della ragionevolezza  del fidarsi con amore e speranza del  noi ecclesiale cioè di Cristo: “So a chi ho prestato fede” (2 Tm 1,12).
Ma quanto insegnato da Humanae vitae al n. 14 ha veramente questo valore vincolante per  la coscienza morale di ogni cristiano? Così Giovanni Paolo II il 5 giugno 1987: “Quanto è insegnato dalla Chiesa sulla contraccezione non appartiene a materia liberamente disputabile fra teologi. Insegnare il contrario equivale a indurre nell’errore la coscienza morale”. E’ grave per il cardinale Martini insinuare il dubbio: “Pare che avesse perfino pensato a una dichiarazione che godesse del privilegio dell’infallibilità papale” e far intravedere il contrario inducendo nell’errore le coscienze.
La coscienza morale è dunque l’istanza ultima e decisiva per la vita morale del cristiano. Essa è il luogo intimo dove Dio all’io originariamente aperto alla globalità dei fattori, cioè alla verità che   libera   dalla   schiavitù   dell’ignoranza,   fa risuonare la sua voce, una voce che chiede di essere sempre seguita. E tuttavia occorre imparare a riconoscere la voce di Dio, occorre imparare a distinguerla dalla voce del proprio interesse egoistico o dalla mentalità corrente e questo è impossibile da soli. La dignità della coscienza dipende dalla apertura originaria  dell’io alla realtà in tutti i fattori cioè alla verità, altrimenti si tratta di autoinganno.
Per questo la coscienza morale ha bisogno di una formazione, che si realizza attraverso la crescita nella virtù e l’apertura a vissuti di comunione ecclesiale autorevolmente  guidata. La Chiesa, come comunione vissuta nella guida del suo Magistero, cioè dei Vescovi in comunione con il Papa, è il luogo della formazione della coscienza morale cristiana. Nella comunione ecclesiale partecipiamo infatti al dono dello Spirito Santo, lo Spirito della verità, la luce dei nostri cuori, del nostro io. Sant’Agostino diceva che abbiamo lo Spirito Santo nella misura del nostro amore alla Chiesa.

La proposta inadeguata di una  “gradualità della legge”

La nozione argomentata di “gradualità” cioè della moralità cristiana come tensione ha fatto la sua comparsa ufficiale nell’insegnamento della Chiesa in occasione del Sinodo dei Vescovi sulla Famiglia del 1980 e in quell’anno nella visita del Papa a Torino. Il cardinale Joseph Ratzinger, che fungeva da Relatore principale, definì quella  della gradualità “un’idea nuova del Sinodo, che è poi diventata una delle prospettive continue, presente in tutti i singoli problemi” poiché è la traduzione della continuità della morale cristiana come tensione. Essa fu ripresa dal Santo Padre, Giovanni Paolo II, nella sua allocuzione finale del 25 ottobre e nell’esortazione apostolica Familiaris consortio (nn. 9 e 34). Il genio educativo di Giussani ha sviluppato la consapevolezza  della morale cristiana come tensione in tutti i modi.
Nell’assumerla il Papa propose, tuttavia, per la prima volta, la distinzione discriminante tra “gradualità della legge”, che deve essere  rifiutata in quanto riduce il valore della legge ad un mero ideale, e “legge della gradualità”, che può essere accolta come espressione della progressività del cammino verso la perfezione: cioè la moralità cristiana come tensione. E’ questa la chiave ermeneutica decisiva del problema. Ma prima di esaminare il significato in positivo della argomentazione del Papa, è utile dare uno sguardo alla situazione pastorale che ha determinato questo approfondimento e ad alcune proposte teologico-pastorali inadeguate, che si pongono nella linea, non ritenuta legittima dal Magistero, della “gradualità della legge”.

