Il dramma della non storicità del cristianesimo

IL CONSOLIDARSI QUASI COME UN DOGMA, NELLA ESEGESI PRATICA DEI VANGELI, DELLA FRATTURA TRA IL GESU’ STORICO E IL CRISTO DELLA FEDE
LE CONSEGUENZE NELLA TEOLOGIA SU DI ESSA FONDATA

Negli anni Sessanta e Settanta, tanto in campo protestante quanto in quello cattolico la frattura tra il Gesù storico e il Cristo della fede si consolidò quasi come un dogma, soprattutto nell’esercizio pratico della esegesi dei vangeli e, di conseguenza, nella teologia che su di essa era fondata. In sintesi, i vangeli rifletterebbero la fede della Chiesa, una fede post – pasquale in Gesù risorto. Ma il Gesù “pre – pasquale”, che non è passato attraverso la fede dei testimoni, era un altro.
Ratzinger, nella premessa a tutta l’opera di Gesù di Nazareth,descrive assai bene le conseguenze che questa posizione reca per il popolo cristiano nell’attuale secolarismo: “ Tutti questi tentativi (si riferisce alle ricostruzioni del Gesù storico realizzate nella ricerca scientifica a partire dagli anni
cinquanta) hanno comunque lasciato dietro di sé, come denominatore comune, l’impressione che noi sappiamo ben poco di certo su Gesù e che solo più tardi la fede nella sua divinità ha plasmato la sua immagine. Questa impressione, nel frattempo, è penetrata profondamente nella coscienza comune della cristianità. Una simile situazione è drammatica per la fede perché rende incerto il punto di riferimento: l’intima amicizia con Gesù, da cui tutto dipende, minaccia di annaspare nel vuoto” (vol. I, p. 8).
Infatti, afferma Ratzinger nella stessa premessa, “che significato può avere la fede in Gesù il Cristo, in Gesù Figlio del Dio vivente, se poi l’uomo Gesù era così diverso da come lo presentano  e da come, partendo dai Vangeli, lo annuncia la Chiesa?” (vol. I, p. 7).

LE CONSGUENZE DELLA FRATTURA SAPERE  (STORIA, REALTA’) - CREDERE NELLA TEOLOGIA SU DI ESSA FONDATA

Perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli” (Mt 16,17). Quando l’apostolo san Pietro confessa Gesù come Figlio di Dio, lo stesso Signore Gesù dichiara che questa verità non è stata indotta da una realtà umana, creata da Pietro, bensì rivelata dal Padre che sta nei cieli. Nelle sue parole si trova formulato teologicamente il carattere specifico e assoluto della rivelazione cristiana, dono gratuito che non si riduce alla sapienza di questo mondo (“la carne e il sangue”).

A) CONCEZIONE CATTOLICA DELLA RIVELAZIONE
Il concilio Vaticano II ha descritto la rivelazione di Dio in termini di avvenimento, di dialogo di amicizia: “Con questa rivelazione infatti Dio invisibile per la ricchezza del suo amore parla agli uomini come amici e si intrattiene con loro, per invitarli e ammetterli alla comunione con sé” (DV 2). Avendo deciso di rivelarsi, Dio ha parlato agli uomini e ha adottato il linguaggio umano dell’amicizia con una finalità  ben precisa: portare l’uomo alla comunione di vita con lui mediante la partecipazione alla sua natura divina. “Dio che abita una luce ‘inaccessibile’ (Tm 6,16), vuole comunicare la propria vita divina agli uomini da lui liberamente creati, per farne figli adottivi nel suo unico Figlio. Rivelando se stesso, Dio vuole rendere gli uomini capaci di rispondergli, di conoscerlo e di amarlo ben più di quanto sarebbero capaci da sé stessi” (CCC 52). Diversamente dall’Essere dei filosofi Gesù ci mostra che Dio agisce nella storia, entra nella nostra vita e ci vuole prendere per mano, senza costringerci per una risposta di amore: è il Dio vivente.
L’insegnamento conciliare ha posto in evidenza gli elementi specifici del compimento della rivelazione, intesa come manifestazione che Dio fa di se stesso all’uomo. E’ il risultato della libera e assoluta iniziativa di Dio. Il suo oggetto è Dio stesso e i propositi della sua volontà, vale a dire che Dio non ci fa semplicemente conoscere qualche cosa, bensì se stesso, come Dio vivente in Gesù Cristo, suo Figlio. La sua finalità è la comunione e la partecipazione di vita con il Padre, resa possibile mediante Gesù Cristo per opera dello Spirito Santo che ci fa figli nel Figlio. La pienezza della rivelazione avviene in Gesù Cristo, di modo che conoscere Cristo significa conoscere Dio: “Chi ha visto me ha visto il Padre” (Gv 14,9). Di conseguenza la concezione cattolica della rivelazione sottolinea tanto il suo carattere gratuito e radicalmente nuovo, quanto il suo carattere completo e definitivo (Eb 1,1-2). Dalla comprensione corretta della rivelazione del Figlio dipende tutto l’edificio della fede, ciò che viviamo e professiamo, celebriamo e preghiamo.
Risulta incompatibile con la fede della Chiesa considerare la rivelazione, secondo quanto sostengono alcuni autori, come una mera percezione soggettiva per la quale ci si rende conto del Dio che ci abita e che tende a manifestarsi a noi. Anche quando usano un linguaggio che apparentemente si avvicina a quello ecclesiale, si allontanano tuttavia dal sentire della Chiesa. E’ necessario riaffermare che la rivelazione presume una novità, un avvenimento che storicamente accade, perché fa parte del disegno di Dio che agisce nella storia, che entra nella nostra vita, che guarda i suoi figli di adozione. Per questo è sbagliato intendere la rivelazione come lo sviluppo immanente della religiosità dei popoli e considerare che tutte le religioni sono “rivelate” in conformità al grado di progresso raggiunto nella loro storia e, in questo senso vere e salvifiche. La Chiesa riconosce, per disposizione di Dio, quanto vi è di vero e di santo nelle religioni non cristiane. Riconosce inoltre “quando lo Spirito opera nel cuore degli uomini e nella storia dei popoli, nelle culture e religioni, assume un ruolo di preparazione evangelica” (RM 29), poiché la sua fonte ultima è Dio. Ne consegue che si possa legittimamente sostenere che, mediante gli elementi di verità e santità contenuti nelle altre religioni, lo Spirito Santo operi la salvezza nei non cristiani; questo non significa, tuttavia, che le altre religioni possano essere considerate, “come tali, vie di salvezza, anche perché in esse sono presenti lacune, insufficienze ed errori, che riguardano le verità fondamentali su Dio, l’uomo e il mondo” (Dottrina della fede 24/1/ 2001).
La dottrina cattolica sostiene che la rivelazione non può essere equiparata a quelle che alcuni chiamano “rivelazioni” di altre religioni. Tale equiparazione non tiene conto del fatto che “la profonda verità, sia su Dio sia sulla salvezza dell’uomo, per mezzo di questa rivelazione risplende a noi in Cristo, il quale nello stesso tempo è mediatore e la pienezza dell’intera rivelazione” (DV 2). Gesù Cristo, il Figlio eterno del Padre fatto uomo nel seno purissimo della vergine Maria per opera e grazia dello Spirito Santo, è la parola definitiva dell’umanità. In Cristo che unifica tutte le Scritture come un unico libro che lo preparano e lo memorizzano “si dà la piena e completa rivelazione del mistero salvifico di Dio” (DV 6). Pretendere che le “rivelazioni” di altre religioni siano equivalenti o complementari alla rivelazione di Gesù Cristo significa negare la verità stessa dell’incarnazione e della redenzione, poiché, come dice sant’Ireneo, egli è “colui che mediante il suo amore smisurato si fece quello che siamo noi per renderci perfetti con la sua perfezione”.

B) RISPOSTA ALLA RIVELAZIONE DIVINA
 La fede è la risposta adeguata alla rivelazione di Dio. Quando Dio si rivela gli dobbiamo l’obbedienza della fede, che è affidarsi pienamente a Dio e accogliere la sua verità, in quanto garantita da lui, che è la verità stessa. La fede è sempre un dono di Dio. L’uomo, per credere, ha bisogno della grazia di Dio e dell’ausilio interiore dello Spirito Santo, “il quale muova il cuore e lo rivolga a Dio, apra gli occhi della mente, e dia a tutti dolcezza nel sentire e nel credere alla verità. Affinché l’intelligenza della rivelazione diventi sempre più profonda, lo stesso Spirito Santo per mezzo dei suoi doni perfeziona continuamente la fede” (DV 5).
Tre aspetti dell’insegnamento conciliare meritano di essere sottolineati.
-         Primo, la fede va intesa come la dedizione di tutta la persona a Dio che si rivela e si comunica. E’ ascolto e obbedienza nella sua accezione originale e, per questo, sequela. Tramite l’obbedienza della fede, l’essere umano si abbandona, interamente e liberamente, a Dio prestandogli il pieno ossequio dell’intelletto e della volontà, e assentendo volontariamente alla rivelazione data da lui (DV 5). L’essere umano accoglie come verità ciò che Dio ha detto di sé, precisamente perché Dio lo ha testimoniato, non perché lo rivela la ragione. L’aspetto dottrinale della fede – l’insieme delle verità della fede (Compendio) che raccolgono la testimonianza di Dio – deve essere compreso personalmente: la libera dedizione di tutta la persona a Dio che si rivela permette di accogliere la testimonianza divina. Se si dimentica questo secondo aspetto, non si comprendono le ripercussioni morali dell’atto di fede.
-         Secondo, l’adesione a Dio, che è la fede, ha la sua origine, il suo mezzo e il suo fine in Dio. La sua origine in Dio, perché Dio prende l’iniziativa. Molte volte e in diversi modi aveva parlato nei tempi antichi (Eb 1,1), ma in Gesù Cristo, suo figlio incarnato, abbiamo la sua parola definitiva (Gv 1,14-16) attraverso cui comprendere, come un unico libro tutte le Scritture. Il suo mezzo, perché la grazia divina mette in esercizio la libertà umana e illumina la ragione affinché possa riconoscere la presenza del Signore, rendendo possibile, inoltre il primo gesto di apertura e accoglienza proprio della semplicità di cuore (Mt 11,25), il suo fine, perché il movimento della fede tende a Dio.
-         Terzo, la comprensione della rivelazione è un dono dello Spirito Santo che, con i suoi doni, va continuamente perfezionando la fede. Senza la vita dello Spirito, la fede non si perfeziona e la rivelazione finisce col non essere compresa.
Vivere secondo la fede significa necessariamente professare in modo completo e integrale il messaggio di Gesù Cristo, poiché una “selezione” dei diversi aspetti del suo insegnamento vale a dire accettarne alcuni e rifiutarne altri, non risponderebbe alla verità della rivelazione del Padre, bensì alla “carne e al sangue” (Mt 16,17), “perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini” (Mc 8,33). E’ di vitale importanza mantenere integro il deposito della fede, così come Cristo lo ha affidato alla Chiesa. Così fu affermato fin dai primordi della Chiesa. Dalla negazione di un aspetto nella professione di fede si passa alla perdita totale della fede stessa, in quanto selezionando alcuni aspetti e rifiutandone altri non si rispetta la testimonianza di Dio ma le ragioni umane. Quando si altera la professione di fede tutta la vita del cristiano ne risulta compromessa.

