Non c'è politica senza religione

“Immutata freschezza e vitalità del pensiero di Joseph Ratzinger/Benedetto XVI…solido fondamento per il futuro…fonte di ispirazione per un’azione politica” (Papa Francesco)

Il cristianesimo ha ancora molto da dire su Europa, giustizia, legge e potere: di che cosa ha bisogno per tornare a farlo davvero? La libertà secondo Benedetto XVI in un articolo di Ubaldo Casotto, Il Foglio Quotidiano di martedì 12 giugno 2018

“Chiediamo un rinnovato impegno dei cattolici alla politica”. E’ il ripetuto appello del cardinale Gualtiero Bassetti, presidente dei vescovi italiani. Un impegno per che cosa? Orientato da quali criteri? Con quali contenuti? In difesa di quali diritti? In
che prospettiva di bene comune in Italia, in Europa, nel mondo? “Liberare la libertà”, è una raccolta di discorsi su fede e politica di Joseph Ratzinger/Benedetto XVI (Cantagalli). Ne raccomanda la lettura anche Papa Francesco, il quale in una argomentata prefazione parla “dell’immutata freschezza e vitalità del suo pensiero” e di testi che “possono aiutare non solo tutti noi a comprendere il nostro presente e a trovare un solido orientamento per il futuro, ma anche essere vera e propria fonte d’ispirazione per un’azione politica”.
In questo volume c’è il discorso sulla laicità che avrebbe dovuto tenere all’Università La Sapienza di Roma, quello tenuto al mondo della cultura francese letto al College des Bernandins di Parigi, nella convinzione che la politica vera è la forma di carità (Paolo VI) e insieme la forma più compiuta di cultura (Luigi Giussani). Per dare il proprio contributo alla politica i cattolici necessitano di una fede pienamente accolta a livello personale, comunitariamente vissuta e pensata nella Chiesa e offerta alla libera accoglienza ragionevole. Il fatto fondamentale della fede cioè l’incontro personale con Cristo, l’accoglienza del patrimonio ecclesiale di fede, deve diventare coscienza personale e comunitaria cioè volerlo liberamente come un bene, uno sguardo corrispondente al cuore, a quello che desidero cioè la verità che mi libera. A livello sociale la legge della verità si esprime come impegno per la giustizia. Impegno che si esprime nel puntare a “creare le condizioni di fondo per la pace” e come “intelligenza del diritto” per il bene comune. E’ una questione di fondo a monte di ogni democrazia, nella quale non è sufficiente la legge della maggioranza. E Benedetto XVI nel suo argomentare supera tutti in laicità. Dice infatti: “Ogni persona che ha responsabilità deve cercare lei stessa i criteri del proprio orientamento” senza attendere dal papa, in virtù della dottrina di cui è custode, i paletti entro i quali muoversi a livello politico. Che ogni persona, ogni generazione, nel suo momento storico, debba su questa materia come ricominciare dall’inizio è un punto fisso per Ratzinger.
Alla Sapienza, affrontando il tema in questione, si misura con Junger Habermas là dove dice che nel cercare il fondamento del diritto e della democrazia bisogna avviare un processo di argomentazione “sensibile alla verità” per giungere a una “forma ragionevole di diritto”. Nell’esperienza il “ragionevole” è un atteggiamento dell’uomo che si palesa con delle ragioni adeguate secondo la sua natura, perché la natura dell’uomo, anche del cattolico, è di avere in comune con tutti la ragione, oppure – per dirla con Habermas – di essere “sensibile alla verità” cioè alla realtà in tutti gli ambiti. E la ragione – lo diceva anche Hegel – “esige l’esistenza della verità”. La natura, infatti, identifica sempre anche un compito cioè un divenire dell’essere. Sempre alla Sapienza Benedetto XVI si chiede poi: come l’università assolve il compito di trovare una forma ragionevole di diritto con argomenti sensibili alla verità? Risponde sorprendentemente così: “Questa è una domanda per la quale bisogna sempre di nuovo affaticarsi e che non è mai posta e risolta definitivamente”. Un Papa che non dice: si fa così e così, ma: è una domanda aperta. “Neppure io posso offrire propriamente una risposta, ma piuttosto un invito a restare in cammino con questa domanda, con l’inquietudine per la verità… che rimanda continuamente al di là di ogni singola risposta” che nell’arco dei secoli sia stata data. 
