I tratti della presenza di Gesù‏

Nei Vangeli canonici troviamo i tratti inconfondibili di quella Presenza che è all’opera tra noi, oggi

Ignacio Carbajosa, Professore ordinario di Sacra Scrittura nella Facoltà di Teologia “San Damaso”, Madrid, Ritrovare la fiducia nei Vangeli, presentazione del libro di Joseph Ratzinger Benedetto XVI Gesù di Nazareth. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione.

Questo testo vuole essere un aiuto alla lettura del libro di J. Ratzinger/Benedetto XVI, Gesù di Nazareth. Innanzitutto per capirne la portata storica. Il libro del Papa rappresenta, infatti, un grande contributo per superare la frattura sapere – credere che da più di due secoli costituisce una delle grandi sfide alla nostra fede. Alla fine del Settecento è comparsa la pretesa illuminista di conoscere veramente il Gesù storico, cioè il “vero” Gesù. Si tratta di una pretesa che
nasceva da un pregiudizio su quello che la Chiesa aveva trasmesso fino a quel momento: il Gesù confessato dalla fede non era oggetto di conoscenza storica. Secondo certi autori, i Vangeli ci avrebbero tramandato un’immagine di Gesù nata dalla fede nella sua divinità e dalla devozione. E questo avrebbe impedito di conoscere il vero Gesù.

Con questo libro il Papa affronta la frattura sapere – credere che si annida nel cuore stesso della fede: la persona di Gesù. Scendendo nell’arena dell’interpretazione dei testi, e in dialogo con i grandi esegeti, mostra la ragionevolezza dell’immagine di Gesù trasmessa dai Vangeli, affermando che la fede, che è all’origine della redazione del Nuovo Testamento, è vera conoscenza di Gesù. Anzi, la fede è il presupposto adeguato per capire quello che troviamo scritto nel testo sacro. Possiamo, così,recuperare la fiducia nei Vangeli canonici; in essi troviamo i tratti inconfondibili di quella Presenza che è all’opera tra noi, oggi.