C) L’INTELLIGENZA E IL LINGUAGGIO DELLA FEDE
La rivelazione di Dio al popolo eletto, con il quale ha stabilito l’alleanza, non è riducibile all’esperienza religiosa soggettiva; in egual modo, la rivelazione definitiva in Cristo si è realizzata “con eventi e parole tra loro intimamente connessi” (DV 2). Conseguentemente, non si può affermare che il linguaggio relativo a Dio sia puramente “simbolico, strutturalmente poetico, immaginativo e figurativo, che esprimerebbe e produrrebbe una determinata esperienza di Dio” (CF 13-12-2004) senza tuttavia comunicarci chi è Dio. Occorre invece sostenere che la fede si esprime mediante affermazioni che usano un linguaggio vero, non semplicemente approssimativo, benché analogico.
Nella storia non sono mancati coloro che hanno seminato dubbi in relazione alla rivelazione di chi è Dio e di chi è l’uomo e all’intelligenza della fede. Alcuni riconoscono certamente che Dio si è rivelato all’uomo, ma a questi si nega la capacità concreta di accogliere la rivelazione. Altri invocano la sproporzione di accogliere la rivelazione. Altri ancora affermano che, dato il carattere contingente, finito, limitato dell’essere umano, si può accogliere la parola di Dio solo in modo frammentario, parziale e riduttivo. Una rivelazione divina considerata definitiva e piena entrerebbe così in conflitto con la stessa condizione storica dell’essere umano. E quand’anche la rivelazione potesse essere accolta, si dice, non potrà, tuttavia, essere espressa in enunciati concreti, che debbano essere considerati delle verità. Se questo fosse vero, al rivelazione cristiana dovrebbe stare alla pari delle “rivelazioni” presenti in altre religioni o anche nell’ordine stesso della creazione. Il concetto e il linguaggio umano di fronte alla realtà divina ultimamente insondabile e ineffabile è certamente limitato e parziale., però non di deve dimenticare che le parole e le opere di Gesù, seppure circoscritte in quanto realtà umane che rimandano al divino, al Mistero, hanno come fonte la persona divina del Verbo incarnato, vero Dio e vero uomo, e per questo presentano un carattere definitivo e pieno. La verità su Dio non viene abolita e ridotta perché è detta in linguaggio umano. Essa invece, resta unica, piena e completa perché chi parla e agisce è il Figlio di Dio incarnato.
La conoscenza della fede ha il suo punto di partenza nella testimonianza personale di Dio che si rivela. La fede ci giunge attraverso l’udito, mediante l’ascolto della parola di Dio che illumina interiormente e interpella la ragione (Rm 14-17), strumento dato da Dio per cogliere la verità, rendendola capace di comprendere , in qualche modo, ciò che giunge a credere. Ora, la stessa fede che accoglie la verità rivelata (auditus fidei) suscita il desiderio di progredire nella sua intelligenza (intellectus fidei). La fede, in effetti, cerca l’intelligenza. La verità rivelata, pur trascendendo la ragione umana, è in armonia con essa. La ragione, essendo orientata alla verità, con la luce della fede è in grado di penetrare il significato della rivelazione. Contro l’opinione di alcune correnti filosofiche molto diffuse tra di noi, dobbiamo riconoscere che  la ragione umana ha la capacità di raggiungere la verità, come pure la capacità metafisica di conoscere Dio a partire dal creato. In un mondo che spesso ha perso la speranza di poter cercare e trovare la verità cioè il bene, Dio, il messaggio di Cristo ricorda la possibilità a disposizione della ragione umana. In tempi di grave crisi per la ragione, la fede viene in suo aiuto e si fa suo avvocato.
La mediazione attraverso una riflessione genuinamente filosofica aiuta la teologia nel dialogo autentico con la cultura di ogni tempo e di ogni luogo. E’ necessario tener conto “della filosofia e della sapienza dei popoli”, la scambio fecondo tra le culture non deve portare al relativismo né alla negazione del valore universale del patrimonio filosofico assunto dalla Chiesa. La filosofia consente di discernere tra le semplici opinioni e la verità obiettiva. La cultura non può mai essere un criterio assoluto di giudizio in relazione alla rivelazione divina. E’ piuttosto la fede che giudica la cultura ed è il Vangelo che conduce le culture alla piena verità. Analogamente, non tutta la riflessione filosofica, è compatibile con al rivelazione, tanto meno è valido assumere acriticamente i principi della cultura imperante per attualizzare il sempre nuovo messaggio evangelico.
Il magistero della Chiesa ci dà la garanzia di spiegare correttamente la rivelazione di Dio. Dal momento che l’alleanza instaurata da Dio in Cristo ha un carattere definitivo, occorre che sia salvaguardata da deviazioni e falli che possono corromperla. Per assicurare il suo permanere nella verità, Cristo ha dotato la  Chiesa, e specialmente i pastori, del carisma dell’infallibilità, che si esercita in diversi modi.
Suscitare dubbi e diffidenze nei confronti del magistero della Chiesa, anteporre l’autorità di determinati autori a quella del magistero o considerare le indicazioni e i documenti magisteriali semplicemente come un “limite” che ostacola il progresso della teologia e che si deve  “rispettare” per motivi esterni alla teologia stessa, è all’opposto della dinamica della fede cristiana.

D) RIVELAZIONE ED ESEGEIS BIBLICA
Una concezione erronea della rivelazione è necessariamente esposta a un’interpretazione ugualmente errata della sacra Scrittura. La costituzione conciliare “Dei Verbuminsegna che la Scrittura è parola di Dio e che, nella composizione dei libri sacri, lo Spirito Santo ha ispirato gli autori umani a scrivere la verità che lo Spirito voleva insegnarci in ordine alla nostra salvezza. Conseguentemente, essendo un fatto avvenuto storicamente senza una diretta dettatura di Dio, occorre studiare il modo di composizione dei libri, l’intenzione degli autori e molti altri elementi letterari e storico – critici. I contributi dell’esegesi, a questo proposito, sono stati e sono di grande arricchimento ma, al tempo stesso, non dobbiamo dimenticare che, in quanto Parola ispirata, la sacra Scrittura deve “essere letta e interpretata con lo stesso Spirito con il quale fu scritta, per scoprire con esattezza il senso dei sacri testi, si deve badare con non minore diligenza al contenuto e all’unità di tutta la Scrittura, tenendo debitamente conto della viva tradizione di tutta la Chiesa e dell’analogia della fede” (DV 12). Oggi c’è una grossa questione per la fedeltà a questa direttiva conciliare: come unire in modo equilibrato i due principi metodologici dell’esegesi presentati dalla costituzione dogmatica Dei Verbum al n. 12: un’esegesi storica e la contempo teologica. Il concilio Vaticano II non ha certo creato questo stato di cose, ma non è stato nemmeno in grado di impedirlo. La Costituzione dogmatica sulla Divina Rivelazione ha cercato di stabilire un equilibrio tra i due aspetti dell’interpretazione, l’”analisi” storica e la “comprensione” d’insieme. Urge, ormai, sviluppare una esegesi non solo storica, ma anche teologica, come si afferma nella Verbum Domini (n.4), il più importante documento magisteriale sulla Bibbia dopo la Costituzione Dei Verbum
Purtroppo spesso i testi biblici si studiano e soprattutto si interpretano, con una filosofia secolaristica, come se si trattasse di semplici testi dell’antichità. Se applicano, inoltre, metodi che escludono sistematicamente la possibilità stessa della rivelazione, del miracolo e dell’intervento storico di Dio, considerato teisticamente come un orologiaio che creato il mondo non c’entra più: tutto è lasciato alla scienza e alla tecnica. Invece di integrare i contributi della storia, della filologia e di altri strumenti scientifici con la visione d’insieme, di fede e tradizione, che fa delle scritture la Scrittura con al centro Gesù Cristo, Parola fatta carne, si presenta come problematica proprio l’interpretazione ecclesiale e la si considera, non per motivi storici ma filosofici, estranea, quando non opposta, alla cosi detta “esegesi scientifica”. La tendenza a prescindere dall’ispirazione e dal canone della sacra Scrittura, come se si trattasse di principi irrilevanti per l’autentica comprensione del testo ispirato, continua a costituire una drammatica preoccupazione per la ragionevolezza dell’immagine di Gesù trasmessa dai Vangeli cioè di quella Presenza che è all’opera tra noi anche oggi e sempre. La questione non si radica tanto nell’utilizzo delle risorse della filologia e di tutti i dati che la ricerca ci offre, quanto in quei presupposti filosofici e ideologici dei metodi che risultano incompatibili con la confessione di Cristo, centro delle Scritture. Tali metodi sono molto utili e necessari nel loro ambito di applicazione, ma non possono avere, per loro stessa natura, l’ultima parola nella comprensione del testo biblico il cui elemento determinante è l’ispirazione cioè la fede. Sarebbe pressappoco come cercare di comprendere la persona e l’identità di Cristo prescindendo dalla sua natura divina, e per di più, presentare tale comprensione non sacramentale,  non metafisica come una conclusione “scientifica” per un modo ridotto di usare la ragione. La conseguenza di una esegesi erronea è che la Scrittura non è più, come deve essere sempre, “l’anima della teologia” (DV 24), e non può rappresentare il fondamento né per la catechesi, né per la liturgia, né per la predicazione, né per la vita morale, né per la devozione dei fedeli. E questo stato di cose è drammatico per la fede di tutti.
Perché la Sacra Scrittura insegna la verità? Perché è Dio stesso l’autore non attraverso la dettatura ma attraverso l’ispirazione divino – umana: essa è perciò ispirata e insegna senza errore quelle verità, che sono necessarie alla nostra salvezza. Lo Spirito Santo ha infatti ispirato gli autori umani, i quali hanno scritto ciò che Egli voleva insegnarci e lo ha fatto passando attraverso la loro libertà perché Dio, che è amore, non costringe mai. La fede cristiana, tuttavia, non è “una religione del libro”, ma della Parola di Dio attraverso un Popolo: non è “una parola scritta e muta”, ma il Verbo incarnato e vivente che come ha parlato allora parla qui e ora attraverso la Chiesa.

