Ancora nella Chiesa

Perché oggi sono ancora nella Chiesa

Il 4 giugno 1970 a Monaco quasi mille persone accolsero l’invito dell’Accademia Cattolica di Baviera a una conferenza serale del Prof. Dr. Joseph Ratzinger, al tempo docente ordinario di Dogmatica all’Università di Ratisbona. Il tema “Perché oggi sono ancora nella Chiesa” poneva evidentemente al centro una questione che toccava molte persone. Una questione ancora attuale con il manifesto “Kirche 2011” firmato da circa 200 teologi tedeschi, austriaci e svizzeri dove si invita la chiesa cattolica a un “indispensabile rinnovamento” che coinvolge l’esercizio del primato di Pietro, l’ordinazione sacerdotale femminile nonché l’abolizione del celibato ecclesiastico. Cosa ne pensa Seewald, che ha scritto tre libri – intervista con Joseph Ratzinger, del manifesto? Ecco alcune dichiarazioni da lui rilasciate all’agenzia di stampa austriaca kath.net in merito. Pensa che sia il prodotto di “forze
neoliberali che fanno pressione per trasformazioni che avrebbero come risultato  di spogliare la Chiesa cattolica del suo stesso essere, e quindi del suo spirito e della sua forza”. I teologi accusano la chiesa di “autoreferenzialità” e “ossessione di sé”. Ma dice Seewald ai contestatori “chi semina vento raccoglie tempesta”. Dove la tempesta è, secondo il giornalista tedesco, la contro rivolta di coloro che sono “fedeli alla chiesa” e sono pronti a scatenare finalmente contro questi teologi del continuo dissenso.
Seewal paragona i firmatari a dei “rami ormai marci che possono certo fare danni, ma soltanto cadendo dall’albero a cui sono appesi”. Li chiama “saccenti teologi, piccolo – borghesi, fanfaroni che vanno a perorare in tutti i microfoni che vengono loro offerti”. Ma ricorda ancora Seewald, gli attacchi più gravi “vengono dall’interno” della chiesa.. Dice ci sono “gesuiti d’alto rango” che si permettono di criticare la morale sessuale cattolica mentre dimenticano che gli scandali della pedofilia hanno avuto luogo “nelle loro case”, come i fatti verificatisi nel collegio Canisius di Berlino dimostrano.
Sospettando la minoranza riformatrice di voler imporre le sue visioni moderniste alla maggioranza dei cattolici, Seewal parla, con una formula sorprendente, di “una sorta di stalinismo teologico”. Le critiche sarebbero di fatto superate da tempo, tanto che se i teologi firmatari del manifesto possono ancora sperare di raccogliere fra le loro fila qualche militante, non “potranno mai riuscire a entusiasmare le folle e soprattutto i giovani”.
Altro è lo stile di Joseph Ratzinger che fin dal 1970 anticipa profeticamente l’intervento del servo di Dio Paolo VI che il 29 giugno 1972, nell’Omelia Resistite fortes in fide disse:Crediamo in qualcosa di preternaturale venuto nel mondo proprio per turbare, per soffocare i frutti del Concilio ecumenico e per impedire che la Chiesa prorompesse nell’inno di gioia per aver ricevuto in pienezza la coscienza di sé”. Eco il testo del prof. Ratzinger (1970) oggi Benedetto XVI:

“Di motivi per non essere più nella Chiesa ce ne sono molti e diversi tra loro. A voltare le spalle alla Chiesa si sentono spinti non più solo coloro ai quali la fede della Chiesa è diventata estranea, ai quali la Chiesa appare troppo arretrata, troppo medioevale, troppo ostile al mondo e alla vita, bensì coloro che amarono nella Chiesa la sua figura storica, la sua liturgia, la sua inattualità, il suo riberbero di eternità. A questi  ultimi sembra che la Chiesa stia tradendo la propria vera natura, che si stia svendendo alla moda e stia quindi perdendo la propria anima: sono delusi come un innamorato che deve vivere il tradimento di un grande amore e considerano seriamente il voltarle le spalle. D’altra parte però vi sono anche motivi molto contrastanti per rimanere nella Chiesa: in essa restano non solo quelli che conservano in modo instancabile la loro fede nella missione, o quelli che non si vogliono staccare da una vecchia e cara  abitudine (anche se ne fanno scarso uso).
Oggi rimangono in essa con maggior vigore coloro che rifiutano la sua intera essenza storica e contestano con passione il significato dei suoi ministri cercano di darle o di conservarle. Sebbene essi vogliano rimuovere ciò che la Chiesa fu ed è, sono anche determinati a non lasciarsi mandare fuori da essa, per trasformarla in ciò che secondo loro essa dovrebbe diventare.