GESU’ DI NAZARETH,
DALL’INGRESSO IN GERUSALEMME FINO ALLA RISURREZIONE

  1. UNA PARABOLA STORICA

Il libro di cui ci occupiamo si potrebbe presentare, in un certo senso, come un’opera che si colloca alla fine di una lunga e singolare parabola storica. La parabola che va dalla Vita critica di Gesù del protestante Reimarus al Gesù di Nazareth di J. Ratzinger/Benedetto XVI. Una parabola che comprende più di due secoli di ricerca esegetica su Gesù, che è andata di pari passo con la storia delle idee e ha esercitato un’evidente influenza sull’immagine che il popolo cristiano ha dei vangeli.
In effetti, nel 1774 G.L. Lessing pubblica l’opera postuma di H. S. Reimarus, che si può considerare la prima proposta critica di una vita di Gesù. Reimarus era un teista, ossia una persona che crede in Dio ma non nella rivelazione, nei miracoli o in interventi soprannaturali. La sua opera vuole rappresentare un attacco alla storicità dei racconti biblici (sia dell’AT, come il passaggio del Mar Rosso; sia del NT, come i racconti della Risurrezione). Da un punto di vista razionalistico, portava alla luce le contraddizioni e la non plausibilità storica degli stessi. Mirava a distruggere il cristianesimo tradizionale basato sulla rivelazione biblica e sui miracoli, e a sostituirlo con la religione naturale o razionale che professavano gli intellettuali dell’Illuminismo e dell’”età della ragione”.
Reimarus afferma, per esempio, che furono gli stessi discepoli e trafugare il corpo di Gesù. Non volevano rimettersi a lavorare, né essere lo zimbello della gente. Così inventarono una storia. Per corroborare il loro racconto lo infarcirono di citazioni dell’AT e presentarono Gesù come qualcuno che si era autoproclamato Messia sofferente. Per rafforzare queste teorie parlarono della fine imminente e del male che avrebbe colpito quelli che non avessero creduto.
Da allora, e sino alla fine del XIX secolo, proliferarono le Vite di Gesù: Paulus, de Wette, Baur, Strauss, Wrede, ecc., e tutte cominciano, e talvolta si concludono, con la separazione radicale tra il Gesù che è realmente esistito e quello trasmessoci dai vangeli, una creazione della Chiesa. Per quasi un secolo questa ricerca si è sviluppata esclusivamente in ambito protestante. E tuttavia il razionalismo imperante in questi studi finì per risultare seducente anche in campo cattolico. Nel 1863, Renan, che era stato seminarista cattolico, pubblica la sua Vita di Gesù, che in Francia avrà enorme successo. Nella Prefazione a questo’opera afferma: “Giorno e notte, oso dirlo,ho riflettuto a questi problemi, che devono essere discussi senza pregiudizi e con le sole forze della ragione”. Purtroppo questa dichiarazione di intenti partiva da una concezione della ragione profondamente razionalista, figlia della sua epoca. Questo testo sulla questione dei miracoli è un chiaro esempio dei suoi presupposti: “I  miracoli raccontati dai Vangeli non hanno realtà e (…) i vangeli non sono libri scritti con la partecipazione della Divinità. Queste due negazioni non sono per noi il risultato dell’esegesi, ma la precedono. Sono il frutto di un’esperienza che non è stata affatto smentita. I miracoli sono cose che non capitano mai; solo i creduloni li vedono; non si può citare un solo miracolo prodottosi davanti a testimoni in grado di constatarlo; non è stato dimostrato nessun intervento particolare della Divinità, né della creazione di un libro, né in qualsivoglia altro avvenimento. Perciò, se si ammette il soprannaturale, si è fuori della scienza, si ammette una spiegazione di cui fanno a meno l’astronomo, il fisico, il chimico, il geologo, il fisiologo, e di cui anche lo storico deve fare a meno. Respingiamo il soprannaturale per la stessa ragione che ci fa respingere l’idea dell’esistenza dei centauri e degli ippogrifi: e questa ragione è che non li abbiamo mai visti. Non è perché mi è stato anzitutto dimostrato che gli evangelisti non meritano una credibilità assoluta, che io non ammetto l’esistenza dei miracoli. Ma perché essi raccontano dei miracoli, io dico: “I Vangeli sono leggende; possono contenere della storia, ma certo non tutto è storico”.
Il caso Renan non sarà  l’unico episodio polemico in campo cattolico. All’inizio del XX secolo, Alfred Loisy, dapprima paladino cattolico che si opponeva agli attacchi di A. von Harnack contro il fondamento storico del cristianesimo, finì egli stesso per negare la storicità dei racconti della Passione e della Risurrezione, così come l’intenzione di Gesù di fondare la Chiesa.