E) RIVELAIZONE E PREGHIERA CRISTIANA
Lo stesso Gesù Cristo che ci rivela il volto del Padre (Gv 14,9) è colui che ci insegna a rivolgerci a lui con la preghiera  del Padre nostro. Noi, incorporati a Cristo mediante il battesimo, abbiamo ricevuto il suo stesso Spirito che ci fa gridare “Abbà, Padre!” (Rm 8,15). L’aspirazione del cuore umano che cerca Dio, pur senza saperlo esplicitamente, è stata realizzata da colui che si è fatto e, risorto, sempre presente, si fa nostro compagno di strada (Lc 24,15), trasmettendoci la sua stessa vita divina. “La preghiera cristiana è relazione personale e viva dei figli di Dio con il loro Padre infinitamente buono, con il Figlio suo Gesù Cristo e con lo Spirito Santo che abita nel loro cuore” (Compendio del CCC, n. 534).
Il cristiano sa che Dio “chiama incessantemente ogni persona al misterioso incontro della preghiera” (CCC, n. 2567). Se Dio vivo, cioè non staccato da ogni uomo e dalla storia, e vero può essere conosciuto soltanto se egli stesso prende l’iniziativa di rivelarsi, la preghiera risulta assolutamente necessaria, perché mette l’uomo nello stato d’animo di ricevere il dono della rivelazione. Quando quest’ultima viene svuotata del suo contenuto trinitario ed equiparata alle “rivelazioni” di altre religioni, la preghiera si priva della presenza di Cristo e, di conseguenza, non è più una preghiera cristiana. Constatiamo con preoccupazione come in tanta confusione rispetto al mistero di Cristo e alla concezione cattolica della rivelazione abbia indotto alcuni cristiani a sminuire il valore della preghiera, in cui i “metodi” si confondo con i contenuti, a prendere distanza dalla preghiera pubblica della Chiesa e a mettere in discussione il rapporto tra ciò che si crede (lex credendi) e ciò che si prega (lex orandi). Le comunità cristiane sono chiamate ad essere scuole di preghiera, in cui la fame di spiritualità vera trovi un orientamento adeguato.

GESU’ CRISTO, IL FIGLIO DEL DIO VIVENTE CIOE’ DIO TRA NOI,
QUELLA PRESENZA CHE è ALL’OPERA TRA NOI, OGGI

 “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16,16). Dalla professione di fede nella persona di Gesù Cristo deriva la verità di ogni uomo, della storia e deL mondo. La vita cristiana, l’incorporazione alla Chiesa, l’impegno per la trasformazione del mondo mediante la promozione della giustizia e della solidarietà, la speranza futura sono inseparabili dal modo in cui si intende e si vive Gesù Cristo, quella Presenza che opera oggi tra noi. E’ necessario, allora, che il mistero del Figlio di Dio che possiede un volto umano e il mistero della santissima Trinità, che fanno parte delle verità principali della rivelazione, illuminino con la purezza della loro verità la vita dei cristiani. La Chiesa è consapevole del fatto che il primo servizio che può e deve prestare a ciascuna persona, e a tutta l’umanità, che è la ragione del suo esistere, consiste nell’annunciare Gesù Cristo, quella Presenza sacramentale che parla attraverso la Scrittura e si dona personalmente oggi nei Sacramenti, rendere possibile l’incontro con Lui che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva. Per questo, il modo in cui la persona e il mistero di Cristo sono compresi,celebrati, vissuti, pregati, presentati è tutt’altro che indifferente.

a)      CRISTOLOGIA E SOTERIOLOGIA
Nel tempo stabilito da Dio, il Figlio unigenito del Padre (…) si è incarnato: senza perdere la natura divina, ha assunto la natura umana” (CCC n. 479), di modo che “la nostra debolezza è assunta dal Verbo, l’uomo mortale è innalzato a dignità perenne e noi, uniti a te in comunione mirabile, condividiamo la tua vita immortale”(Prefazio di Natale).”L’incarnazione è quindi il mistero dell’ammirabile unione della natura divina e della natura umana nell’unica persona del Verbo” (CCC n. 483) Gesù Cristo, persona divina, essendo vero Dio e vero uomo, è l’unico mediatore tra Dio e gli uomini. Proclamare al mondo che Gesù Cristo, il Figlio del Dio vivente, è morto e risuscitato, “per noi uomini e per la nostra salvezza”, costituisce la buona novella che la Chiesa, fin dalle origini, ha voluto ardentemente annunciare come diritto che ogni uomo attende. La predicazione apostolica ha sempre mantenuta unita la verità sulla persona di Cristo – oggetto della “cristologia” – alla verità sull’azione redentrice – oggetto della “soteriologia”.
La riflessione teologica su Gesù Cristo, seguendo gli orientamenti del concilio Vaticano II (OT n. 16), si è vista arricchita dagli studi biblici, patristici e storici che hanno contribuito ad approfondire, sempre più, il deposito ricevuto dagli apostoli e custodito dal magistero autentico della Chiesa. Nulla ha determinato tanto la trasmissione della fede negli ultimi decenni quanto il modo in cui sono stati presentati la persona e il mistero di Cristo. Nessuno nega che la recente ricerca su Gesù Cristo, realizzata da prospettive differenti, abbia influito in modo chiaro e decisivo sulla catechesi, sulla predicazione e sull’insegnamento religioso nelle scuole.
Tuttavia non sempre sono stati mantenuti integri gli elementi essenziali della fede della Chiesa sulla persona e sul messaggio di Gesù Cristo. Fraintendimenti nell’impostazione metodologica hanno indotto ad alterare la fede e il linguaggio con cui la fede si esprime. In molte occasioni si è abusato del metodo storico critico senza percepirne i limiti e si è giunti a ritenere che la preesistenza della persona divina di Cristo sia una mera deformazione filosofica del dato biblico. Quando questo si è verificato, perdendo i tratti inconfondibili di quella Presenza nei Vangeli canonici, la Chiesa non ha smesso di professare, celebrare, vivere, pregare la vera fede, riaffermando la validità del linguaggio con cui proclama che “Gesù Cristo ha due nature, la divina e l’umana, non confuse, ma unite nell’unica Persona del Figlio di Dio” (CCC n. 481). Frequentemente, l’abbandono di questo linguaggio della fede cristologica è stato causa di confusione e occasione per cadere in errore. Analogamente, la missione di Cristo è stata intesa come un vento meramente terreno, quando non politico – rivoluzionario, negando così la sua volontà di sacrificio vicario cioè di morire sulla croce per gli uomini. La Chiesa ha ribadito che è stato lo stesso Cristo che ha liberamente, cioè per amore, accettato la sua passione e morte per la salvezza dell’umanità (CCC nn. 599-717).

b)      TUTTA LA VITA DI CRISTO E’ MISTERO
Tutta la vita di Cristo è evento di rivelazione. Ciò che è visibile nella vita terrena di Gesù conduce al suo mistero invisibile” (Compendio del CCC n. 101). Le parole, i miracoli, le azioni, l’intera vita di Gesù Cristo è rivelazione della sua filiazione divina e della sua missione redentrice. Gli evangelisti, avendo conosciuto mediante la fede chi è Gesù, hanno indicato in tutta la sua vita terrena i tratti caratteristici del suo mistero cioè di Dio che possiede un volto umano. La rivelazione dei misteri della vita di Cristo, accolta nella fede, ci apre alla conoscenza di Dio, dei suoi attributi e alla partecipazione della sua stessa vita trinitaria come figli nel Figlio per opera dello Spirito santo, partecipi del suo  amore trinitario. Nella fede celebrata, nella liturgia trinitaria, culmine e fonte della vita della Chiesa, in quanto “esercizio della missione sacerdotale di Gesù Cristo” (SC n. 7), la Chiesa celebra ciò che professa la nostra fede, affinché possiamo entrare in comunione vera con i misteri di Cristo cioè con quella Presenza che è all’opera, oggi. “Tutto ciò che Cristo ha vissuto (cioè i tratti inconfondibili che troviamo nei Vangeli canonici), egli fa sì che noi possiamo viverlo in Lui e che egli lo viva in noi” (CCC n. 521). Una cristologia profonda dimostrerà la continuità fra la figura storica di Gesù Cristo, la professione di fede ecclesiale e la comunione liturgica e sacramentale nei misteri di Cristo (CCC nn.519-521).
Constatiamo con dolore come in alcuni scritti di cristologia non si dimostri tale continuità, dando luogo a presentazioni incomplete, quando non deformate, del mistero di Cristo. In alcune opere cristologiche si avvertono le seguenti mancanze:
        1. una metodologia teologica errata, in quanto si pretende di leggere la sacra Scrittura a margine della tradizione ecclesiale e con criteri unicamente storico critici, senza spiegare i presupposti di tali criteri né indicarne i limiti;
        2. il sospetto che l’umanità di Gesù Cristo sia minacciata se si afferma la sua divinità;
        3. la rottura tra il “Gesù storico” e il “Cristo della fede”, come se quest’ultimo fosse il risultato di differenti esperienze della figura di Gesù, dagli apostoli fino ai nostri giorni. Si dà l’impressione che solo più tardi la fede nella sua divinità abbia plasmato la sua immagine. Una simile situazione, profondamente penetrata nella coscienza comune della cristianità, è drammatica per la fede perché rende incerto il suo autentico punto di riferimento: l’intima amicizia con Gesù, da cui tutto dipende, minaccia di annaspare nel vuoto.
        4. la negazione del carattere reale, storico e trascendente della risurrezione di Cristo, ridotta a una mera esperienza soggettiva degli apostoli, creata dalla loro fede e non semplicemente testimoniata.
        5. l’oscuramento di nozioni fondamentali della professione di fede nel mistero di Cristo quali, tra le altre, la sua preesistenza, al filiazione divina, la coscienza di sé, della sua morte e della sua missione redentrice, vicaria, della risurrezione, dell’ascensione, della glorificazione e di quella  Presenza che con il dono del Suo Spirito che procede dal Padre, opera tra noi con i tratti inconfondibili memorizzati da vangeli canonici, oggi.
Alla radice di queste teorie si trova spesso, da decenni, una rottura tra la storicità di Gesù e la professione di fede della Chiesa, la drammatica frattura fra sapere e credere nel cuore stesso della fede cioè nella persona di Gesù: si considerano scarsi i dati storici degli evangelisti su Gesù Cristo. Da questa prospettiva, i Vangeli canonici sono studiati esclusivamente come testimonianza di fede in Gesù, che non direbbero nulla o molto poco su Gesù stesso e che necessiterebbero pertanto di essere reinterpretati. Inoltre, questa interpretazione solo storico critica e non teologica, prescinde dalla tradizione dogmatica della Chiesa e la emargina. Questo modo di procedere porta conseguenze difficilmente compatibili con la fede, quali:
-         1. svuotare di contenuto ontologico – dogmatico la filiazione divina di Gesù Cristo;
-         2. negare che nei Vangeli canonici si affermi la preesistenza del Figlio;
-         3. e considerare che Gesù non ha vissuto la sua passione e morte come sofferenza vicaria, redentrice, ma come fallimento.
Questi errori sono drammaticamente fonte di grave confusione, perché inducono non pochi cristiani a concludere, equivocando, che gli insegnamenti della Chiesa su Gesù Cristo non si fondano sulla sacra Scrittura oppure che devono essere radicalmente reinterpretati.
La comprensione errata dell’umanità di Dio che possiede un volto umano, accompagnata da una metodologia teologica discutibile, procede in parallelo con gli errori sulla Vergine Maria: negazione dell’insegnamento della Chiesa sul concepimento verginale di Gesù. C’è anche un abbandono progressivo della dimensione mariana, propria di un’autentica spiritualità cattolica, e della rottura tra la fede celebrata, pregata e la fede professata.