E’ questo tipo di inquietudine che tiene sempre desta la sensibilità, la tensione per la verità. Più volte, sin dall’enciclica Caritas in veritate, Benedetto XVI ha insistito sul fatto che il lavoro per trovare il fondamento del diritto, e quindi della politica, non è  dato una volta per tutte ma è il compito di ogni generazione.
Torniamo alla domanda di Berlino: come si riconosce ciò che è giusto? Benedetto non dà una risposta teorica, bensì una risposta storica. E meglio indica un criterio razionale che è stato introdotto nella storia non da un ragionamento ma da un fatto. E poi formula un  giudizio sulla situazione attuale, cioè sulla condizione nella quale oggi quel compito – come si riconosce ciò che è giusto? – si deve esplicare.
Prima parte della risposta: la vera laicità ha un’origine religiosa. Laico perché cristiano. “Nella storia, gli ordinamenti giuridici sono stati quasi sempre motivati in modo religioso […] Contrariamente ad altre grandi religioni, il cristianesimo non ha mai imposto allo Stato e alla società un diritto rivelato, un ordinamento giuridico derivante da una rivelazione, mai identificabile con una politica. Ha invece rimandato alla natura e alla ragione quali vere fonti del diritto – ha rimandato all’armonia tra ragione oggettiva e soggettiva”. Il loro incontro avviene, come si diceva, dall’esperienza. Di più: nella controversia tra religione e filosofia “è stato decisivo che i teologi cristiani abbiano preso posizione contro il diritto religioso, richiesto dalla fede nella divinità, e si siano messi dalla parte della filosofia, riconoscendo come fonte giuridica valida per tutti la ragione e la natura nella loro correlazione”.
“Quando i pagani, che non hanno la legge (rivelata ebraico-cristiana), per natura agiscono secondo la legge, essi, pur non avendo la legge, sono legge a se stessi. Essi dimostrano che quanto la legge esige è scritto nei loro cuori (cuore è l’io che contemporaneamente intende e quindi ragiona, sente e vuole), come risulta dalla testimonianza della loro coscienza” (Rm 2,15ss). Benedetto XVI dice che qui Paolo usa la parola “coscienza” nei termini di ragione aperta al linguaggio dell’essere, della realtà in tutti gli ambiti cioè della verità. La natura si riverbera nella coscienza quindi “come legge non scritta”, come diritto naturale. Ratzinger sviluppa questo argomento in polemica con il positivismo giuridico (vero e quindi buono con il criterio della maggioranza, delle scelte a maggioranza, ma scelte perché è vero, è buono), con la concezione, teorizzata da Kelsen, di una natura puramente funzionale che non ha nessun rapporto con l’etica e il diritto. C’è la natura, c’è l’uomo, e tra i due non ci sarebbe ponte. Per Kelsen ciò che non è “verificabile e calcolabile” non rientra nell’ambito della ragione: etica e religione vengono relegate all’ambito soggettivo, alla decisione del soggetto. E il diritto, conseguentemente, viene consegnato alla determinazione della maggioranza. Vengono meno le fonti classiche del diritto citate: la natura e la ragione. La volontà kantianamente del soggetto e della maggioranza stabilisce il diritto.
Questa – dice Ratzinger – è una concezione ridotta e autolimitante della ragione, che ha avuto e può avere effetti positivi però “non è sufficiente a essere uomini in tutta la sua ampiezza”.
Preme a Ratzinger che l’ambito della ragionevolezza dell’intelligenza non venga ridotto, che il razionale non sia identificato con il dimostrabile o il logico. Il problema della ragione non è il suo meccanismo ma la capacità di aderire alla realtà in tutti gli ambiti cioè alla verità che fonda la libertà e quindi la possibilità di amare ed essere amati e quindi di trarre da essa suggerimenti.