La conclusione di questa prima fase della ricerca sulla vita di Gesù è costituita dall’opera di Albert Schweitzer, Storia della ricerca sulla vita di Gesù, pubblicata agli albori del XX secolo, che raccoglie quasi un secolo e mezzo di studi. Le sue conclusioni stendono un velo di scetticismo sulla possibilità di conoscere il Gesù storico attraverso la ricerca critica. E allo stesso tempo svela con grande maestria i presupposti che guidavano gli autori delle numerose Vite di Gesù: “L’indagine storica sulla vita di Gesù non è partita dal puro interesse storico, ma ha cercato il Gesù della storia come colui che poteva aiutarla nella lotta di liberazione dal dogma”.
Comparvero tanti modelli di Gesù quanti furono i suoi biografi, i quali non facevano altro che proiettare, sulla vita di Gesù, le loro personali categorie: “Ogni epoca successiva della teologia ha trovato i suoi pensieri su Gesù e non avrebbe potuto farlo rivivere altrimenti. Riflesse in Lui non si videro soltanto le varie epoche, ma accadde anche che gli individui lo ricrearono a misura della propria personalità”.
E’ curioso che lo scetticismo in ambito protestante durante i primi decenni del XX secolo, riguardo alla possibilità di raggiungere il Gesù storico, coincidesse con una proliferazione di Vite di Gesù in ambito cattolico, costruite a partire dalla fiducia nella testimonianza dei vangeli. Lo stesso RatzInger lo ricorda nella premessa al primo volume di Gesù di Nazareth, che vuole essere una premessa all’intera opera: “Al tempo della mia giovinezza – negli anni Trenta e Quaranta – esisteva una serie di opere entusiasmanti su Gesù. Ricordo solo il nome di alcuni autori: Karl Adam, Romano Guardini, Franz Michel Willam, Giovanni Papini, Daniel – Rops. In tutte queste opere l’immagine di Gesù Cristo veniva delineata a partire dai vangeli: come Egli visse sulla terra e come, pur essendo interamente uomo, portò nello stesso tempo agli uomini Dio, con il quale, in quanto Figlio, era una cosa sola. Così attraverso l’uomo Gesù, divenne visibile Dio e a partire da Dio si poté vedere l’immagine dell’autentico uomo” ( vol. I, p.7).
Ma lo scetticismo imperante in campo protestante riguardo alla figura storica di Gesù ben presto penetrò nella Chiesa cattolica. E lo fece attraverso la potente influenza che l’esegeta protestante Rudolf Bultmann esercitò sulla ricerca biblica di ogni tendenza. Bultmann rappresenta il frutto più maturo dello scetticismo posteriore all’opera di Schweitzer, e arriva a legittimare la divisione radicale tra il Gesù storico e il Cristo della fede. Il primo è irraggiungibile, e peraltro non ci interessa. Affermiamo unicamente il secondo, frutto del processo di smitizzazione dei vangeli. Liberando i racconti evangelici degli orpelli mitici, arriviamo al cuore della proposta di fede cristiana. E’ la parola ad avere valore, il primo kerigma della Chiesa. Per trasmettere questa parola si creano i racconti, i fatti. Dar credito alla forma di questi racconti, così come ci sono pervenuti, significherebbe peccare di ingenuità. Proprio per questo Bultmann non crede di fare nessun male col suo radicalismo storico, anzi: “Non mi ha mai preoccupato il mio radicalismo critico (…). Con molta calma ho lasciato che il fuoco bruciasse, perché vedo che quello che si consuma sono soltanto i ritratti infantili della teologia della vita di Gesù” (Bultmann, 1927).
Tuttavia, proprio alcuni discepoli di Bultmann si preoccuparono non poco per il radicalismo del maestro e, soprattutto, per l’assenza di un fondamento storico su cui basare la fede in Gesù. Nasce così la New Quest, o seconda ricerca del Gesù storico, il cui rappresentante più eminente è Kasemann. Questo movimento, che pretendeva di recuperare la fiducia in Gesù a partire dalla ricerca storica, avrà vita breve e sarà poco influente, forse perché l’agenda esegetica, teologica ed ecclesiale negli anni Sessanta e Settanta si stava spostando verso altre questioni.
Ne conseguì che tanto in campo protestante quanto in quello cattolico la frattura tra il Gesù storico e il Cristo della fede si consolidò quasi come un dogma, soprattutto nell’esercizio pratico dell’esegesi dei vangeli e, di conseguenza, nella teologia che su di essa era fondata. In sintesi, i vangeli riflettono la fede della Chiesa, una fede post – pasquale in Gesù risorto. Ma il Gesù “ pre – pasquale”, che non è passato attraverso la fede dei testimoni, era un altro.