c)      GESU’ CRISTO, L’UNICO SALVATORE DI TUTTI GLI UOMINI
L’affermazione del carattere unico e universale della mediazione salvifica di Cristo è parte centrale della buona novella che la Chiesa proclama ininterrottamente alla libertà di tutti fin dall’epoca apostolica: “Questo Gesù è la pietra che, scartata da voi, costruttori, è diventata testa d’angolo. In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiate essere salvati” (At 4, 11- 12). La verità sulla persona di Cristo, costituito da Dio “giudice dei vivi e dei morti” (At 10, 42), è inseparabile dalla verità sulla sua missione redentrice, di modo che “chiunque crede in lui ottiene la remissione dei peccati per mezzo del suo nome” (At 10,43). “Deve essere, quindi fermamente creduto come verità di fede cattolica che la volontà salvifica universale di Dio uno e trino è offerta e compiuta una volta per sempre nel mistero della incarnazione, morte e risurrezione del Figlio di Dio” (CF). L’assoluta certezza rispetto a questa verità di fede ha motivato i cristiani di ogni tempo ad annunciare, con parole e fatti, che Gesù Cristo “è il Signore di tutti” (At 10,36), quella Presenza che parla attraverso la Scrittura e si dona in persona nei Sacramenti, oggi per tutti e per tutto.
In stretta relazione con il significato della rivelazione, il dibattito cristologico contemporaneo si è incentrato sulle cosi dette teologie del pluralismo religioso, che presentano la figura di Gesù Cristo a partire da presupposti relativisti, sulla base sia della convinzione che la verità divina sia inaccessibile alla ragione, sia di una mentalità simbolica di origine orientale. La conseguenza di tali presupposti è stata il rifiuto sostanziale dell’identificazione della figura storica individuale di Gesù Cristo con la realtà stessa del Figlio di Dio. L’assoluto – si afferma – non può rivelarsi nella storia in forma piena e definitiva: il maximum concretum come Nicolò Cusano qualifica  Gesù Cristo via, Verità, Vita. Tutt’al più nella storia si trovano modelli, figure ideali che starebbero ad indicare il totalmente altro. Alcune ipotesi teologiche affermano che Gesù Cristo è vero Dio e vero uomo, ma ritengono che, a causa della natura umana di Gesù, la rivelazione di Dio in lui non possa essere considerata completa e definitiva. Si dovrà, pertanto, considerarla in relazione ad altre possibili “rivelazioni” di Dio, espresse mediante le guide religiose dell’umanità e i fondatori delle religioni nel mondo. Quando si afferma, erroneamente, che Gesù Cristo non costituisce la pienezza della rivelazione di Dio lo si mette alla pari degli altri massimi esponenti religiosi. Ne consegue l’idea, ugualmente erronea, e che semina insicurezza e dubbio, che le religioni mondiali, in quanto tali, sono vie di salvezza complementari al cristianesimo.
La riflessione cristologica deve salvaguardare, argomentare e giustificare, da un lato, il carattere realmente storico e concreto dell’incarnazione di Cristo e, dall’altro, il carattere definitivo e pieno della sua esistenza storica in relazione alla storia e alla salvezza di tutti gli uomini. Affermare che Gesù è il Verbo di Dio, Dio che possiede un volto umano che ci ha amato sino alla fine ciascuno individualmente e l’umanità collettivamente, quella Presenza che parla a tutti attraverso la Scrittura e si dona in persona a tutti nei Sacramenti della Chiesa  per rincontrarlo, significa:
-         1. che egli è Dio, la verità ultima e definitiva;
-         2. che egli svela chi è ogni uomo che Dio ama, in quanto ci rivela la relazione necessaria, misericordiosa e appropriata con Dio che è amore;
-         Che egli è la verità assoluta della storia e della creazione: la risurrezione è la più grande “mutazione” di Dio creatore e redentore mai accaduta, il “salto” decisivo verso una dimensione di vita profondamente nuova, l’ingresso in un ordine decisamente diverso, che riguarda anzitutto Gesù di Nazareth, ma con Lui anche noi, tutta la famiglia umana, la storia e l’intero universo.
Per questo, nell’incontro con Cristo che dà alla vita un nuovo orizzonte e la direzione decisiva, l’essere umano può riconoscere veramente se stesso, da dove viene a che cosa è destinato eternamente in anima e corpo, chi lo libera dal male e dalla morte. Con l’incarnazione non solo non diminuisce la divinità che è amore, ma si accresce anche l’umanità.

d)      CRISTOLOGIA E CATECHESI
Cristo si trova al centro della catechesi. Il fine della catechesi è quello di condurre alla comunione con Gesù Cristo, attraverso una istruzione organica e completa in cui progressivamente si arriva a svelare nella persona di Cristo l’intero disegno di Dio. La gioia di Gesù, il suo magnificat danzante, che rende grazie al Padre per aver “tenute nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti” e averle “rivelate ai piccoli” (Mt 11,25) si estende a tutti coloro che partecipano alla missione salvifica di trasmettere, attraverso il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, attraverso lo JuCat  la certezza della fede completa della Chiesa! La chiarezza e la bellezza della fede cattolica sono ciò che rendono luminosa la vita dell’uomo anche oggi! Questo in particolare se viene presentata da testimoni entusiasti ed entusiasmanti! Questa gioia viene inibita quando determinate forme di catechesi, anziché favorire l’incontro con Gesù Cristo che dà un nuovo orizzonte alla vita e la direzione decisiva verso il futuro, lo ritardano o addirittura non lo rendono attraente, come capita con quei ragazzi che vanno al catechismo durante la settimana e non alla Messa alla Domenica.
Ridurre Cristo a un ricordo storico da imitare senza quella Presenza che posso incontrare e che opera oggi per ciascuno e l’umanità nel suo insieme, come pure determinate teorie erronee sul mistero di Cristo cioè su Dio che possiede un volto umano, teorie passate dagli ambienti accademici ad altri più popolari, alla catechesi e all’insegnamento scolastico, sono motivo di grande tristezza. In tali teorie non si fa riferimento alla divinità di Gesù Cristo, alla sua Presenza oggi attraverso al Scrittura ei i Sacramenti o la si considera espressione di un linguaggio poetico privo di contenuto reale, negando, di conseguenza, la sua preesistenza, la sua filiazione divina, trinitaria e la sua continua Presenza. La morte di Cristo viene così spogliata del carattere vicario della sua sofferenza per me, per noi, e considerata come il risultato di uno scontro con la religione e i potenti del suo tempo. Cristo è considerato prevalentemente dal punto di vista etico e della dinamica della trasformazione della società: secondo questa prospettiva egli sarebbe semplicemente l’uomo del popolo che si schiera dalla parte degli oppressi e degli emarginati al servizio della libertà, senza alcuna prospettiva eterna di vita e di futuro.
La conseguenza di tali ipotesi, contrarie alla fede della Chiesa, è la dissoluzione del soggetto sociale cristiano e quindi della sua Dottrina sociale. La riflessione, che dovrebbe contribuire a rendere ragione della speranza anche oggi (1 Pt 3,15) si allontana dalla fede ricevuta, celebrata, vissuta insieme, pregata. L’insegnamento della Chiesa proposto dal compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, dallo JuCat, e l’ascolto della Sua Presenza attraverso la Scrittura e il suo farsi dono nei Sacramenti, l’Eucaristia della Domenica in particolare, si considerano distanti dalla volontà di Cristo, quando non opposti ad essa. Il cristianesimo e la Chiesa appaiono come inseparabili. Secondo gli scritti di alcuni autori, non era intenzione di Gesù Cristo fondare né la Chiesa, corpo visibile di Lui risorto invisibile, né tanto meno una religione, bensì liberare l’uomo dalla religione e da tutti i poteri costituiti. Consapevoli della gravità e drammaticità di queste affermazioni e del danno che causano al popolo tramite i mezzi della comunicazione sociale occorre ripetere le parole della Lettera agli Ebrei: “Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre! Non lasciatevi sviare da dottrine diverse e peregrine, perché è  bene che il cuore venga rinsaldato dalla grazia, non da cibi che non hanno mai recato giovamento a  coloro che ne usarono” (Eb 13,8-9).



LA CHIESA
SACRAMENTO DI CRISTO, DI QUELLA PRESENZA ALL’OPERA TRA NOI, OGGI

“Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa” (Mt 16,18). La confessione di Gesù come il Figlio del Dio vivente cioè dell’Essere ricercato dai filosofi, l’unico Dio ma non inaccessibile per cui sarebbe inutile la preghiera come dicono Aristotele e Platone, ma vivente perché in rapporto d’amore con ogni uomo, che entra nella nostra storia, dà vita a una storia d’amore con Israele, suo popolo come luce per tutti i popoli, e poi in Gesù Cristo si lascia uccidere per rialzare ogni uomo dal cattivo uso della libertà e risorto è la Presenza di Dio che opera tra noi, oggi, da incontrare nella Chiesa e attraverso la Chiesa,   lasciarsi assimilare a Lui nel nuovo orizzonte di figli nel Figlio di Dio che è Padre per opera dello Spirito Santo, quindi fratelli, liberi, uguali. Ecco perché la stessa Chiesa è “colonna e sostegno della verità” (1 Tm 3, 15). La verità che ci rende liberi dalla schiavitù dell’ignoranza nel non sapere da dove veniamo e a che cosa siamo destinati (Gv 8,32) è un dono dello Spirito datoci mediante l’incontro  con Gesù Cristo risuscitato ed è intimamente unita alla salvezza (1 Tm 2,4), così che la Chiesa realizza la sua missione, la sua ragione d’essere annunciando quella Presenza del Dio vivente che è all’opera tra noi, oggi come “la via, la Verità e la Vita” (Gv 14,6).