Situazioni di difficoltà e amore pastorale

La proposta di rifarsi al principio della gradualità, cioè della morale come tensione  riceve la spinta da una grave difficoltà pastorale che si avverte oggi nel proporre la morale cattolica, così come è insegnata dal Magistero, nella società secolarizzata. Tra insegnamento dottrinale ufficiale e vissuto concreto della morale si è creata una drammatica frattura come tra Vangelo e cultura, al punto che alcuni hanno parlato di un vero e proprio “scisma morale” da parte di molti fedeli: scisma latente, ma non meno reale. La coscienza personale dei  fedeli non accetta più come punti di riferimento normativi vincolanti per un cammino di formazione della coscienza morale gli insegnamenti del Magistero. Essa, in larga misura, si è “autonomizzata” ed impermeabilizzata rispetto alla dottrina ufficiale. Nella frattura tra Vangelo e cultura è conseguente che la dottrina non convinca, che le sue esigenze anziché un dono siano ritenute irragionevoli o esorbitanti, oppure essa è giudicata forse bella e perfetta in sé, ma impossibile da praticare nelle circostanze concrete della vita.
Ciò riguarda soprattutto alcune questioni di morale coniugale e sessuale: l’indissolubilità del sacramento del matrimonio e la disciplina relativa ai divorziati civilmente risposati, la questione dei rapporti prematrimoniali e delle convivenze giovanili segnate dall’incontro fisico, l’omosessualità, la masturbazione,  la contraccezione, ecc. Tacitamente si è giunti a considerare questi problemi in fondo secondari rispetto al centro del messaggio cristiano, imbarazzanti da sollevare nella predicazione pubblica e indiscreti da porre nel segreto  della confessione. Da parte dei pastori grande è la tentazione di lasciare questo livello di problemi della morale sessuale alla coscienza privata dei fedeli, giustificandosi perché nel passato se ne sarebbe parlato troppo, senza pretendere di determinare su di essi l’appartenenza alla Chiesa cattolica. In pratica dalla drammatica frattura tra Vangelo e cultura si passa alla frattura fra fede e morale e una sua soggettivizzazione, almeno per quel che concerne le norme specifiche del comportamento, in ambito sessuale e coniugale. E’ questa la denuncia di tutto il libro del cardinale Martini.
Lo sviluppo della morale come tensione, l’argomentazione della “gradualità” puntano a dare una soluzione pastorale alla frattura. Con l’ipotesi della gradualità si punta a gettare un ponte tra la dottrina e la pratica, rispettando le esigenze sia della norma “oggettiva” che della coscienza e della situazione “soggettiva”. La “gradualità” non è semplicemente una argomentazione a livello pedagogico, ma, in rapporto alla morale cristiana come tensione, un contenuto teologico (se trovati al momento terminale della vita lì a tentare e ritentare Lui porterà a compimento) e morale ( tutti possono tentare e ritentare), che permette di colmare l’abisso e riconciliare la coscienza dei fedeli col Magistero.
La proposta teologica e morale nasce da una questione del tutto attuale e bruciante sul livello pastorale, e correttamente mira ad escludere la falsa soluzione di una separazione o soggettivizzazione completa della morale (sessuale e coniugale) dalla fede e dall’appartenenza ecclesiale. Avverte anche l’insufficienza di una mera riproposizione formale delle norme morali, che non sono più accettate e forse neppure comprese.