  1. UNA GRANDE SFIDA ALL’INTELLECTUS FIDEI

Ratzinger, nella premessa a tutta l’opera di Gesù di Nazareth, descrive assai bene le conseguenze che questa posizione reca per il popolo cristiano: “Tutti questi tentativi (si riferisce alle ricostruzioni del Gesù storico realizzate nella ricerca scientifica a partire dagli anni cinquanta) hanno comunque lasciato dietro di sé, come denominatore comune, l’impressione che noi sappiamo ben poco di certo su Gesù e che solo più tardi la fede nella sua divinità ha plasmato la sua immagine. Questa impressione, nel frattempo, è penetrata profondamente nella coscienza  comune della cristianità. Una simile situazione è drammatica per la fede perché rende incerto il suo autentico punto di riferimento: l’intima amicizia con Gesù, da cui tutto dipende, minaccia di annaspare nel vuoto” (vol. I, p.8).
Infatti, afferma Ratzinger nella stessa premessa, “che significato può avere la fede in Gesù il Cristo, in Gesù Figlio del Dio vivente, se poi l’uomo Gesù era così diverso da come lo presentano gli evangelisti e da come, partendo dai Vangeli, lo annuncia la Chiesa?” (vol. I, p.7).
Fu questo gravissimo problema, posto dall’intellectus fidei, che indusse il teologo Ratzinger a intraprendere il lavoro di cui stiamo parlando. Egli stesso considerava questo compito urgente, come risulta evidente dal fatto che un simile progetto non ha dormito il sonno dei giusti dopo l’elezione di Ratzinger alla cattedra di Pietro.
A questo punto ci dobbiamo domandare: che novità rappresenta quest’opera nell’ambito del’esegesi moderna, dato che un Papa ha voluto scendere nell’”arena” della discussione scientifica? In altre parole, in che senso possiamo affermare che quest’opera si colloca alla fine di una parabola storica che va dalla sfiducia nei vangeli  alla fiducia negli stessi?
Questa domanda diventa in un certo senso più pressante se teniamo conto che negli ultimi quindici  o vent’anni tanto l’esegesi cattolica quanto quella protestante si ritrovano implicate in ciò che è noto come Third Quest o terza ricerca del Gesù storico, con una grande produzione bibliografica. Non basta questa nuova corrente a ridare fiducia nella testimonianza su Gesù che ci trasmettono i vangeli? Sfortunatamente la Third Quest, seppure con punti di vista e livelli di serietà molto diversi, non è immune da un ultimo dubbio a proposito di quella testimonianza. Gi esempi più seri di questa produzione apportano nuove conoscenze storiche sul contesto di Gesù, che contribuiscono a far emergere la sua figura con maggiore vivacità e profondità. Ma spesso continua a essere figura nebulosa che viene dal passato, con pochi tratti “freschi”. A tale corrente fa cenno Ratzinger nella premessa a questo secondo volume del suo Gesù di Nazareth, quando dice: “Il “Gesù storico”, come appare nella corrente principale dell’esegesi critica sulla base dei presupposti ermeneutici, è troppo insignificante nel suo contenuto per aver potuto esercitare una grande efficacia storica; è troppo ambientato nel passato per rendere possibile un rapporto personale con Lui” (vol. II, pp.8-9).
Pertanto la questione è se possiamo dare ragionevolmente credito all’immagine di Gesù che ci trasmettono i vangeli, libri canonici e ispirati. Se così non fosse, ci si dovrebbe domandare se abbia un senso cercare di recuperare, attraverso al ricerca storica, i tratti di una figura che apparterrebbe inevitabilmente al passato.
Rispondere alla domanda sulla novità del libro di cui trattiamo (che si identifica con la domanda sul perché questo progetto non sia rimasto nel cassetto del teologo Ratzinger eletto Papa) ci costringe a presentare i due assi su cui si regge la sua originalità.
-         Il primo sarebbe il fondamento metodologico;
-         Il secondo l’esercizio pratico dell’esegesi, come illustrazione paradigmatica di quel fondamento.