a)      CRISTO E LA CHIESA: IL “CRISTO TOTALE”
 “La Chiesa è in Cristo come sacramento, cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’umanità di tutto il genere umano” (CCC, nn. 774-775). L’essenza più profonda della Chiesa consiste nel suo intimo legame con il mistero salvifico di Cristo, che l’ha istituita come “strumento di redenzione per tutti” (LG 9) e “sacramento universale di salvezza” (LG 48) al fine di realizzare e manifestare per mezzo di essa il mistero cioè la realtà divino – umana dell’amore di Dio per ogni uomo (LG 45). Cristo e la Chiesa, senza confondersi ma anche senza separarsi, costituiscono il Cristo totale (Christus totus), la realtà storica cioè la verità concreta. Ecco perché esiste una profonda correlazione tra il mistero dell’Incarnazione e il mistero della Chiesa del Verbo incarnato. In che senso va intesa tale correlazione? Il concilio Vaticano II risponde: “Come la natura assunta serve al Verbo divino da vivo organo di salvezza, a Lui indissolubilmente unito, così in modo non dissimile l’organismo sociale della Chiesa serve allo Spirito di Cristo che lo vivifica, per la crescita del Corpo” (LG 8,1). Questa profonda visione ci difende da un duplice errore e ci mostra la verità della Chiesa. Non deve essere né identificata né separata dal Signore, ma unita a Lui capo che, in essa è unito alle sue membra e attraverso essa porta ogni uomo all’incontro con Lui: né identica, né separata, ma unita nella distinzione. Proprio come lo sono due sposi (Ef 5,25 – 31): complementari nella loro diversità. Ma come questa Presenza che opera noi qui e ora è presente? Quando parliamo di mistero della Chiesa, popolo – sposa di Cristo parliamo di ogni Chiesa particolare, unita nella persona del Vescovo, membro del Collegio episcopale presieduto dalla autorità del Vescovo di Roma; parliamo di questa Chiesa che si incontra nell’ultima localizzazione delle parrocchie, delle famiglie e della comunità ecclesiali di associazioni e movimenti ecclesiali.
L’unica Chiesa di Cristo, “costituita e organizzata in questo mondo come società, sussiste nella Chiesa cattolica, governata dal successore di Pietro e dai Vescovi che sono in comunione con lui” (LG 8). L’insegnamento del concilio Vaticano II ha evidenziato tanto la continuità esistente tra la Chiesa di Cristo e la Chiesa cattolica quanto gli elementi distintivi della Chiesa di Cristo presenti in altre Chiese e comunità ecclesiali che, per la loro stessa natura, tendono alla comunione piena .
“Il Signore Gesù infatti diede inizio alla sua Chiesa predicando il buon annuncio, cioè la venuta del regno di Dio promesso da secoli nelle Scritture” (LG 5). Lo stretto legame tra il regno di Dio e la Chiesa si illumina a partire dall’unità esistente tra le parole e le opere di Cristo nella fase terrena e il suo compimento pasquale. Accogliere il Regno significa per i Vangeli, fin dal principio, accogliere e seguire Gesù Cristo. La partecipazione al Regno, oltre la Pasqua, realizza la sua forma definitiva nella comunione piena con il Signore risorto, mediante il dono del suo Spirito. Ogni uomo è chiamato a partecipare, per strade che solo Dio conosce, a questa pasqua del Signore (GS 22), entrando così nel Regno. Ne consegue che non si può legittimamente separare il regno di Dio dalla figura storica di Gesù Cristo, morto e risuscitato e quindi dal Padre. Tantomeno è legittimo annullare il significato della Chiesa come vero sacramento della comunione in Cristo. E benché la realizzazione del disegno divino di salvezza possa avvenire fuori dai limiti visibili della Chiesa, non è corretto separare la nozione di Regno di Dio dalla realtà della Chiesa.
Il Sinodo straordinario dei Vescovi dell’anno 1985, convocato in occasione del ventennale della chiusura del concilio Vaticano II, ha messo in evidenza l’importanza della nozione di comunione per comprendere l’intima natura della Chiesa, così come il Concilio l’aveva definita. Parlando di comunione si deve tener conto del fatto che, anzitutto è un dono di Dio, con una dimensione orizzontale, visibile e invisibile. Pertanto non è sufficiente intendere la comunione come il risultato dell’esercizio associativo proprio dei raggruppamenti meramente umani. Il punto di partenza della comunione è l’incontro dell’uomo con Gesù Cristo, il Figlio di Dio, Dio che possiede un volto umano e che risorto è la Presenza che opera tra noi, parla attraverso la Scrittura e si dona in persona con i sacramenti, l’Eucaristia in particolare.

b)      LITURGIA E SPERANZA ESCATOLOGICA
La liturgia o fede celebrata, in quanto opera di Cristo e azione della sua Chiesa, realizza e manifesta il suo mistero come segno visibile della comunione tra Dio e gli uomini, introducendo i fedeli nella vita nuova della comunità (CCC n. 118). Per questo, anche se la fede celebrata “non esaurisce tutta l’azione della Chiesa” (SC 9) perché indissolubilmente connessa con la fede professata, vissuta e pregata, la liturgia cioè la fede celebrata costituisce il culmine e la fonte della vita ecclesiale (SC 10). La trasmissione della fede, l’annuncio missionario, il servizio al mondo nella carità, la preghiera cristiana, la speranza affidabile alle realtà future, alla dimensione eterna della vita, tutta la vita della Chiesa hanno nella liturgia la loro fonte e il loro termine. Alla luce di questi insegnamenti si comprende il grave danno insito, per il popolo di Dio, negli abusi relativi alla celebrazione liturgica, specialmente nei sacramenti dell’Eucaristia e della Penitenza.  Come non preoccuparsi quando la disciplina liturgica in materia liturgica è vulnerata? (RS nn. 6-12). Ognuno si consideri come ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio. Ora, quanto si richiede negli amministratori è che ognuno risulti fedele” (1 Cor 4,1-2).
“Cos’è la Chiesa, se non l’assemblea dei santi?” “Noi crediamo alla comunione tra tutti i fedeli di Cristo, di coloro che sono pellegrini su questa terra, dei defunti che compiono la propria purificazione e dei beati del cielo, i quali tutti insieme formano una sola Chiesa” (Paolo VI). La Chiesa sarà portata alla sua pienezza alla fine dei tempi (At 3,12), quando il genere umano, insieme a tutto l’universo, sarà rinnovato (Ef 1,10; Col 1,20; 2 Pt 3,10-13) (LG 48). La speranza affidabile rispetto alla vita del mondo futuro è costitutiva della condizione del cristiano, della sua libertà di fronte a fatti temporali positivi o negativi. Siamo cristiani per l’incontro con il Risorto che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva (1 Cor 15,21). Quando si seminano dubbi sulla dimensione eterna della vita veramente vita  rispetto alla fede della Chiesa nella venuta del Signore nella gloria al compimento della storia, rispetto alla risurrezione della carne, al giudizio particolare e finale, al purgatorio, alla possibilità reale di condanna eterna (inferno) o di eterna beatitudine (paradiso), si incide negativamente sulla vita cristiana di tutti coloro che sono ancora pellegrini su questa terra, perché si resta allora “nell’ignoranza circa quelli che sono morti” e si cade nella tristezza di quanti non hanno una speranza affidabile (1 Ts 4,13) , in virtù della quale noi posiamo affrontare il nostro presente: il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto ed accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi posiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino. Anche il silenzio su queste verità della nostra fede, nell’ambito della predicazione e della catechesi, è causa di disorientamento tra i fedeli  che sperimentano nella propria esistenza le conseguenze della scissione tra quello in cui si crede e quello che si spera e tra le sofferenze questa è la più terribile.

c)      IL MINISTERO ORDINATO NELLA CHIESA
Il Signore Gesù ha istituito diversi ministeri per il servizio del suo corpo, la Chiesa (LG 29). Secondo la fede ecclesiale, Gesù Cristo ha fondato il ministero della successione apostolica nella vocazione e missione dei dodici, trasmesso con la consacrazione sacramentale. Agli apostoli e ai loro successori Cristo ha affidato la funzione di insegnare, santificare e governare nel suo nome e con la sua autorità. Presentare, poi, il ministero ordinato come il risultato di vicissitudini storiche o lotte di potere nell’ambito religioso è contrario alla verità storica e alla fede della Chiesa,
Constatiamo che alcuni autori hanno difeso e diffondono concezioni erronee sul ministero ordinato nella Chiesa. Tramite l’applicazione di un metodo esegetico scorretto, hanno separato Cristo dalla Chiesa, come se non fosse nella volontà di Gesù Cristo fondare la Chiesa.. Una volta rotto il vincolo tra la volontà di Cristo e la Chiesa, si cerca l’origine della costituzione gerarchica della Chiesa in ragioni puramente umane, frutto di mere congetture storiche. S’interpreta così la testimonianza biblica sulla base di presupposti ideologici, selezionando alcuni testi ed elementi e dimenticandone altri. Si parla di “modelli di Chiesa” che sarebbero presenti nel Nuovo testamento: di fronte alla Chiesa delle origini, caratterizzata dal discepolato e dal carisma”, libera da vincoli, sarebbe nata poi la Chiesa “istituzionale e gerarchica”. Il modello di Chiesa “gerarchica, legale, piramidale”, sorto successivamente, sarebbe distante dalle affermazioni neotestamentarie, che pongono l’accento sulla comunità e pluralità dei carismi e ministeri, così come sulla fraternità cristiana, intesa nel suo complesso come sacerdotale e consacrata. Questo modo di presentare la Chiesa non ha fondamento reale nella sacra Scrittura né nella tradizione ecclesiale e deforma gravemente il disegno di Dio sul corpo di Cristo che è la Chiesa, portando i fedeli su posizioni di scontro dialettico. In quest’ottica, la ricchezza di carismi e ministeri suscitati dallo Spirito Santo non la si considera a favore del bene comune (1 Cor 12,4-12), bensì come espressione di soluzioni umane che rispondono più a lotte di potere che alla volontà positiva del Signore.
In modo analogo alcuni negano la distinzione tra il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale, “quantunque differiscano di essenza e non soltanto di grado” (LG 10). Chi ragiona in questo modo parte dal presupposto che nel Nuovo testamento i ministri non sono considerati come “persone sacre”, per concludere che questa “sacralizzazione” del ministero, o di un gruppo all’interno della Chiesa, sarebbe una sovrapposizione storica posteriore. Questa teoria non menziona che Cristo è il sommo sacerdote della nuova alleanza (Eb 4,14-15; 7,26-28; 8-9), il cui ministero è condiviso da alcuni cristiani in modo speciale, per renderlo presente sotto forma sacramentale nella Chiesa. La terminologia sacerdotale posteriore non avrebbe cambiato la realtà del ministero apostolico, testimoniato chiaramente nel Nuovo testamento. Qui si trovano riferimenti all’incorporazione nel ministero mediante l’imposizione delle mani (At 14,23; 1 Tm 4,14).
La mancanza di chiarezza rispetto al ministero ordinato nella Chiesa non è estranea alla crisi vocazionale degli ultimi anni. In alcuni sembra addirittura che si voglia provocare un “deserto vocazionale”, così da produrre dei cambiamenti nella struttura interna della Chiesa. Tuttavia, là dove, mantenendo la dottrina cattolica, si offrono ai giovani ambiti per l’incontro personale con la Presenza che opera oggi, parla attraverso la Scrittura e si dona nei Sacramenti, nell’Eucaristia e nella Riconciliazione in particolare, normalmente sorgono le vocazioni per il sacerdozio ministeriale. E’ necessario ricordare le disposizioni magisteriali sull’uomo come unico soggetto valido dell’ordine sacramentale, perché è stata la volontà di Cristo nell’istituire il sacerdozio. Se l’ordine è sacramento cioè rimando al rendere visibile il risorto (vir) capo e non un potere allora si comprende la volontà di Cristo. Se il sacerdozio fosse un potere e non un sacramento, sarebbe obbligatoria l’alternanza maschile e femminile. Alcuni hanno ingiustificatamente sostenuto che questa volontà non consta nella Scrittura, ma ciò non corrisponde all’interpretazione autentica della parola di Dio scritta e trasmessa. La dottrina sull’ordinazione sacerdotale riservata agli uomini deve essere tenuta in modo definitivo,  poiché” è stata proposta infallibilmente dal magistero ordinario e universale”. “Per quanto concerne il più recente insegnamento circa la dottrina sulla ordinazione sacerdotale da riservarsi soltanto agli uomini, si deve osservare un processo similare. Il sommo pontefice, pur non volendo procedere fino a una definizione dogmatica, ha inteso riaffermare, comunque, che tale dottrina è da ritenersi in modo definitivo, in quanto fondata sulla parola di Dio scritta, costantemente conservata e applicata nella tradizione della Chiesa, è stata proposta infallibilmente dal magistero ordinario e universale. Nulla toglie che, come l’esempio precedente può dimostrare, nel futuro la coscienza della Chiesa possa progredire fino a definire take dottrina da credersi come divinamente rivelata”. La comunione vera con il magistero della Chiesa dispone oggi, su questo punto, di un criterio certo di verifica.