L’autentica gradualità pedagogica

Per impostare le linee di una soluzione positiva della gradualità pedagogica in rapporto alla morale come tensione, occorre anzitutto cogliereil significato della “legge della gradualità”, che Giovanni Paolo II dapprima in una omelia al Sinodo dei Vescovi del 1980, ripetuta nella visita pastorale a Torino e poi in Familiaris consortio propone come risposta autentica alla sfida di una inaccettabile “gradualità della legge”.
Nell’omelia del 25 ottobre 1980, che concludeva i lavori del Sinodo, Giovanni Paolo II diede una risposta chiara. Innanzitutto egli, in sintonia con i Padri sinodali, respinse “ogni frattura tra la pedagogia, che propone una certa gradualità nel realizzare il piano divino, e la dottrina proposta dalla Chiesa con tutte le sue conseguenze, nelle quali è racchiuso il comando di vivere secondo  la stessa dottrina. Infatti la legge non può essere intesa come “un puro ideale da raggiungere in futuro”, ma deve essere compresa invece come un “comando di Cristo Signore a superare con impegno le  difficoltà”. Così la pedagogia della gradualità è accettabile solo nella misura in cui non evacua la dottrina e la forza vincolante della legge. In tal caso egli precisa la distinzione tra “gradualità della legge” e “legge della gradualità”: perciò la cosiddetta legge della gradualità o cammino graduale o morale come tensione non può identificarsi con la gradualità  della legge, come se ci fossero vari gradi e varie forme di precetto nella legge divina, per uomini e situazioni diverse.
Come si vede l’accettazione dell’idea di “gradualità” da parte del Papa avviene a livello pedagogico e non a livello di categoria morale: si applica al cammino esistenziale di crescita delle persone, e non al valore vincolante della legge. Il criterio limite che permette di verificare la legittimità del ricorso a questa categoria sembra essere quello della accettazione piena del valore vincolante della legge divina, la quale è un vero comando che obbliga sempre, in qualunque situazione, qualunque persona.
Giovanni Paolo II ritornerà sul concetto di gradualità in due numeri dell’esortazione apostolica post- sinodale Familiaris consortio. Nel numero 9 egli la comprende in relazione alla conversione cristiana, la quale implica due momenti logicamente distinti: il ripudio e il distacco netto dal peccato, il graduale e  dinamico processo di crescita verso il bene,   checonduce sempre oltre “con passi graduali”. Nel numero 34 egli riprende testualmente, a proposito della gradualità, l’omelia già citata, premettendo solo che, per comprendere l’ordine morale, occorre capire che i precetti della legge divina non sono arbitrarie imposizioni mortificanti, per le quali cercare dilazioni o eccezioni, ma verità che esprimono esigenze del bene della persona. Certo la persona è un essere storico, che realizza la verità attraverso libere scelte, in un incessante cammino, secondo tappe di crescita, ma l’autentica pedagogia esige che fin dall’inizio si accetti di puntare a tutto il carattere normativo e vincolante, per ogni tappa della crescita, della legge di Dio. Il precetto permette di riconoscere il peccato e la necessità di staccarsene per una autentica conversione. La pedagogia cristiana autentica è quella che, accogliendo il valore vincolante della legge e riconoscendo il peccato, dà spazio alla possibilità di riconoscerlo, di pentirsi, di lasciarsi  riconciliare e di ricominciare dando spazio interno alla croce e al sacrificio.

La pedagogia di Gesù con i suoi discepoli Illuminante, fondamentale è la pedagogia, l’educazione alla tensione morale di Gesù con i suoi discepoli come emerge dai Vangeli. Egli, piena realizzazione in un volto umano delle dieci parole e delle beatitudini, è la “via” umana che, Risorto, continua nel suo corpo che è la Chiesa, percorrendo la quale, appartenendovi attraverso vissuti fraterni di comunione autorevolmente guidata, ci si mantiene nella “verità”; Egli è il Buon Pastore che conduce, senza costringere, il gregge  e  diventa  modello  di  ogni  iniziativa di amore pastorale autentico.