  1. IL FONDAMENTO METODOLOGICO

La preoccupazione per l’aspetto metodologico dell’esegesi non è nuova in J. Ratzinger. La conferenza tenuta dall’allora cardinale a New York nel 1988, e in seguito pubblicata come L’interpretazione biblica in conflitto. Problemi del fondamento ed orientamento dell’esegesi contemporanea, ben presto è diventata una delle pietre miliari del dibattito ermeneutico che da allora è cresciuto enormemente, un dibattito in cui lo stesso Ratzinger è intervenuto in altre occasioni, non solo come cardinale, ma anche come Papa.
In quella conferenza, il cardinale illustrava le premesse filosofiche che hanno messo in moto gran parte dell’esegesi dominante, ponendo in dubbio la sua pretesa di essere una disciplina scientifica, con risultati comparabili, come esattezza, a quelli del mondo scientifico. Inoltre sottolineava un’altra questione: come unire in modo equilibrato i due principi metodologici dell’esegesi presentati dalla costituzione dogmatica Dei Verbum al numero 12: un’esegesi storica e al contempo teologica. Lo stesso Ratzinger ritiene che il concilio presenti in modo adeguato le due dimensioni da affermare, ma non chiarisce come si possano integrare in una sola esegesi: “Il Concilio vaticano II non ha certo creato questo stato di cose, ma non è  stato nemmeno in grado di impedirlo. La Costituzione sulla Divina Rivelazione ha cercato di stabilire un equilibrio tra i due aspetti dell’interpretazione, l’”analisi” storica e la “comprensione” d’insieme (…). Personalmente sono convinto che una lettura attenta del testo intero della Dei Verbum permetterebbe di trovare gli elementi essenziali per una sintesi tra il metodo storico e l’”ermeneutica” teologica. Il loro accordo tuttavia non è immediatamente evidente”.
E’ questo il punto su cui Papa Ratzinger è stato maggiormente incisivo negli ultimi anni, in un panorama esegetico più aperto al dibattito metodologico (in gran parte grazie ai suoi stessi contributi). Nel suo intervento nell’Aula, durante la XIII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi dedicata a “La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa”, Benedetto XVI ricordava  la “necessità di tener presenti nell’esegesi i due livelli metodologici indicati dalla Dei Verbum 12, dove si parla della necessità di sviluppare una esegesi non solo storica, ma anche teologica”. Questa osservazione fu ripresa, negli stessi termini, nell’Esortazione apostolica post sinodale Verbum Domini (n. 34), il più importante documento magisteriale sulla Bibbia dopo la Costituzione Dei Verbum.
Nel secondo volume di Gesù di Nazareth, insiste nuovamente sulla duplice dimensione metodologica dell’esegesi: “Con gratitudine prendo anche atto che la discussione sul metodo e sull’ermeneutica dell’esegesi, come pure sull’esegesi quale disciplina storica e al contempo teologica, sta diventando più vivace, nonostante non poche resistenze nei confronti di nuovi passi” (vol. II, p. 6).
Questa insistenza metodologica non è gratuita. Se l’esegesi ha fatto grandi passi in avanti come disciplina storica, lo stesso non si può dire come disciplina teologica, ossia come aiuto per la totale comprensione della Parola di Dio. Nella premessa a questo secondo volume del libro si dimostra particolarmente incisivo: “Se la esegesi biblica scientifica non vuole esaurirsi in sempre nuove ipotesi diventando teologicamente insignificante, deve fare un passo metodologicamente nuovo e riconoscersi nuovamente come disciplina teologica, senza rinunciare al suo carattere storico. Deve imparare che l’ermeneutica positivistica da cui essa prende le mosse non è espressione della ragione esclusivamente valida che ha definitivamente trovato se stessa, ma costituisce una determinata specie di ragionevolezza storicamente condizionata, capace di correzione e di integrazioni e bisognosa di esse. Tale esegesi deve riconoscere che un’ermeneutica della fede, sviluppata in modo giusto, è conforme al testo e può congiungersi con un’ermeneutica storica consapevole dei propri limiti per formare un’interessa metodologica” (vol. II, ppp. 6-7).
In questo contesto, è particolarmente evidente l’osservazione a proposito della ragione. L’esegesi dominante non soffre per mancanza di strumenti o di perizia nell’uso degli stessi, ma per il problema dell’uso inadeguato della ragione che, evidentemente, impedisce un’adeguata comprensione della Scrittura. E’ ciò che il Papa ha definito nel famoso discorso di Ratisbona “l’autolimitazione moderna della ragione”, a causa della quale si afferma che “soltanto la ragione positivista e le forme di filosofia da essa derivanti siano universali”, e quindi il divino rimane escluso “dall’universalità della ragione”. Più avanti vedremo alcuni esempi di questa “autolimitazione” tratti dal libro di cui ci stiamo occupando.
Anche rispetto a questo punto papa Ratzinger si ritrova alla fine di un’altra parabola storica, nella fattispecie in quella che ha percorso la ragione moderna negli ultimi tre secoli in Occidente. Non a caso entrambe le parabole storiche, quella della ragione e quella dell’esegesi, vanno di pari passo: comprendere questo stretto legame è ciò che ha permesso a Ratzinger di avere uno sguardo lucido sui problemi dell’esegesi. Infatti l’Illuminismo  era partito con un’esaltazione della ragione autonoma che, con il tempo, ha relegato il credere e il fatto religioso nell’ambito dell’irrazionale o, almeno, dell’a – razionale. Fede e ragione non avevano nessun rapporto. In tal caso la Chiesa cattolica e il suo magistero apparivano come una remora per la conoscenza, di cui sembrava giusto sbarazzarsi. L’intronizzazione della dea Ragione e Notre – Dame de Paris nel 1793 illustra chiaramente questo programma.
Paradossalmente il percorso dell’”autolimitazione  moderna della ragione” ha condotto al “pensiero debole” che nella post – modernità ha, in pratica, abbandonato la ragione. Nel dibattito pubblico si parla molto di libertà e di aumento di diritti, ma pochi si attengono a ragioni determinate o alla ragione in generale. E’ paradossale che all’inizio del XXI secolo sia stato proprio un Papa, il papa che dialoga con Habermas, a richiamare l’Occidente, dicendogli di “avere il coraggio” di recuperare la ragione, di “allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa”.
L’oggetto dell’esegesi, la Scrittura, è testimone di un fenomeno religioso che ha una particolare espressività storica. Soltanto una ragione in grado di avvicinarsi all’oggetto adottando questa doppia dimensione sarà capace di comprenderlo veramente. Da qui l’insistenza di Ratzinger sul fatto che l’esegesi si debba riconoscere come disciplina teologica senza rinunciare al suo carattere storico. Solo così si arriverà a quello che Benedetto XVI chiama nel presente libro “una totalità metodologica”. Solo così è possibile abitare quella “terra ignota” o “ragione sconosciuta” che secondo Norbert Lohfink esiste in DV 12, quella in cui coabitano la metodologia critica e  l’ermeneutica teologica.
Oggi è sempre più frequente che l’esegeta riconosca la necessità di arrivare alla teologia. In altri termini,  si riconosce con maggior semplicità che l’esegesi deve essere storica e al contempo teologica. Ma arrivare ad articolare in modo armonico le due dimensioni in un’unica interpretazione biblica e, senza dubbio, il problema centrale dell’esegesi contemporanea. Questo è il compito che il papa assegna a se stesso nel presente libro.