Riflessioni preliminari sulla situazione della Chiesa
In questo modo, però, si ha una vera condizione babilonese per la Chiesa, nella quale non solo sono intrecciati nella maniera più strana i motivi a favore e contro di essa, ma un’intesa sembra quasi impossibile. Innanzitutto nasce la sfiducia, perché l’essere nella Chiesa ha perso il proprio carattere inequivocabile e nessuno osa più avere fiducia nella sincerità dell’altro.
L’affermazione piena di speranza che Romano Guardini fece nel 1921 sembra ormai capovolta: un processo di grande portata è iniziato: la Chiesa si sveglia nelle coscienze”.
Oggi al contrario la frase sembrerebbe dover suonare: “In realtà si svolge un processo di grande portata – la Chiesa si spegne nelle anime e si disgrega nelle comunità”.
In un mondo che tende all’unità, la Chiesa si disgrega in risentimenti nazionalistici, denigrando ciò che è estraneo o glorificando il proprio particolare.
Tra i fautori della mondanità e quelli di una reazione che si aggrappa troppo all’esteriorità e al passato, tra il disprezzo della tradizione e la fiducia positivistica di una fede presa alla lettera, sembra non esserci alcuna via di mezzo – l’opinione pubblica assegna inesorabilmente a ognuno il suo posto. Essa ha bisogno di etichette chiare e non accetta le sfumature: chi non è per il progresso, è contro di esso; si deve essere o conservatori o progressisti.
Grazie a Dio, la realtà è indubbiamente moto diversa: in segreto e quasi senza voce ci sono anche oggi, tra questi due estremi, coloro che semplicemente credono di realizzare la vera missione della Chiesa anche in questo momento di confusione: il culto e l’accettazione della vita quotidiana a partire dalla parola di Dio. Ma essi non si adattano all’immagine che se ne vuole avere e così rimangono in larga misura muti: la vera Chiesa non è certamente invisibile, ma profondamente nascosta sotto le malefatte degli uomini.
Si è ottenuto un primo abbozzo dello sfondo sul quale si pone oggi la domanda: perché rimango nella Chiesa? Per poter dare una risposta sensata, bisogna innanzitutto approfondire ulteriormente l’analisti di questo contesto storico che con la parola rientra direttamente nel nostro tema e dobbiamo intendere le ragioni che hanno portato a questa situazione.
Come si è potuto arrivare a questa singolare situazione babilonese, nel momento in cui si aspettava invece una nuova Pentecoste? Come è stato possibile che, proprio nel momento in cui il Concilio sembrava aver raccolto il frutto maturo del risveglio degli ultimi decenni, invece della ricchezza del compimento sia emerso un vuoto inquietante? Come è potuto accadere che dalla grande spinta verso l’unità sia sorta la disgregazione?
Vorrei innanzitutto tentare di rispondere con un paragone, che può nel contempo svelare il compito che ci spetta e insieme rendere visibili, tramite alcuni accenni, i motivi che possono ancora rendere possibile un sì, anche tra tanti no. Nel nostro sforzo di comprendere la Chiesa, e fare un lavoro concreto su di essa, tramutatosi nel concilio in una vera e propria lotta, sembra che le siamo giunti così vicino da non riuscire più a percepirla nel complesso: sembra che non siamo più in grado di vedere la città oltre le case, la foresta oltre gli alberi. La stessa situazione in cui ci ha portato così spesso la scienza rispetto alla realtà sembra essersi ripetuta ora anche rispetto alla Chiesa: noi vediamo il particolare, con una precisione talmente esasperata che diventa impossibile percepire il tutto (cioè la realtà in tutti i fattori cioè la verità). Quello che ci mostra il microscopio quando osserviamo in esso un pezzo d’albero è indiscutibilmente giusto, ma può nel contempo nascondere la verità, se ci fa dimenticare che la singola cosa non è meramente tale, bensì possiede un’esistenza nel tutto, che non può essere vista al microscopio; pur essendo di certo vera, più vera della singola cosa in se stessaLteologia, filosofia, scienze hanno i loro metodi proprie la loro autonomia da rispettare ma nella consapevolezza dell’intrinseca unità che le tiene insieme) .