Il metodo educativo di Gesù alla tensione morale per coloro che hanno cominciato ad ascoltarlo – seguirlo – capirlo, si mostra diametralmente opposto ad una pedagogia razionalistica che pretende di prevedere, programmare tappe diversificate di apprendimento e di crescita, valutate sulle crescenti capacità dei discepoli. I   Vangeli   ci   presentano   un   cammino  di ascolto – sequela – comprensione pieno di cesure e di fallimenti. Sembrano compiacersi di mettere in risalto la crescente incomprensione dei discepoli per le esigenze radicali, senza  alcuna gradualità della legge, che presenta: “Questo linguaggio è duro, chi può intenderlo?” (Gv 6,60). E Gesù, invece di graduare il suo discorso alle capacità di comprensione e alla disponibilità dei seguaci e alle loro effettive possibilità, non fa che approfondire e radicalizzare la sfida: “Questo vi scandalizza? E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima?” (Gv 6,61-62). “Volete andarvene anche voi?” (Gv 6,67).
La tensione per ascoltare – seguire – capire si fa sempre più radicale. Dopo l’episodio del giovane ricco, che ha messo in risalto le esigenze radicali dell’ascoltare – seguire – capire, i discepoli chiedono: “Chi dunque può salvarsi?”. Se molte persone con l’Humanae vitae hanno lasciato la Chiesa e Gesù, di fronte ai discepoli, oggi al cardinal Martini sbigottito, con  Benedetto XVI risponde puntando a saper orientare le coppie a capire con il cuore il meraviglioso disegno che Dio ha scritto nel corpo umano, aiutandole ad accogliere come tensione quanto comporta un autentico cammino di maturazione, sapendo che la riuscita, la coerenza va invocata, può accadere nella preghiera: “Questo è impossibile all’uomo, ma a Dio tutto è possibile” (Mt 19,25). Gesù, oggi Risorto attraverso i Vescovi  in totale comunione con il Papa, nella sua sorprendente pedagogia, sembra voler condurre il discepolo al punto in cui deve riconoscere che, con le proprie forze, egli non può seguire, anzi nemmeno capire. Solo la grazia può farlo, liberando dal peccato, dall’autosufficienza e offrendo all’uomo che tenta e ritenta pregando la possibilità fino al momento terminale  della vita di “rinascere dall’alto” (Gv 3), di tentare e ritentare di seguire – capire – obbedire.
La meravigliosa pedagogia di Gesù non  fa leva solo dunque sulle capacità naturali  di ascolto – sequela – comprensione dell’uomo, sulla maturazione della sua coscienza e della sua volontà. Essa punta alla tensione morale per  unevento qualitativamente nuovo, sorprendente, che l’uomo non può realizzare, ma al quale può tendere e che sarà, attraverso la sua preghiera, opera dello Spirito del Risorto, in quanto partecipazione alla morte e risurrezione di Gesù: una nuova nascita, una nuova natura. Altrimenti la morale dell’ascolto – del seguire – del capire è impossibile. Condizione unica per ricevere questo dono è la povertà di spirito, cioè il confessare la propria incapacità e avere fede in Colui che salva. Solo nella grazia, solo nell’accoglienza umile del dono della presenza del Signore, solo ai poveri in spirito il comandamento di Gesù non appare come una esigenza terrificante che fa morire, ma un dono di vita. Al di fuori di questa logica di  conversione e di rinascita, la legge di Gesù non può che apparire impossibile, insopportabile, disumana per l’uomo. Infatti l’uomo, che porta in sé le conseguenze del peccato, pur riconoscendo la bontà della legge, che gli rivela il meraviglioso disegno che Dio ha scritto nel corpo umano, aiutandolo ad accogliere come tensione morale quanto comporta un autentico cammino di maturazione (ascolto – sequela – comprensione), la avverte non come amica per un’obbedienza libera, ma come un peso che lo schiaccia, perché appunto un’altra legge, quella del peccato, domina nella sua carne (Rm 7,14- 25).