  1. L’ESERCIZIO PRATICO DELL’ESEGESI

Indubbiamente è necessario un fondamento teologico che mostri l’unità articolata dell’esegesi, critica e insieme teologica. Ma è altresì evidente che l’esercizio di un’esegesi che, nella pratica, mostri la modalità con cui entrambe le dimensioni concorrono fecondamente allo studio dell’unico oggetto, la Scrittura, testimonianza della Rivelazione, risulta decisivo allo scopo di persuaderci della bontà di questo approccio unitario.
E’ precisamente quello che Ratzinger/Benedetto XVI ha voluto fare nel presente libro, come confessa nella premessa a questa seconda parte: “Naturalmente, questa congiunzione di due generi di ermeneutica molto differenti tra loro è un compito da realizzare sempre di nuovo. Ma tale congiunzione è possibile (…). Non pretendo di asserire che nel mio libro questa congiunzione delle due ermeneutiche sia ormai cosa compiuta fino in fondo. Spero però di aver già fatto un buon passo in tale direzione” (vol. II, p. 7).
Non era possibile compiere un’impresa di questo calibro senza correre il rischio di scendere nell’”arena” dell’interpretazione dei testi, entrando nei problemi e nelle questioni discusse. Un rischio che Ratzinger / Benedetto ha corso, cosciente di quale fosse la posta in gioco. Se invece di questo progetto il papa avesse concepito un’opera di “spiritualità”, una Vita di Gesù che, prendendo come punto di partenza i vangeli, ricreasse il mondo interiore del Papa, senza altre pretese, ci troveremmo di fronte all’ennesima ricreazione della figura di Gesù, a partire dalla fede, destinata a colmare il vuoto che lasciano i freddi studi esegetici sui vangeli. Ma il dualismo tra esegesi scientifica e teologia credente sarebbe rimasto intatto.
Scendere nell’arena esegetica significa lottare con i migliori spadaccini dell’interpretazione biblica. Perciò non stupisce che nelle pagine di questo libro sfilino le figure più prestigiose o più dibattute della scienza neotestamentaria del secolo passato: Barret, Bultmann, Dodd, Conzelmann, Gnilka, Harnack, Hengel, Jeremias, Meier, Pesch, Schnackenburg, Vanhoye, Wilckens e tanti altri. Il papa è ben cosciente del rischio che sta correndo e per questo mette bene in chiaro che non ci troviamo di fronte a un documento magisteriale. Qualsiasi esegesi è limitata e, per questo, soggetta a correzione. Identificare nel presente libro questioni affrontate in modo insufficiente o sentire la mancanza di dati di cui non si è tenuto conto non deve scandalizzare. Fa parte della natura di un libro come questo.
Ma sicuramente il rischio è valso la pena. Nella discussione sulle questioni esegetiche concrete Ratzinger ha dimostrato, in modo paradigmatico, un’esegesi critica e insieme teologica, svelando in tante occasioni le premesse filosofiche o culturali che limitano la ragione moderna applicata alla Scrittura. Facciamo qualche esempio.
-         Una delle questioni più dibattute dell’esegesi neotestamentaria è tutto ciò che riguarda l’Ultima Cena: la data, le intenzioni di Gesù, la sua natura,le parole dell’istituzione dell’Eucaristia, ecc. Il Papa affronta tutti questi problemi attraverso un rigoroso esercizio della ragione, aperta ad accogliere tutti i fattori in gioco. Tutti, compresi quelli della tradizione liturgica, che hanno un peso storico innegabile. E, in concreto, illustra la ragionevolezza e la plausibilità storica del racconto, così come è giunto a noi, nelle sue molteplici testimonianze: Ma, con grande intelligenza, Ratzinger mostra che in questa discussione non si tratta unicamente di dati e ragioni. Entrano in gioco presupposti culturali moderni che interferiscono nella retta conoscenza. Effettivamente, “una non piccola parte dell’esegesi attuale contesta che le parole dell’istituzione risalgano veramente