d)      LA VITA CONSACRATA NELLA CHIESA
La vita consacrata è un dono del Padre alla Chiesa, il quale mediante lo Spirito Santo, suscita tra i suoi figli una sequela speciale di Cristo, in castità, povertà e obbedienza, testimoniando la speranza del regno dei cieli. Nelle persone consacrate, essendo “nel cuore stesso della Chiesa come elemento decisivo per la sua missione”, risplende in modo singolare la natura intima della vocazione cristiana dei consigli evangelici per tutti cioè non la sessualità, il possesso, il successo come criteri ultimi: è l’aspirazione sponsale della Chiesa verso l’unione con Gesù Cristo il cui amore fino al perdono è totalmente gratuito. La vita consacrata è una forma di sequela e di imitazione di Cristo, sequela e imitazione della persona del Signore. Perciò risulta gravemente compromessa quando si basa su una cristologia che non corrisponde alla tradizione della Chiesa poiché è drammatico rendere incerto il suo autentico punto di riferimento: l’intima amicizia con Gesù, da cui tutto nella vita consacrata dipende, minaccia di annaspare nel vuoto.
Concepire la vita consacrata come una “istanza critica” all’interno della Chiesa presuppone un pericoloso riduzionismo ecclesiologico. Quando si vive dialetticamente la comunione gerarchica, opponendo la “Chiesa ufficiale o gerarchica” alla “Chiesa popolo di Dio”, dal sentire cum Ecclesia si passa, nella prassi, all’agire contro la Chiesa non si può essere fedeli. S’invoca allora “il tempo dei profeti”, e gli atteggiamenti di dissenso, che tanto incrinano la comunione ecclesiale, si fanno passare per “denunce profetiche”. Le conseguenze di queste argomentazioni sono disastrose  per tutto il popolo cristiano  e, in particolare, per i consacrati. Per alcuni questo riduzionismo svuota del contenuto cristiano lo stesso nucleo della consacrazione, i consigli evangelici.

c) IL MAGISTERO DELLA CHIESA E IL FENOMENO DEL DISSENSO
Gli errori ecclesiastici segnalati si esprimono anche attraverso l’esistenza di gruppi che propagano e divulgano sistematicamente insegnamenti contrari al magistero della Chiesa su questioni di fede e di morale. Approfittano della facilità con cui determinati mezzi di comunicazione sociale prestano la loro attenzione e moltiplicano le apparizioni in pubblico, le manifestazioni, i comunicati collettivi e gli interessi personali che dissentono apertamente dall’insegnamento del papa e dei vescovi uniti a lui. Questa è una rivoluzione per il vissuto ecclesiale peggiore delle passate rivoluzioni ideologiche! Allo stesso tempo reclamano per sé le condizioni di cristiani e cattolici, mentre non rappresentano che associazioni prettamente civili. Non si tratta di associazioni molto numerose, ma la loro ripercussione sui mezzi di comunicazione sociale è tale che le loro opinioni si diffondo ampiamente e seminano dubbi e confusione tra le persone semplici. Questo modo di agire rende manifesta la carenza degli elementi essenziali della fede cristiana, così come li trasmette in continuità dinamica la tradizione apostolica.
Questi gruppi, la cui nota comune è il dissenso, si sono espressi in interventi pubblici a favore, tra altri temi e questioni etico – morali, della assoluzioni collettive e del sacerdozio femminile e hanno travisato il senso vero del matrimonio proponendo e praticando la “benedizione” delle unioni tra persone omosessuali. L’esistenza di questi gruppi semina divisioni e disorienta gravemente il popolo dei fedeli, è causa di sofferenza per molti cristiani (sacerdoti, religiosi e laici) ed è motivo di scandalo e di ulteriore allontanamento per i non credenti.
Attraverso queste manifestazioni si offre una concezione deformata della Chiesa, secondo la quale esisterebbe un confronto continuo e inconciliabile tra la “gerarchia” e il “popolo”. La gerarchia, identificata con i vescovi, è presentata con tratti alquanto negativi: fonte di “imposizioni”, di “condanne” e di “esclusioni”. Di fronte ad essa, il “popolo”, con cui si identificano questi gruppi, è presentato con tratti opposti: “libertario”, “plurale” e “aperto”. Questo modo di presentare la Chiesa implica l’invito esplicito a “ rompere con la gerarchia” e a “costruire”, in pratica, una “chiesa parallela”. Per questi gruppi, l’attività della Chiesa non consiste principalmente nell’annuncio della persona di Gesù Cristo e nella comunione degli uomini con Dio, che si realizza mediante la conversione di vita e la fede nel Redentore, bensì nella liberazione da strutture oppressive e nella lotta per l’integrazione di gruppi emarginati, secondo una prospettiva prevalentemente immanentista.
E’ necessario ricordare, inoltre, che esiste un dissenso silenzioso che promuove e difende disaffezione verso la Chiesa, considerando questo un legittimo atteggiamento critico rispetto alla gerarchia e al suo magistero, giustificando il dissenso all’interno della Chiesa stessa, come se un cristiano non potesse essere adulto senza prendere una certa distanza dagli insegnamenti magisteriali. Dietro a questo atteggiamento si cela frequentemente l’idea che la Chiesa attuale non obbedisca al Vangelo e che occorra lottare “dal di dentro” per arrivare a una Chiesa futura autenticamente evangelica. In realtà, non si cerca la vera conversione dei suoi membri, la sua purificazione costante, la penitenza e il rinnovamento, bensì la trasformazione della stessa costituzione della Chiesa, per adattarla alle opinioni e alle prospettive del mondo. Questa posizione trova appoggio in membri di centri accademici della Chiesa e in alcune case editrici e librerie gestite da istituzioni ecclesiastiche. Grande è il disorientamento che tale modo di procedere causa tra i fedeli.


LA FEDE VISSUTA CON QUELLA PRESENZA
CHE OPERA ANCHE OGGI ATTRAVERSO LA  PAROLA,  I  SACRAMENTI, LA PREGHIERA

“Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mt 16,24). La scena di Cesarea di Filippo ci porta dalla professione di fede di Pietro e dalla promessa di edificare  la Chiesa alla sconcertante ed esigente proposta di sequela di Cristo per lasciarsi assimilare a Lui che si ha amati sino alla fine. Per un vissuto di fede, per una vita autenticamente cristiana ed essere un discepolo di Gesù Cristo che si lascia assimilare a Lui non basta riconoscerlo e celebralo come Figlio di Dio di fronte agli uomini nella comunione della Chiesa. Tale annuncio e celebrazione della fede implica l’amore di tentare e ritentare di lasciarsi assimilare, nell’amore, a Lui che si è lasciato uccidere per noi. La morale cristiana è un giogo dolce perché animato dall’amore come “vita in Cristo” lasciandoci assimilare a Lui. “Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la su altissima vocazione” (GS 22). In Cristo, “immagine del Dio invisibile” (Col 1,15),l’uomo è stato creato “a immagine e somiglianza” del Creatore. “E’ in Cristo, redentore e salvatore, che l’immagine divina, deformata nell’uomo dal primo peccato, è stata restaurata nella sua bellezza originale e nobilitata dalla grazia di Dio” (CCC n. 1701). Di fronte al pericolo, costante nella condizione umana, che “venga resa vana la croce di Cristo” (1 Cor 1,17), la grazia di Dio, che suscita in noi la sequela, ci rimanda alla verità di ciò che siamo e di ciò che siamo chiamati ad essere. La Chiesa “sa che proprio sulla strada della vita morale è aperta a tutti la via della salvezza”.
Attualmente, una delle grandi sfide dell’evangelizzazione riguarda l’ambito morale. Si tratta di una situazione difficile che proviene da un contesto culturale che si dichiara postcristiano e, con una apostasia spesso silenziosa, si propone di vivere “come se Dio non esistesse”. Dio rimane escluso dalla cultura e dalla vita pubblica, e la fede in Lui diventa difficile, anche perché viviamo in un mondo che si presenta quasi sempre come opera nostra, nel quale, per così dire, Dio non compare più direttamente, sembra divenuto superfluo ed estraneo. In stretto rapporto con tutto questo, ha luogo inevitabilmente una radicale riduzione dell’uomo, considerato un semplice prodotto della natura, come tale non realmente libero e di per sé suscettibile di essere trattato come ogni altro animale gestibile solo con la scienza e la tecnica. L’etica viene ricondotta entro i confini del relativismo e dell’utilitarismo, con l’esclusione di ogni principio morale che si valido per se stesso. Non è difficile vedere come questo tipo di cultura rappresenti un taglio radicale e profondo non solo con il cristianesimo ma più in generale con le tradizioni religiose e morali dell’umanità. Oltre all’ateismo teorico e all’agnosticismo sistematico, si diffonde oggi l’ateismo e l’agnosticismo pratico. In questa situazione l’uomo si mette a misurare la sua vita e le sue azioni in relazione a se stesso e la libertà individuale viene eretta a valore fondamentale al quale tutti gli altri dovrebbero sottostare. Il risultato è un radicale relativismo, anzi la dittatura del relativismo, secondo il quale qualunque opinione sui temi della morale sarebbe ugualmente valida. Ognuno possiede “le sue verità”  e tutt’al più nell’ambito dell’etica, si può aspirare a dei “minimi condivisi”, la cui validità non potrà andare oltre il presente e nel quadro di determinate circostanze. La radice più profonda della crisi morale che colpisce gravemente molti cristiani è la frattura esistente tra morale e fede professata,  celebrata, pregata: la morale cristiana non si misura dalla riuscita ma dal tentare e ritentare con fiducia e speranza, anche dove non si riesce certi per fede che Lui porterà a compimento. Restituire ai cristiani, nell’attuale situazione drammatica, quelle convinzioni e quelle certezze di fede che permettano loro di “non aver paura, coscienti che “questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede” (1 Gv 5,4). Questa cultura trasgressiva, incapace di poter rispondere alle domande fondamentali sul senso e la direzione della nostra vita è contrassegnata anche da una profonda carenza, ma anche da un grande e inutilmente nascosto bisogno di speranza e quindi di nuova evangelizzazione, di una morale di fede.