Dalle metafore ai concetti
Esprimiamo ora i concetti  senza metafore. La prospettiva del presente ha trasformato il nostro sguardo sulla Chiesa in modo tale che noi oggi in pratica la vediamo solo sotto l’aspetto della fallibilità, chiedendoci cosa possiamo fare di essa. Il grande sforzo di riforma interno alla Chiesa ha infine fatto dimenticare tutto il resto; essa è per noi oggi solo una struttura, che si può trasformare e che ci porta chiederci cosa si debba cambiare in essa per renderla più efficiente per i singoli scopi che ognuno le attribuisce. Nel porsi questa domanda, il concetto di riforma è ampiamente degenerato nella coscienza comune ed è stato privato del suo nucleo centrale, (nel suo essere, nella sua verità perenne, nella sua continuità dinamica o Tradizione).Infatti la riforma, nel suo significato originario, è un processo spirituale molto vicino alla conversione e in questo senso fa parte del cuore del fenomeno cristiano; soltanto attraverso la conversione si diventa cristiani, e questo è valido per tutta la vita del singolo e per tutta la storia della Chiesa. Anche essa continua a vivere convertendosi sempre nuovamente al Signore, tenendosi lontana dall’irrigidimento in se stessa e in quella semplice cara abitudine che è così facilmente contraria alla verità. Ma se la riforma viene allontanata da questo contesto, dallo sforzo della conversione e se ci si aspetta la salvezza dal cambiamento degli altri, da forme e adattamento al tempo sempre nuovi, forse si può raggiungere qualche risultato – ma nel complesso la riforma diventa una caricatura di se stessa. Una simile riforma, in fin dei conti, può portare solo a ciò che è irrilevante, che è di second’ordine nella Chiesa; ma c’è da meravigliarci che alla fine la Chiesa stessa le sembri qualcosa di secondario. Se si riflette su ciò si comprende meglio anche il paradosso che si è delineato negli sforzi di rinnovamento della nostra epoca; lo sforzo per rendere meno pesanti strutture ormai irrigidite, per correggere forme del ministero ecclesiastico che derivano dal medioevo o ancora di più dai tempi dell’assolutismo e per liberare la Chiesa da tali sovrapposizioni verso un servizio più semplice secondo lo spirito del Vangelo. In effetti questi sforzi hanno condotto a una sovrapposizione dell’elemento istituzionale nella Chiesa, che è quasi senza precedenti nella Chiesa. Le istituzioni e i ministeri nella Chiesa di certo vengono criticati oggi in modo più radicale di un tempo, ma essi assorbono anche l’attenzione in modo più esclusivo che mai: non pochi credono oggi che la Chiesa consista solo in essi.
La problematica della Chiesa si esaurisce allora nella battaglia sulle sue istituzioni; non si vuole lasciare inutilizzato un apparato così vasto, ma lo si trova per molti aspetti inadatto ai nuovi scopi che gli vengono assegnati.
Dietro di ciò si profila un secondo punto, il problema effettivo: la crisi della fede, che è il vero nocciolo della questione. La Chiesa si protende, dal punto di vista sociologico, sempre ben oltre la cerchia dei veri e propri credenti ed è profondamente alienata dalla sua vera essenza da questa falsità istituzionalizzata.
L’effetto pubblicitario del concilio e l’apparentemente possibile futuro avvicinamento di fede e non fede – avvicinamento che il sistema dell’informazione sul concilio ha simulato, quasi come se fosse necessitato a farlo – hanno radicalizzato all’estremo questa alienazione.
Il plauso per il concilio giunse in parte anche da coloro che pur non avendo affatto intenzione di diventare credenti nel senso della tradizione cristiana, salutarono però questo “progresso” della Chiesa nella direzione di quanto da loro stessi deciso come conferma del loro cammino.
Nello stesso tempo, però, la fede è entrata in una fase di fermento anche nella Chiesa stessa. Il problema della mediazione storica porta l’antico Credo in una penombra difficilmente spiegabile, nella quale scompaiono i contorni delle cose; l’obiezione delle scienze naturali o ancora più ciò che si considera come concezione cosmologica moderna, fa la sua parte per aggravare questo processo.
I confini tra interpretazione e negazione diventano, proprio sulle questioni principali, sempre più indistinti: cosa significa veramente “risuscitato dai morti?”
Chi è che crede, chi è che interpreta, chi è che nega? E mentre si discute sui limiti dell’interpretazione si perde di vista il volto di Dio.
La “morte” di Dio è un processo del tutto reale, che oggi penetra in profondità all’interno della Chiesa. Dio muore nella cristianità, così almeno sembra. Poiché laddove la resurrezione diventa l’accadimento di una missione percepita in immagini superate, Dio non opera più. Ma soprattutto, egli agisce? E’ questa la domanda che ci incalza. Ma chi sarà così reazionario da insistere sull’affermazione realistica “Egli è risorto”?