a Gesù (…). L’obiezione principale (…) si può riassumere così: ci sarebbe una contraddizione irrisolvibile tra il messaggio di Gesù circa il regno di Dio e l’idea della sua morte espiatoria in funzione vicaria”. In altri termini, l’esegesi moderna identificherebbe due mondi concettuali diversi che devono appartenere a due strati diversi e successivi della tradizione. “Sono realmente due mondi concettuali diversi?” si domanda Ratzinger. A suo parere, la ragione ultima per cui molti teologi ed esegeti non ammettono come originali le parole dell’istituzione, “non sta nei dati storici: come abbiamo visto, i testi eucaristici appartengono alla tradizione più antica. In base ai dati storici niente può esservi di più originale che proprio la tradizione della cena. Ma l’idea di un’espiazione è cosa inconcepibile per la sensibilità moderna. Gesù nel suo annuncio del regno di Dio deve esserne agli antipodi. C’è di mezzo la nostra immagine di Dio e dell’uomo. Per questo tutta la discussione è solo apparentemente un dibattito storico” (vol. II, p. 136); “il mistero dell’espiazione non deve essere sacrificato a nessun razionalismo saccente” (vol. II, p. 267). Tuttavia riconoscere questo fattore, secondo Ratzinger, “richiede (…) la disponibilità di non semplicemente contrapporre al Nuovo testamento in modo “critico – razionale” la nostra saccenteria, ma di imparare e di lasciarci guidare: la disponibilità a non travisare i testi secondo i nostri concetti, ma a lasciar purificare e approfondire i nostri concetti dalla sua parola” (vol. II, p. 137). Al contrario, “le ipotesi esegetiche (…) troppo spesso si presentano con un pathos di certezza che viene confutato già dal fatto che posizioni contrarie vengono proposte continuamente con lo stesso atteggiamento di certezza scientifica” (vol. II, p. 121). In tal modo, dall’interno della discussione esegetica, Ratzinger illustra un principio che egli stesso aveva formulato molti anni addietro, “Il dibattito attorno all’esegesi moderna non è nel suo nucleo centrale un dibattito tra storici, ma un dibattito filosofico”.
-         E’ paradigmatica anche la discussione sulla Risurrezione di Gesù, in cui si gioca il fondamento della nostra fede. L’interprete della Scrittura non è alieno dalla domanda che l’uomo moderno, figlio di una certa mentalità, rivolge ai racconti sul sepolcro vuoto e sulle apparizioni: “Ma può veramente essere stato così? Possiamo noi . in quanto persone moderne – dare credito a testimonianze del genere? Il pensiero “illuminato” dice di no” (vol. II, p. 274). “L’immagine scientifica del mondo” sembrerebbe opporsi al contenuto di questi racconti. Su tale questione, ancora una volta, non intervengono soltanto i dati storici o letterari in nostro possesso. E’ in gioco un certo esercizio della ragione, come ragione aperta. Concretamente è in gioco se la ragione ammette la categoria di possibilità che le è connaturata, ossia se accetta la possibilità che il Mistero che ha fatto tutte le cose si possa rivelare e possa farlo in un punto storico. Il dogma illuminista, per cui un avvenimento storico non può essere una verità necessaria e universale, pesa gravemente sull’interpretazione di questi testi. Così dice Ratzinger quando espone la difficoltà che si affronta nel momento in cui si accetta la testimonianza apostolica su Gesù che, risuscitato, passa in una nuova dimensione. “Ci viene detto piuttosto: esiste un’ulteriore dimensione rispetto a quelle che finora conosciamo. Ciò sta forse in contrasto con la scienza? Può veramente esserci solo ciò che è esistito da sempre? Non può esserci la cosa inaspettata, inimmaginabile, la cosa nuova? Se Dio esiste, non può Egli creare anche una dimensione nuova della realtà umana? Della realtà in generale?” (vol. II, p. 275).