a)      CRISTO, NORMA DELLA MORALE
Cristo, il Signore cioè il datore di ogni bene,è la norma di vita suprema e immutabile per i cristiani. Gesù Cristo, rivelando il mistero del Padre e del suo amore fino al perdono, ci fa conoscere “la condizione dell’uomo”.Chi crede, chi si affida e confida in Cristo tentando e ritentando di lasciarsi assimilare a Lui ha già la vita nuova nello Spirito Santo ed è reso figlio di Dio. In virtù di questa adozione filiale, la persona umana è trasformata in tutte le relazioni che la fanno divenire quello che originariamente è a immagine delle relazioni trinitarie e con una capacità nuova. E’ così in grado di seguire liberamente cioè per amore la vita di Cristo, di operare rettamente e di fare il bene. Il discepolo di Cristo, unito al Salvatore e mosso per la fede professata, celebrata, pregata, dallo Spirito Santo è capace di conseguire la perfezione della carità, la santità dei comandamenti anche lasciandosi riconciliare, e ciò rappresenta la vocazione ultima di ogni persona umana (CCC n.1692). “Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo…ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità” (Ef 1,3.4).
Cristo è il punto di riferimento indispensabile e definitivo per acquisire una conoscenza integrale dell’uomo. Ed è inoltre il fondamento di un agire morale integrale,in cui non vi è dicotomia tra fede e ragione, tra fede e morale. Se Cristo è la norma dell’agire morale, la fondatezza della morale deve procedere dalla rivelazione e dal magistero della Chiesa, il cui ambito si estende al comportamento umano senza entrare in conflitto con la giusta ragione. Se si porta avanti l’idea che nella rivelazione troviamo soltanto principi generici dell’agire umano, senza tener conto che la sacra Scrittura e la tradizione dimostrano il contrario – come nel caso della cosi detta “autonomia teonoma –l’insegnamento morale ne risente gravemente. “La sacra Scrittura, infatti, rimane la sorgente viva e feconda della dottrina morale della Chiesa – come ha ricordato il concilio Vaticano II (DV 7):Il Vangelo è…fonte di ogni verità salutare e di ogni regola morale” (Veritatis splendor n. 28).

b)      LA DIGNITADI OGNI PERSONA UMANA
La dignità di ogni persona, dal concepimento al termine della vita biologica, deriva dal fatto di essere creata a immagine e somiglianza di Dio uno trino.”Dotata di un’anima spirituale e immortale, d’intelligenza e di libera volontà ogni persona umana è ordinata a Dio e chiamata, con la sua anima e il suo corpo, alla beatitudine eterna” (CCC n. 358). In modo essenziale libera dalla schiavitù di non sapere da dove vengo, a cosa sono destinato, c’è un al di là anche per il mio corpo. In ogni uomo esiste un desiderio di felicità, che Dio desidera colmare in modo sovrabbondante, dal momento che chiama ogni uomo a partecipare, mediante Cristo morto e risorto, alla stessa beatitudine divina: “Cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano” (1 Cor 2,9). L’uomo  consegue il suo fine ultimo in virtù della grazia di Cristo, “dono gratuito che Dio ci dà per renderci partecipi della sua vita trinitaria e capaci di agire per amore suo” (CCC n.423) anche oggi. Certo affrontare la vita “come se Dio non esistesse”, pretendere di ignorare Dio o, ancora peggio, negarlo esplicitamente, è il principio dell’infelicità umana Non desiderare più Dio che mi ama fino al perdono senza costringermi mai e dandomi fino al momento terminale questa possibilità di ricominciare e non essere più disponibili al bene, al perdono è infelicità eterna, inferno. Aperti alla misericordia di Dio e misericordiosi con tutti come Dio  lo è con noi, giunti al momento terminale con ancora della sporcizia nonostante il tentare ritentare, Cristo, in chi si affida a Lui, porta a compimento nella purificazione ultraterrena. Per questa ragione la Chiesa offre a tutti il suo insegnamento morale (CCC n.430), nella consapevolezza che è Cristo colui che ha rivelato all’uomo la sua più sacra dignità e la sua vocazione ultima.
La grazia di Cristo non annulla l’ordine creato, ma risponde alle profonde aspirazioni della libertà umana, nel prevenire, preparare e suscitare la libera risposta dell’uomo (CCC n. 425). La realizzazione della dignità di ogni uomo richiede che si rispetti l’ordine essenziale della natura umana creata da Dio, che trascende le vicissitudini storiche e culturali. Quest’ordine della natura umana, ferito fin dalle origini,si esprime nella legge naturale o grammatica della creazione, che ogni uomo può conoscere, benché la legge sia previa alla sua conoscenza. La legge morale naturale esprime e prescrive le finalità, i diritti e i doveri che si fondano sulla natura corporale e spirituale di ogni persona umana. Pertanto essa non può essere concepita come normatività semplicemente biologica, ma deve essere definita come l’ordine razionale secondo il quale ogni uomo è chiamato dal Creatore a dirigere e regolare la sua vita e i suoi atti e, in particolare, a usare e disporre del proprio corpo” (Veritatis splendor n.50).
La conoscenza della legge naturale presuppone che questa sia inscritta nel più profondo di ogni essere umano e che possa essere percepita, almeno in una certa misura, per mezzo della sola ragione, al di fuori della rivelazione di Cristo (GS n. 16). IL giudizio della coscienza non stabilisce la legge, bensì afferma la sua autorità, percependola come norma oggettiva e immutabile, valida e vincolante per se stessa, rispondendo alle domande fondamentali sul senso e la direzione della vita e incoraggia ogni uomo a fare il bene e ad evitare il male (Compendio n. 372). “La coscienza, dunque, non è una fonte autonoma ed esclusiva per decidere ciò che è buono e ciò che è cattivo; invece, in essa è inscritto profondamente un principio di obbedienza nei riguardi della norma oggettiva, che fonda e condiziona la corrispondenza delle sue decisioni con i comandi e i divieti che sono alla base del comportamento umano” (GS n.16). In questo senso, il magistero ha segnalato le lacune e le carenze di alcune teorie morali come l’”opzione fondamentale” (Veritatis splendor nn.65-70), il “proporzionalismo e consequenzialismo” (Vs n.75) o la cosidetta “ morale delle virtù” . E’ necessario ricordare inoltre che, affinché la persona agisca conformemente alla sua dignità, la coscienza deve essere retta e aperta alla verità (VS n.63), vale a dire che deve essere  “in accordo con ciò che è giusto e buono secondo ragione e la legge divina” (Compendio n. 373). Per chi è alla ricerca del vero, del bene, di Dio, su questo cammino scorge le utili luci sorte lungo la storia della fede cristiana fino a percepire Gesù Cristo come la Luce che illumina verso il futuro.
L’attuale condizione storica della persona umana è segnata dal peccato. A causa del peccato originale e quindi con l’originaria tendenza al male e la tentazione di Satana, tutti gli uomini sono privi della santità e della giustizia originali cioè della tensione a giusti comportamenti in ogni ambito. Benché la loro natura non sia totalmente corrotta per effetto del peccato originale e dell’azione satanica, si trova, tuttavia, “ferita nelle sue forze naturali, è sottoposta all’ignoranza, alla sofferenza, al potere della morte, ed è inclina al peccato”(Compendio n.77). Per questa ragione, non tutte le inclinazioni che l’uomo esperimenta sono buone, come lo erano originariamente. L’uomo ha così bisogno dell’aiuto storico di Dio persino per conoscere e realizzare molte cose buone che sono insite nelle potenzialità della natura. Anche per questo risulta assolutamente necessaria l’azione dello Spirito santo e una formazione morale sostenuta dalla Parola di Dio e dagli insegnamenti della Chiesa, per acquisire una retta coscienza. Quando si argomenta in maniera ambigua la dottrina della Chiesa sul peccato originale, o si tace e si nega la gravità del peccato, le conseguenze per la formazione della coscienza sono molto negative, mentre appare confusa sia la risposta alla domanda fondamentale del perché del male e confuso il cammino che porta alla felicità.
Tuttavia, il peccato non è la parola definitiva sulla condizione umana. La Chiesa insiste nel proclamare che in Cristo l’uomo ha recuperato la santità originale ricevuta da Dio e che, con l’aiuto della sua grazia, può correre per la via de gli indicatori stradali dell’amore cioè i comandamenti del Signore (Salmo 118,32). La grazia, mentre restaura il danno provocato dal peccato e ci aiutaa  non soccombere nella tentazione del Maligno, rende pienamente la libertà umana libera, orientando l’uomo verso la beatitudine. Cristo non solo è il redentore di tutti gli uomini, ma anche di ogni uomo concreto, comunque ridotto (GS n. 23). Facendo giungere la Sua Parola e donandosi con i suoi sacramenti, custoditi nella Chiesa “fino al suo ritorno”, permette ad ogni uomo di svolgere una vita morale autentica e scelte vocazionali definitive.