Gesù, l’incontro ecclesiale con Lui risorto, interprete e compimento della legge

C’è un momento preciso del vangelo di Matteo, in cui avviene il confronto più aspro tra la mentalità casistica di gradualità della legge propria dei farisei e la dinamica della conversione propria dell’incontro con Gesù che avvia una tensione morale, la legge della gradualità, sapendo che la riuscita, la coerenza va invocata nella preghiera. Si tratta della questione del divorzio (Mt 19,1-12), significativamente citata anche da Familiaris consortio (n. 13). I farisei si pongono nell’ottica dell’interpretazione casistica della legge mosaica, che tenta di conciliare la lettera del precetto con le effettive capacità di osservarla degli uomini. Gesù   rifiuta di entrare in quest’ottica e sconvolge il quadro stesso del ragionamento farisaico. Egli risale al “principio”, all’essere dono del Donatore divino e quindi alla verità originaria della creazione, all’apertura originaria di ogni io umano alla realtà in tutti i fattori o verità. Nell’origine è data una verità che libera dalla schiavitù dell’ignoranza, che è legge, libera, autonoma obbedienza per ogni io umano: questa è la vocazione di tutti. Gesù è venuto a donare questa luce, questa evidenza originaria, questa verità, a ridare ad ogni uomo la capacità e il coraggio del destino a figlio nel Figlio per cui è stato creato. In questo non possono esserci sconti o gradualità. Se il cardinal Martini ne tenesse conto! E’ il cammino dell’ascolto – della sequela – del capire che è graduale, che è una tensione morale!
La legislazione mosaica rappresenta quindi  per Gesù una tappa provvisoria, concessa  da Dio in relazione alla “durezza del cuore” del popolo (Ger 17 e 31). Ora, di fronte alle  esigenze della legge originaria, ripristinata  in tutta la sua purezza, i discepoli sono giustamente sbigottiti non vedendo possibilità di riuscita, di coerenza: “Ciò è umanamente impossibile!”. Sì, per l’uomo ferito dal peccato è umanamente impossibile vivere all’altezza della verità umana cui chiama il Signore. Gesù lo ammette francamente:  “Questo è impossibile all’uomo. Ma a Dio tutto è possibile” (Mt 19,26). Occorre ascoltare il meraviglioso progetto che Dio ha scritto nel corpo umano, occorre il vissuto fraterno che aiuta ad accogliere, a capire e a tentare come tensione quanto comporta un autentico cammino di maturazione, sapendo che la riuscita, la coerenza va invocata nella preghiera.
Emerge così con chiarezza la duplice competenza di Gesù di fronte alla legge:
·      Egli è il vero interprete, più     grande di
Mosé, perché nel suo volto umano le dieci parole e le beatitudini sono realizzate fino all’iota e così ripristina il meraviglioso disegno che Dio ha scritto nel corpo umano, cioè la verità originaria del “principio”, di quello cui ogni io originariamente aspira. Dal nucleo  complesso  della  legge  antica Gesù evidenzia ciò che costituisce la volontà permanente di Dio (Decalogo completato, per la seconda tavola,  dalle Beatitudini) separandolo dalle caduche tradizioni umane e da condiscendenze col peccato, ormai non più attuali, perché con l’incarnazione il Figlio di Dio si è  unito in qualche modo ad ogni uomo, con il Battesimo si è diventati figli nel Figlio e quindi il dono della grazia è presente. Egli, come Figlio unigenito che conosce e manifesta la volontà del Padre (Gv 1,18), come Primogenito di ogni creatura, nel quale tutto è stato creato (Col 1,15-20), può rivelare finalmente nella sua integrità  il disegno sapiente di Dio e l’altissima vocazione di ogni uomo, senza riduzioni e senza compromessi,  dovuti alla cecità spirituale, alla schiavitù di Satana e al peccato.
·      Ma   Egli,   della   legge   è   anche   e
soprattutto il compimento. Gesù, infatti, è Colui che fa la volontà del Padre, realizzandola fino in fondo nella sua esistenza umana. Egli è il Figlio che vive di ogni parola che esce dalla bocca del Padre. Il suo cuore è quello in cui si realizza la promessa di Ger 31 e di Ez 36: è il cuore in cui è scritta la legge di Dio, in cui l’obbedienza è amicizia, è libertà. Per questo in Lui e con Lui è anche aperta finalmente la possibilità di vivere all’altezza della verità umana, di adempiere alle esigenze della legge, cioè di riuscire, di essere coerenti, ma mediante il dono  di grazia di poter partecipare alla sua morte e risurrezione ed essere così rigenerati nello Spirito.