  1. LA FASE FINALE DELLA PARABOLA STORICA

Il risultato globale di quest’opera, lasciando da parte questioni su scala storiche o discutibili, è più che soddisfacente, soprattutto perché centra l’obiettivo: mostrare un’esegesi in azione, critica e al contempo teologica, che raggiunge l’oggetto, il Gesù testimoniato dai vangeli, presentato in modo ragionevole e plausibile come il Gesù “storico”. Già nella premessa alle due parti del libro Ratzinger anticipava questa intenzione: “ Ho voluto fare il tentativo di presentare il Gesù dei Vangeli come il Gesù reale, come il “Gesù storico” in senso vero e proprio. Io sono convinto, e spero che se ne possa rendere conto anche il lettore, che questa figura è molto più logica e dal punto di vista storico anche più comprensibile delle ricostruzioni con le quali siamo dovuti confrontare negli ultimi decenni. Io ritengo che proprio questo Gesù – quello dei Vangeli – sia una figura storicamente sensata e convincente” (vol. I, p. 18).
Possiamo dunque ben comprendere la curiosa parabola storica percorsa dall’esegesi nei due ultimi secoli e mezzo: da Reimarus, che partendo dalla ragione e rifiutando, in suo nome il dogma, si avventura alla ricerca del Gesù storico a margine dei vangeli, fino al Gesù di Nazareth di un Papa teologo che, rivendicando un uso adeguato della ragione, riconferma la verità storica e la ragionevolezza del Gesù dei vangeli.
Ratzinger ha dimostrato così, in atto, che il contesto più adeguato per l’interpretazione dei vangeli è proprio il luogo in cui nacquero: la via della fede, la Chiesa. Non è inutile la contemporaneità con la narrazione che ci garantisce lo Spirito Santo all’interno dell’esperienza ecclesiale, e che ci permette di capire e di entrare in sintonia con l’avvenimento di Cristo. Il Papa ha reso un grande servizio alla fede mostrando, nei suoi risultati, la verità di questo principio ermeneutico. In altre parole, è diventato un esempio di quello che egli stesso chiede ai cristiani affinché il loro contributo sia decisivo nel mondo di oggi: che “intelligenza della fede diventi intelligenza della realtà” (Ignacio Carbajosa, Professore ordinario di Sacra Scrittura nella facoltà di Teologia “San Damaso”, Madrid).

Ho pensato utile riportare questo intervento per intero perché corrisponde a ciò che è prioritario in Benedetto XVI  La verità salvifica della presenza e dell’incontro ecclesiale con Gesù Cristo alla ragione del nostro tempo, convinto che all’inizio del terzo millennio, il cristianesimo si trova, proprio nel luogo della sua originaria diffusione, in Europa, in una crisi profonda, basata sulla crisi della consapevolezza sua verità.
Questa crisi ha una duplice dimensione:
-         la sfiducia in una ragione aperta a tutti gli ambiti della realtà cioè sensibile alla ricerca del vero, del bene, di Dio e, su questo cammino capace di scorgere le utili luci sorte lungo la storia di fede - ragione percependo così Gesù Cristo la Luce che illumina la storia e aiuta a trovare la via verso il futuro e la speranza affidabile. Se però la ragione illuministicamente diventa sorda al grande messaggio che le viene dalla fede cristiana e dalla sua sapienza, inaridisce come un albero le cui radici non raggiungono più le acque che gli danno vita. Perde il coraggio per la verità e così non diventa più grande ma più piccola. Applicato alla cultura europea alle prese con la globalizzazione: se essa vuole solo auto costruirsi in base al cerchio delle proprie argomentazioni e a ciò che al momento la convince e –preoccupata della sua laicità – si distacca dalle radici delle quali vive, allora non diventa più ragionevole e più pura, ma si scompone e si frantuma senza riuscire a dialogare con le altre culture.
-         Rispondere ai dubbi che le scienze moderne, naturali e storiche, segnate da questa “autolimitazione positivista della ragione” hanno sollevato riguardo ai contenuti e alle origini della fondazione storica del cristianesimo e al cuore stesso, Gesù Cristo.

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