c)      MORALE DELLA SESSUALITA’ E DELLA VITA
Conseguenza immediata della dignità umana rivelata in Cristo è la dignità intangibile della sessualità. In un contesto contrassegnato da un esasperato pansessualismo, il vero significato della sessualità umana risulta molte volte distorto, controverso e contestato, quando non pervertito (Deus caritas est n. 5). E’ necessario che superiamo la tentazione di risolvere i vecchi e nuovi problemi con risposte che sono più conformi alla sensibilità e alle esperienze del mondo che al “pensiero di Cristo” (1 Cor 2,16). La sessualità è infatti inscritta nell’essere umano, creato ad immagine e somiglianza di Dio uni trino, uomo e donna, e deve essere inteso nella prospettiva della vocazione di ogni persona alla relazione d’amore. Così, mediante la virtù della castità, si consegue l’integrazione della sessualità nella persona (CCC n.2337). L’uomo e la donna sono fatti per la relazione l’uno per l’altro ed esiste – per così dire – una scala: sessualità, eros, agape, che sono le dimensioni dell’amore, e così dapprima si forma il matrimonio come incontro colmo di felicità di uomo  e donna, e poi la famiglia, che garantisce la continuità fra le generazioni, in cui si realizza la riconciliazione delle generazioni e in cui si possono incontrare anche le culture.
La dignità della vita umana esige che la sua trasmissione avvenga nell’ambito della relazione d’amore coniugale. Pertanto, quei metodi che pretendono di sostituire, e non semplicemente aiutare l’azione dei coniugi nella procreazione, non sono ammissibili (Donum vitae nn. 6-7). Se si separa la finalità unitiva da quella procreativa, si falsa l’immagine dell’essere umano, dotato di anima e di corpo, e si degradano gli atti del vero amore, capace di esprimere nella relazione reciproca la carità coniugale che unisce gli sposi.  La conseguenza è che una regolazione moralmente corretta della natura non può ricorrere a metodi contraccettivi (Humanae vitae nn. 12-16).
Alla luce di questi principi sulla sessualità si comprende il motivo per cui la Chiesa considera ugualmente “tra i peccati gravemente contrari alla castità (…) la masturbazione, la fornicazione, la pornografia e le pratiche omosessuali” (CCC n. 2396). L’insegnamento sulla sessualità non consente di banalizzare tali questioni né di considerare i rapporti sessuali un “semplice gioco di piacere. La banalizzazione della sessualità comporta la banalizzazione della persona”. L’uso delle facoltà sessuali assume il suo vero significato e la sua onestà morale nel matrimonio legittimo e indissolubile di un uomo con una donna, aperto alla vita, che è il fondamento della società e il luogo naturale dell’educazione dei figli. Gli attacchi al matrimonio a cui spesso assistiamo non tarderanno ad avere conseguenze gravi per la stessa società.
Non possiamo dimenticare neppure che la vita umana ha inizio con il concepimento e ha fine con la morte naturale. L’aborto e l’eutanasia sono azioni gravemente disordinate, lesive della dignità umana e contrarie agli insegnamenti di Cristo. La Chiesa è consapevole del fatto che tali questioni debbano essere spiegate alla comunità cristiana, assediata costantemente dalla mentalità edonista propria della cultura della morte. Non possiamo neanche mettere in dubbio che, fin dal momento della fecondazione, esista vera e autentica vita umana, distinta da quella dei genitori; per cui interrompere lo sviluppo costituisce un gravissimo attentato contro al vita stessa. “L’amore di Dio non differenzia tra l’essere appena concepito, ancora nel senso materno, e il bambino e il giovane o l’uomo maturo o l’anziano. Non fa differenza, perché in ciascuno di loro vede l’impronta della sua immagine e somiglianza” (Gn 1,26) (Benedetto XVI 27 – 2 -2006). E’ contrario all’insegnamento della Chiesa sostenere che fino all’annidamento dell’ovulo fecondato non si possa parlare di “vita umana”, stabilendo così una rottura nell’ordine della dignità umana tra l’embrione e quello che si definisce, erroneamente, “pre – embrione”. In modo analogo, nessuno ha la potestà di eliminare una vita innocente, neppure quando si trova nello stadio terminale. E’ lecito, anzi giusto, evitare “ interventi medici non più adeguati alla reale situazione del malato, perché ormai sproporzionati ai risultati che si potrebbero sperare o anche perché troppo gravosi per lui e la sua famiglia” (EV 14/2385), nonostante tutto questo supponga che si abbrevi la sua speranza di vita. Ben diverso è però realizzare interventi con la diretta intenzione di eliminare la vita della persona ammalata o anziana.

d)      MORALE SOCIALE
In questo momento storico è particolarmente importante che i fedeli cattolici ricordino la loro responsabilità nell’attività pubblica e politica. L’imperante mentalità laicista tende a relegare le convinzioni religiose nella coscienza individuale e a impedire che si manifestino e che abbiano ripercussioni pubbliche. E’ facile che si accettino di buon grado le opere di tipo assistenziale e umanitario dei cristiani, ma che si respinga qualsiasi altra manifestazione della loro fede, compresa la difesa dei valori comuni più elementari, non negoziabili, come il diritto alla vita dal suo concepimento fino alla sua morte naturale. Chiedere che il cattolico parli e agisca nella vita pubblica in modo conforme alle sue convinzioni non significa voler imporre la fede né la pratica religiosa agli altri. Si tratta di contribuire con argomentazioni dicibili e comprensibili da tutti al bene di tutti apportando il meglio che i cattolici hanno le luci, le radici di civiltà sorte lungo la loro storia di fede: la fede in Gesù Cristo salvatore, che non contraddice la ragione umana, ma la eleva a una migliore comprensione del bene comune cioè di ogni essere umano concreto sempre fine e mai riduttivamente mezzo per altri e per altro. Coloro che rivendicano la loro condizioni di cristiani operando nell’ordine sociale e politico con proposte che  contraddicono  espressamente l’insegnamento evangelico, custodito e trasmesso dalla Chiesa, offerto a tutti con argomentazioni razionali, sono causa di grave scandalo e si collocano fuori della comunione ecclesiale.
I fedeli debbono difendere e sostenere quelle formazioni o associazioni politiche che promuovono la dignità di ogni persona umana e della famiglia. Qualora non si possa eliminare una legge negativa su queste materie, il fedele cattolico deve operare al fine di minimizzare i guasti che tale legge provoca pur chiara la sua tensione alla totalità. Su questioni più contingenti è possibile un certo pluralismo di opzioni per i cattolici. Tuttavia, quando è in gioco la dignità di ogni persona umana – come oggi succede – della famiglia naturale, della libertà di educazione cioè dei valori non negoziabili il cattolico deve offrire la testimonianza reale della sua fede manifestando un inequivocabile rifiuto di tutto ciò che offende la dignità di ogni essere umano. Anche le opere di carattere assistenziale promosse dai cattolici, animati da spirito di carità, devono presentare un profilo specifico in Dio e Cristo e non possono restare a margine, poiché i cristiani  sanno che la radice di ogni dolore è  l’allontanamento da Dio e oggi questa apostasia silenziosa da Lui. La dottrina sociale della Chiesa argomenta a partire dal vissuto ecclesiale e dalla ragione e dal diritto naturale, cioè a partire da ciò che è conforme alla natura di ogni essere umano.

Conclusione
Voi chi dite che io sia?” (Mt 16,15). Riconoscere Gesù Cristo come Figlio del Dio vivente, come la Presenza che opera oggi nella Chiesa e attraverso la Chiesa è il principio di una teologia profonda al servizio del popolo di Dio. Quando si offuscano i tratti inconfondibili, memorizzati dai Vangeli canonici, di quella Presenza che è all’opera tra noi, oggi come in continuità dinamica in tutta la Tradizione, la vita cristiana inesorabilmente s’impoverisce e la teologia inaridisce come un albero le cui radici non raggiungono più le acque che gli danno vita. La teologia non può mai essere definita cattolica, se non pone al centro del suo impegno nel comprendere la fede la professione di Pietro a cesarea di Filippo: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16,16), oggi quella Presenza che opera nella Chiesa e attraverso la Chiesa, con i tratti inconfondibili che troviamo nei Vangeli canonici e come in continuità dinamica l’ha compreso in tutta la Tradizione e oggi lo annuncia con il Compendio  del catechismo della Chiesa Cattolica. L’annuncio è il criterio di ogni teologia e non la teologia il criterio dell’annuncio. Pastoralmente questa preminenza della fede dei semplici, dell’essenzialità del Compendio corrisponde peraltro ad un fondamento antropologico: le grandi realtà concernenti la natura umana e la fede vengono colte in una percezione semplice ed essenziale, che è fondamentalmente consentita a tutti e che non può essere superata nella riflessione, nella argomentazione scientifica né biblica né teologica, Non a tutti gli uomini è permesso dedicarsi alla scienza teologica; a tutti, però, è aperta la via delle grandi intuizioni di fondo, soprattutto di fede. Il magistero difende la fede comune, in cui non vi è differenza di classe tra dotti e semplici. L’affermazione che la Chiesa con il suo ministero pastorale è abilitata all’annuncio e non all’insegnamento della teologia scientifica è certamente corretta. Ma il ministero dell’annuncio si impone anche per la teologia, soprattutto nell’incertezza di questo momento storico e di questa società. Con il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica si offre agli uomini la certezza della fede completa della Chiesa Cattolica.
Il 27 dicembre del 2006 i Vescovi Spagnoli hanno dato un documento a cui mi sono liberamente rifatto: “Teologia e secolarizzazione in Spagna. A quarant’anni dalla chiusura del concilio Vaticano II”. Il documento nel rivedere sommariamente alcuni degli insegnamenti errati più diffusi nella nostra società, hanno voluto dimostrare lo stretto legame che esiste tra la teologia e la vita cristiana. “Noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia, perché nella fede voi siete già saldi” (2 Cor 1,24). Le opinioni erronee esaminate hanno serie e gravi conseguenze nella vita della Chiesa. In molte famiglie si è interrotta la trasmissione della fede provocando una emergenza educativa. Le condizioni di fede dei genitori, educatori e catechisti sono scosse da proposte teologiche equivoche, ambigue e dannose che hanno indebolito la loro fede e così hanno resa difficile la trasmissione gioiosa del Vangelo cioè dei tratti inconfondibili di quella Presenza che opera tra noi, oggi. Accogliere, attraverso il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, la certezza della fede completa della Chiesa, la chiarezza e la bellezza della fede cattolica rende luminosa la vita dell’uomo anche oggi. Contributo meraviglioso è tutto il magistero di Benedetto XVI, soprattutto la Verbum Domini e non a livello di magistero i due volumi Gesù di Nazaret come proposta di connubio fra esegesi e teologia.
La teologia nasce dalla fede ed è chiamata a interpretarla mantenendo il suo legame irrinunciabile con la comunità ecclesiale. La pastorale della Chiesa ha bisogno della teologia, come la teologia ha bisogno del suo legame ecclesiale. Diceva il Beato Giovanni paolo II: “Nello svolgimento della missione di annunciare il vangelo della speranza, la Chiesa in Europa apprezza con gratitudine la vocazione dei teologi, valorizza e promuove il loro lavoro”. “Dopo – concludono i Vescovi spagnoli – aver celebrato l’anno dell’Eucaristia – mistero di comunione in cui la sapienza di Dio si apre a chi lo adora – invochiamo la protezione di Maria immacolata su coloro che hanno ricevuto il ministero ecclesiale (non è corretto autodefinirsi teologi cattolici senza il mandato!) di approfondire la fede, contribuendo alla sua trasmissione fedele nell’ambito della teologia, affinché la loro opera edifichi il popolo di Dio, pronti a rispondere della nostra speranza a chiunque ce ne domanda ragione (1 Pt 3,15), e la gioia di Cristo raggiunga in tutti noi la sua pienezza (Gv 15,11)”.

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