In tal senso Veritatis splendor ricorda: “L’osservanza della legge di Dio, in determinate situazioni, può essere difficile, difficilissima: non è mai però impossibile” (n. 102).
Solo nel mistero della Redenzione di Cristo stanno le concrete possibilità dell’uomo. Sarebbe un errore gravissimo concludere… che la norma insegnata dalla Chiesa è in se stessa solo un ideale che deve essere adattato, proporzionato, graduato, si dice, alle concrete possibilità dell’uomo… Ma quali sono le concrete possibilità dell’uomo? E di quale uomo si parla? Dell’uomo dominato dalla concupiscenza o dell’uomo redento da Cristo? Perché è di questo che si tratta: della realtà della redenzione di Cristo. Cristo ci ha redenti! Ciò significa: Egli ci ha donato la possibilità di realizzare l’intera verità del nostro essere.

Conversione e crescita nella carità

I pilastri di una proposta pedagogica, educativa cristiana fanno perno, dunque, sulla conversione e sulla crescita nella carità. La pienezza della vita cristiana accade là dove Egli è amato e dove il suo amore ci raggiunge e ci spinge ad amare sempre più gratuitamente i fratelli. Si tratta di una virtù teologale, cioè di  una partecipazione nello Spirito del Risorto alla stessa carità, allo stesso amore di Dio, che è Amore e non costringe mai e attende la libera risposta, cioè una risposta di amore.
C’è un momento di incontro consapevole con la Persona di Gesù Cristo che dà alla vita un nuovo orizzonte, la direzione decisiva ed è quindi un momento di conversione iniziale per un cammino di tensione morale. E’ l’accoglienza della carità, che comporta la liberazione da ogni condizione maligna e che comporta il ripudio radicale del peccato. La vita cristiana inizia per un dono di grazia che provoca alla conversione senza compromessi da tutto ciò che si oppone a Dio. A questo livello non possono esserci gradi: si tratta di una soglia minima di cui non si può far a meno: e qui l’insistenza del cardinale Martini ha tutta la sua urgenza, come sottolinea  a pp. 93-94: “Apriamo il vangelo e ascoltiamo la voce di Gesù che chiama all’abnegazione. Chi si sacrifica avrà la vita. Dov’è che qualcuno sacrifica se stesso per formare altre persone? E’ questo il problema di fondo nei rapporti umani, anche nella sfera della sessualità. Se viene richiesta  una  rinuncia,  essa  può  essere  solo la conseguenza di amore e di abnegazione. Non posso pretendere alcun sacrificio senza mostrare quanto sia allettante il traguardo. Per  l’amore vale la pena affrontare la rinuncia”.  Propriamente parlando non si tratta neppure di una prima tappa, ma della condizione previa del cammino, della tensione morale. Si chiede il riconoscimento onesto e chiaro della verità del proprio e altrui essere dono del Donatore  divino, che gli sposi capiscano con il cuore il meraviglioso disegno che Dio ha scritto nel corpo umano maschile e femminile con la conseguente tensione morale di accoglierlo: chiamare le cose con il loro nome (dire bene al bene e male al male) e pentirsi del peccato, ricominciare, tentare e ritentare, sapendo che la riuscita, la coerenza va invocata nella preghiera.
Vi è poi la crescita nella carità, attraverso il consolidamento e il perfezionamento della propria risposta positiva a Dio. Essa  avviene non per aggiunta di qualcosa che manca, ma per intensificazione, per organico incremento interno di ciò che ci è dato tutto fin dall’inizio.
In questa dinamica della carità, i precetti negativi indicano il livello minimo indispensabile da rispettare, al di sotto del quale si è in contrasto con l’amore di Dio, non più desiderosi della verità e indisponibili ad amare, con il rischio di non avere più niente di rimediabile nel proprio essere per cui la distruzione del bene sarebbe irrevocabile: è questo che si indica con la parola inferno. In tal senso la carità implica necessariamente sempre il rispetto delle esigenze minimali dei precetti di giustizia della legge naturale, cui appartengono a livello sociale i “valori non negoziabili”. Invece i precetti positivi della legge morale e i consigli mostrano rispettivamente le vie di una crescita mai conclusa e i modi di un più facile conseguimento della perfezione nella carità.

Principi essenziali per la soluzione dei “casi difficili”

·      Innanzitutto è importante riconoscere
francamente le difficoltà, così come fa anche  la  Familiaris  consortio  al  n.  33:
quando vengono prese sul serio le circostanze e le difficoltà, uno si sente accolto, compreso nella sua vita e non invece pregiudizialmente giudicato e respinto. Sorge così quella reciproca fiducia e simpatia, che è necessaria per mettersi in dialogo e iniziare insieme un cammino di ascolto, di sequela, di comprensione, di obbedienza.
·      In secondo luogo è importante   avere
il coraggio dell’evidenza della realtà, cioè della verità in tutti i fattori. Il primo passo per un cammino di ascolto, di sequela, di comprensione con il cuore, di obbedienza è identificare la meta a cui si deve arrivare, cioè il meraviglioso disegno che Dio ha scritto nel corpo umano nella reciprocità di maschio – femmina, aiutando ad accogliere come tensione morale, come legge della gradualità quanto comporta un autentico cammino di maturazione, sapendo che la riuscita, la coerenza va invocata nella preghiera. Questo meraviglioso progetto di Dio va riconosciuto non solo come ideale astratto, ma come giudizio vincolante nel concreto di tutti i comportamenti. Quei comportamenti che violano dei precetti morali negativi sono sempre passi nella direzione opposta alla meta, che allontano dal cammino. Ad esempio, per gli sposi che praticano la contraccezione o il coito interrotto, si tratta di ammettere che essi sono sempre una deformazione della verità del loro amore e mai un aiuto e che occorre tentare e ritentare di non ammetterli, anche quando non si riesce, pentendosi, lasciandosi riconciliare e ricominciando il cammino, la tensione morale.
·      In   terzo   luogo    occorre   porre    le
condizioni possibili subito per mettersi nella prospettiva di un autentico   cammino   di  maturazione nella prospettiva della meta.  Non basta infatti volere l’ideale con una scelta fondamentale, occorre anche porre le condizioni per realizzarlo. Non basta l’aspetto soggettivo di una generica buona intenzione, occorrono gesti, magari piccoli, ma continui e progressivi secondo la legge della gradualità nella  direzione giusta. Il  n.
10 di Humanae vitae, dedicato alla “paternità responsabile” segnala le varie dimensioni della crescita da realizzare: autodominio delle pulsioni mediante la virtù della castità coniugale (che non significa solo astensione dagli atti genitali), da stimare come virtù dell’amore vero; dialogo rispettoso e accogliente tra i coniugi nella luce della verità; autoconoscenza, anche mediante una informazione adeguata sui metodi naturali diagnostici della fertilità; ed anche le condizioni spirituali di fiducia nel Signore, mediante la preghiera e il frequente ricorso ai sacramenti, consapevoli che non basta la tensione morale per la riuscita e la  coerenza che va sempre invocata nella preghiera. Come senza radici un albero non porta frutto, così, senza le condizioni umane e soprannaturali di un cammino di conversione e di crescita non si può arrivare alla meta.
·      Teorizzare   il   riconoscimento    della
“verità fondamentale” per  l’ethos  della sessualità è la base ma non basta l’oggettività senza la soggettività. Occorre trovare a livello soggettivo le strade possibili di una continua e liberamente convinta, fiduciosa, amata tensione morale, adeguata al cammino dei coniugi e alla attuale promiscuità tra i giovani nel loro incontro fisico.
·      Positiva,  necessaria  la  denuncia   del
cardinale   Carlo   Maria    Martini   in Conversazioni Notturne a Gerusalemme Su


