Lectio divina ai parroci

Una “lettura orante” di Benedetto XVI cioè una “lectio divina” delle Sacre Scritture ai parroci di Roma

Nel secondo volume “Gesù di Nazareth”, come già nel primo, Benedetto XVI propone una lettura dei Vangeli non solamente storico – critica, né soltanto spirituale, ma storica e teologica insieme: l’unica a suo giudizio capace di far incontrare il Gesù “reale”. “Si tratta di riprendere finalmente – scrive nella prefazione del libro – i principi metodologici per l’esegesi formulati dal Concilio Vaticano II inDei Verbum’ 12. Un compito finora purtroppo quasi per nulla affrontato”.
Questi principi, papa Joseph Ratzinger, li aveva richiamati con forza intervenendo al sinodo dei vescovi del 2008, dedicato proprio alla Parola di Dio contemporanea attraverso le Scritture nella vita e nella missione della Chiesa. E li ha ribaditi nell’esortazione apostolica post sinodale “Verbum Dopmini”.
Benedetto ha talmente a cuore questo tipo di lettura delle Sacre Scritture che lo adotta sempre più di frequente anche negli incontri che ha con i sacerdoti e i seminaristi. Nei giorni scorsi l’ha fatto due volte: il 4 marzo con gli studenti del Pontificio Seminario Romano e il 10 marzo con i preti della diocesi di Roma.

Papa Ratzinger continua la tradizione di riunire attorno a sé i preti di Roma ad ogni inizio di Quaresima. Negli anni passati aveva risposto alle loro domande. Quest’anno invece, ha tenuto loro una “lectio divina”, a commento di 20, 17 – 38 degli Atti degli Apostoli.
Che cosa sia una “lectio divina, Benedetto l’ha rispiegato nella “Verbum Domini”. E’ “una lettura orante” delle Sacre Scritture che si compone  di quattro momenti fondamentali:
-         la “lectio”: che cosa dice il testo biblico in sé, come fu ispirato allora dallo Spirito Santo;
-         lameditatio”: che cosa dice, sempre sotto l’azione dello stesso Spirito, il testo biblico adesso a noi;
-         laoratio”: che cosa diciamo noi a Dio in risposta alla sua Parola;
-         lacontemplatio”: la conversione della mente, del cuore e della vita che Dio chiede a noi per lasciarci assimilare a Cristo.
Agli studenti del Pontificio Seminario Romano, cioè ai futuri sacerdoti della diocesi di Roma, incontrati la sera del 4 marzo, Benedetto XVI ha tenuto una “lectio divina” su un passo del capitolo 4 della lettera di Paolo agli Efesini: la chiamata (in greco, ha detto, ha la stessa radice di “Paraclito”, lo Spirito Santo, l’Amore nelle relazioni trinitarie di Dio), l’umiltà (la stessa parola greca che san Paolo adopera per indicare l’abbassamento del Figlio di Dio fino a farsi uomo, Dio che possiede un volto umano e a morire in croce), la dolcezza (la stessa parola greca che si ritrova nelle Beatitudini).
Ai preti di Roma, invece, papa Ratzinger ha commentato il cosiddetto “testamento pastorale” di san Paolo, il suo commovente discorso d’addio ai cristiani di Efeso e Mileto, riportato negli Atti degli Apostoli al capitolo 20.
La “lectio” è stata tenuta nell’Aula della Benedizione e Benedetto XVI ha parlato per oltre un’ora, a braccio, con davanti semplicemente un foglio con degli appunti. La trascrizione, con i necessari controlli, ha quindi richiesto tempo. E’ un esempio di aderenza sia alla lettera che allo spirito delle Sacre Scritture, sulla scia di Origène, Ambrogio, Agostino, Gregorio, dei Padri della Chiesa e dei grandi teologi medioevali, con un’attenzione viva all’apporto attuale storico – critico, alle sfide del tempo presente e all’incidenza della Parola di Dio sulla nostra vita.
Eccone alcuni passaggio, con lo stile tipico del linguaggio parlato:

“Cari fratelli, (…) abbiamo ascoltato il brano degli Atti degli Apostoli (20,17-38), nel quale san Paolo parla ai presbiteri di Efeso, raccontato volutamente da san Luca come testamento dell’apostolo, come discorso destinato non solo ai presbiteri di Efeso, ma ai presbiteri di ogni tempo. San Paolo parla non solo con coloro che erano presenti in quel luogo, egli parla realmente con noi. Cerchiamo quindi di capire un po’ quanto dice a noi, in quest’ora. (…)
Ho sentito il Signore con tutta umiltà” (v. 19). “Umiltà” è una parola – chiave del Vangelo, di tutto il Nuovo Testamento (…) Nella lettera ai Filippesi, san Paolo ci ricorda che Cristo, il quale era sopra a noi tutti, era realmente divino nella gloria di Dio, si è umiliato, è sceso facendosi uomo, accettando tutta la fragilità dell’essere umano, andando fino all’obbedienza ultima della croce (2,5-8). Umiltà non vuol dire falsa modestia – siamo grati per i doni che il Signore ci ha dato -, ma indica che siamo consapevoli che tutto quanto possiamo fare è dono di Dio, è donato per il Regno di Dio. In questa umiltà, in questo non voler apparire, lavoriamo. Non chiediamo lode, non vogliamo “farci vedere”, non è per noi criterio decisivo pensare a che cosa diranno di noi sui giornali o altrove, ma che cosa dice Dio. Questa è la vera umiltà: non apparire davanti agli uomini, ma stare sotto lo sguardo di Dio e lavorare con umiltà per Dio, e così realmente servire anche l’umanità, e gli uomini.
Non mi sono mai tirato indietro da ciò che poteva essere utile, al fine di predicare a voi e di istruirvi” (v.20). San Paolo ritorna, dopo alcune frasi, di nuovo su questo punto e dice: “Non mi sono sottratto al dovere di annunciarvi tutta la volontà di Dio” (v. 27). Questo è importante: l’apostolo non predica un cristianesimo ‘à la carte’, secondo i propri gusti, non predica un Vangelo secondo le proprie idee teologiche preferite; non si sottrae all’impegno di annunciare la volontà di Dio, anche la volontà scomoda, anche i temi che personalmente non piacciono tanto.
E’ la nostra missione di annunciare tutta la volontà di Dio, nella sua totalità e ultima semplicità (…) E penso che il mondo di oggi sia curioso di conoscere tutto. (…) Questa curiosità dovrebbe essere anche la nostra; (…) di conoscere veramente tutta la volontà di Dio e di conoscere come possiamo e come dobbiamo vivere, qual è la strada della nostra vita. Quindi dovremmo far conoscere e capire – per quanto possiamo – il contenuto delCredo’ della Chiesa, dalla creazione fino al ritorno del Signore, al mondo nuovo. La dottrina, la liturgia, la morale, la preghiera – le quattro parti del Catechismo della Chiesa Cattolica – indicano questa totalità della volontà di Dio.
E anche è importante non perderci nei dettagli, non creare l’idea che il cristianesimo sia un pacchetto immenso di cose da imparare. Ultimamente è semplice: Dio si è mostrato in Cristo. Entrare in questa semplicità – io credo in Dio che si mostra in Cristo e voglio vedere e realizzare la sua volontà –ha dei contenuti e, a seconda delle situazioni, possiamo poi entrare nei dettagli o meno, ma è essenziale che si faccia capire anzitutto la semplicità ultima della fede. Credere in Dio come si è mostrato in Cristo è anche la ricchezza interiore di questa fede, dà le risposte alle nostre domande, anche le risposte che in un primo momento non ci piacciono e che sono tuttavia la strada della vita, la vera strada. Quando entriamo in queste cose anche non così piacevoli per noi, possiamo capire, cominciamo a capire che è realmente la verità. E la verità è bella. La volontà di Dio è buona, è la bontà stessa.
Poi l’apostolo dice: “Ho predicato in pubblico e nelle case, testimoniando ai giudei e greci la conversione a Dio e la fede nel Signore Nostro Gesù” (vv. 20-21). Qui c’è un riassunto dell’essenziale: conversione a Dio, fede in Gesù. Ma rimaniamo un attimo sulla parola ‘conversione’, che è la parola centrale o una delle parole centrali del Nuovo Testamento, (…) in greco ‘matànoia’, cambiamento del pensiero, (…) cioè reale cambiamento della nostra visione della realtà.
Siccome siamo nati nel peccato originale, per noi realtà sono le cose che possimao toccare, sono i soldi, sono la mia posizione, sono le cose di ogni giorno che vediamo nel telegiornale: questa è la realtà. E le cose spirituali appaiono un po’ dietro la realtà “Metanoia”, cambiamento del pensiero, vuol dire invertire questa impressione. Non le cose materiali, non i soldi, non l’edificio, non quanto posso avere è l’essenziale, è la realtà. La realtà delle realtà è Dio. Questa realtà invisibile, apparentemente lontana da noi, è la realtà.
Imparare questo, e così invertire il nostro pensiero, giudicare veramente come il reale che deve orientare tutto è Dio, questa è la parola di Dio. Questo il criterio, Dio, il criterio di tutto quanto faccio. Questo realmente è conversione: se il mio concetto di realtà è cambiato, se il mio pensiero è cambiato. E questo deve penetrare tutte le singole cose della mia vita: nel giudizio di ogni giorno cosa prendere come criterio, che cosa  dice Dio su questo. Questa è la cosa essenziale, non quanto ricavo adesso per me, non il vantaggio o lo svantaggio che avrò, ma la vera realtà, orientarci a questa realtà.
Dobbiamo proprio – mi sembra – nella Quaresima, che è cammino di conversione , esercitare ogni anno di nuovo questa conversione del concetto di realtà, cioè che Dio è la realtà. Cristo è la realtà e il criterio del mio agire e del mio pensare; esercitare questo nuovo orientamento della nostra vita”(Benedetto XVI, Lectio divina ai Parroci di Roma, 4 marzo 20011).

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