Così ciò che per l’uno è progresso per l’altro è miscredenza, e diventa normale quello che finora era impensabile, cioè che delle persone che da tempo hanno abbandonato la fede della Chiesa si considerino ancora con buona coscienza i veri cristiani progressisti.
Per loro, però, l’unico   criterio in base al quale giudicare la Chiesa è l’efficienza con la quale funziona; ma rimane ancora da chiedersi cosa sia efficace e a quale scopo il tutto debba effettivamente essere usato. Per criticare la società, per aiutare lo sviluppo, per fomentare la rivoluzione? O per celebrare le feste locali?
In ogni caso, bisogna ricominciare da capo, poiché la Chiesa originariamente non era stata concepita per tutto ciò e nella sua forma attuale effettivamente non è adatta a queste funzioni, in questo modo aumenta il disagio sia fra i credenti che tra i non credenti.
Il diritto di cittadinanza che la miscredenza ha ottenuto nella Chiesa rende la situazione sempre più insopportabile per gli uni e per gli altri; soprattutto, attraverso questi processi il programma di riforma è finito tragicamente in una singolare ambiguità, che per molti è irrisolvibile.
Naturalmente si può obiettare che tutto ciò non rappresenta di certo l’intera nostra situazione. Ci sono ancora tanti elementi positivi, che sono cresciuti negli ultimi anni e non devono assolutamente passare sotto silenzio: la nuova liturgia più accessibile, l’attenzione ai problemi sociali, la migliore comprensione tra i cristiani di diverse confessioni, la fine di una certa paura che era dovuta a una fede falsificata, troppo legata alla lettera, e molto altro ancora.
Oggi è chiaro che, nonostante tutti i segni di speranza ancora esistenti, da questo processo non è ancora emersa una Chiesa moderna, bensì una Chiesa diventata quanto mai discutibile e profondamente lacerata. Dobbiamo ammetterlo una buona volta a chiare lettere: il Concilio Vaticano I aveva descritto la Chiesa come “signum levatum in nationes”, come il grande vessillo escatologico visibile da lontano, che chiama e unisce gli uomini attorno a sé. Secondo il concilio del 1870, essa rappresenta quel segno auspicato da Isaia (11,12), visibile da lontano, che ogni uomo può riconoscere e che indica a tutti il cammino in modo inequivocabile: con la sua prodigiosa diffusione, la sua profonda santità, la sua fecondità in tutto ciò che è buono e la sua incrollabile stabilità, essa rappresenta il vero miracolo del cristianesimo, la sua costante autenticazione che sostituisce tutti gli altri segni e miracoli al cospetto della storia. Oggi sembra vero tutto il contrario: non una istituzione prodigiosamente diffusa, ma un’associazione vuota e stagnante, che non è in grado di superare seriamente i confini dello spirito europeo, né di quello medioevale; non una profonda santità, bensì un insieme di tutte le azioni vergognose degli uomini, insudiciata e mortificata da una storia che non si è ancora fatta mancare alcuno scandalo, dalla persecuzione degli eretici e dai processi alle streghe, dalla persecuzione degli ebrei e dall’asservimento delle coscienze fino alla dogmatizzazione di sé e alla resistenza all’evidenza scientifica: a tal punto che chi fa parte di questa storia non può che coprirsi il capo vergognosamente; infine non più stabilità, bensì l’accondiscendenza a tutte le correnti della storia, al colonialismo, al nazionalismo e persino il tentativo di adattarsi al marxismo e se possibile immedesimarsi ampiamente con esso…Se le cose stanno così, allora la Chiesa sembra essere non il segno che richiama alla fede, quanto piuttosto il principale impedimento ad accettarla.
La vera teologia sembra allora poter consistere nel togliere alla Chiesa i suoi predicati teologici, nel considerarla e trattarla un modo meramente politico. Non pare più essere essa stessa una realtà di fede, bensì una organizzazione dei credenti, molto più casuale anche se forse indispensabile, che si dovrebbe trasformare il più velocemente possibile secondo le più moderne conoscenze della sociologia.
La fiducia è bene, il controllo è meglio – questa è ora, dopo tutte le delusioni, la parola d’ordine rispetto al ministero ecclesiastico. Il principio sacramentale non appare più abbastanza chiaro, solo il controllo democratico sembra attendibile in fondo, persino lo Spirito Santo è forse inafferrabile.
Chi non evita di guardare al passato sa certamente che le vergogne della storia derivarono proprio dal fatto che si seguì questa strada: l’uomo prese il potere e questo portò a considerare le sue capacità come l’unica vera realtà.

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