rischio della fede, sull’insufficienza educativa per la tensione morale del solo richiamo alle norme oggettive per cui molte persone, molti giovani, non comprendendole e non amandole, si sono allontanati dalla Chiesa e la Chiesa sembra lontana da loro con la conseguenza di un grave danno. Non condivisibile la via della gradualità  della legge, già esclusa dal Sinodo sulla Famiglia e dall’esortazione post- sinodale che propone la via della legge della gradualità, della tensione morale.
·      Così    Mons.    Luigi    Giussani,     in

Appartenere a Cristo oggi, presentava la tensione morale il 30 maggio 1992: “Perché la coerenza nell’uomo è un miracolo della presenza di Dio, non opera dell’uomo: “Tua, o Signore, è la grazia”. La coerenza è un miracolo, la moralità è un miracolo. Che presunzione insopportabile altrimenti! Segno della moralità autentica allora non è la riuscita – non c’è nessuna misura nel Regno di Dio –, ma l’atteggiamento del cuore che cerca di essere fedele a come è stato fatto all’origine: si chiama povertà di spirito. La moralità è una tensione, come quella di un bambino che impara a camminare e  cade dieci volte nei dieci metri che deve percorrere, ma tende a sua madre, si rialza e tende (una esemplificazione meravigliosa della legge della gradualità!). E chi può giudicare se nel   mio compagno di cammino umano c’è questa tensione morale? Lo giudico io? “Nessuno giudichi, perché Dio solo giudica” diceva san Paolo “io non giudico nessuno: neanche me stesso”. La moralità è tensione, perciò  il  male non ci fermi. Sì, è vero, possiamo cadere mille volte, ma il male non ci definisce, come invece definisce gli uomini della mentalità mondana, che sono costretti a giustificare quello che non riescono a non fare (gradualità della legge!). Il segno supremo della moralità, perciò, è la misericordia. Solo Dio misura tutti i fattori dell’uomo che agisce: per noi c’è soltanto lo spazio della misericordia. Come l’uomo Gesù che rivolgendosi al Padre disse: “Padre, perdona loro perché non sanno  quello che fanno”: sull’infinitesimo margine della loro ignoranza costruiva, morendo, la loro difesa. Caratteristica della vera moralità è il desiderio della correzione –  correggere vuol dire “reggersi insieme”, camminare insieme –, e il suo sintomo ultimo è l’assenza di scandalo. Un cristiano che vive la compagnia non si scandalizza di nulla, ha dolore: non sente lo scandalo, ma il dolore del male”. Con questa fedeltà al Magistero oggettivo e con questa via da esso indicato e da mons. Giussani esperimentata quante persone si sono avvicinate alla Chiesa e quanto la Chiesa si avvicina a tutti, con un bene grandissimo. Per chi volesse una argomentazione organica sui fondamenti della morale cristiana come tensione  alla luce dell’Humanae vitae di Paolo VI, di Giovanni Paolo II, il Papa della Veritatis splendor, di Benedetto XVI che hanno insegnato l’unità di verità e amore in cui si sviluppa la vita cristiana è provvidenziale di Livio Melina, José Norega, Juan José Perez-Soba Camminare nella luce dell’amore (Cantagalli).

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