Ora, di fronte alla riduzione della natura a mero dato funzionale (e quindi manipolabile anche politicamente), di fronte alla riduzione della ragione a gabbia in cui incasellare tutto (misura delle cose), di fronte alla riduzione della coscienza a solitudine egocentrica (luogo dove uno parla a se stesso facendo del proprio arbitrio un assoluto circa la determinazione del bene e del male e in cui non ascolta la voce di un altro cioè incontra riflessivamente la realtà in sé), Ratzinger non dà una risposta dogmatica ma metodologica: bisogna ritornare a spalancare le finestre della ragione e vedere di nuovo la vastità del mondo. Non dice, mettendo kantianamente prima la volontà, “dobbiamo tornare a ragionare bene”, ma parla di un bunker senza finestre nel quale ci siamo rinchiusi nell’attuale egemonia culturale che sul piano della prassi erige la libertà individuale a valore fondamentale al quale tutti gli altri dovrebbero sottostare. Non dobbiamo cercare di ragionare meglio dentro il bunker, dobbiamo uscire dal bunker. “Dobbiamo – si sono sentiti dire i parlamentari tedeschi – di nuovo vedere la vastità del mondo, il cielo e la terra, e imparare a usare tutto questo in modo giusto”. E’ in questo passaggio che, a sorpresa, cita gli ambientalisti. Il movimento ecologista – dice – ci ha ridestato questa esigenza: “pur non avendo spalancato le finestre (segnala una premessa mancata, un’esigenza giusta alla quale si è data una risposta parziale) però sono stati un grido che anela all’aria fresca […] che la terra porta in sé la propria dignità e noi dobbiamo inseguire le sue indicazioni […] nel nostro rapporto con la realtà c’è qualcosa che non va”. Un’apertura simile la coglie anche nel positivista Kelsen quando questi abbandona il dualismo fra essere e dover essere e si chiede se, essendo il diritto solo frutto della volontà, ci sia una volontà divina che ha inserito il diritto nella natura. Poi Kelsen decide che non ha senso occuparsi di ciò, Benedetto XVI ribadisce invece che forse è la questione della quale ha più senso occuparsi.
C’è una singolare eterogenesi dei fini per cui il laicista si fa fideista mentre l’uomo religioso è realista e razionale.
La dialettica ragione-diritto-verità a livello della vita pubblica e della politica pone di fronte al problema di Cesare e di Dio. E’ la questione di fondo con cui Benedetto XVI si confronta al Bundestag, come già a Ratisbona e a Westminster. In un’omelia del tempo di Natale lo definisce così: è il problema “della politicizzazione  della religione, della deificazione del potere temporale e della instancabile ricerca della ricchezza con l’esclusione di ogni principio morale che sia valido e vincolante per se stesso”. Nella risposta di Gesù alla domanda tranello dei farisei – aggiunge – c’è il fondamento della libertà religiosa, perché “i cristiani danno a Cesare soltanto quello che è di Cesare (si vedano i testi per l’impegno per la giustizia), ma non ciò che appartiene a Dio, e ciò avviene perché sono liberi dai legami dell’ideologia”.
Per capire come il discorso al Bundestag affronti il diritto alla libertà religiosa è utile riprendere la lezione che il prof. Joseph Weiler tenne all’Università Cattolica il 13 giugno 2012. Per Weiler va letto insieme al discorso di Ratisbona, dove Benedetto XVI ripresenta la posizione cattolica su “Cesare e Dio, Stato e Chiesa, comunità religiosa nello Stato moderno pluralista. A Ratisbona con il raffinato e autoironico esempio sulle “due facoltà che si occupano di una cosa che non esiste, cioè Dio (come disse un collega dell’allora professor Ratzinger sull’insegnamento della Teologia sia nell’università cattolica sia in quella statale) Benedetto XVI fonda il diritto alla libertà religiosa accettando l’ipotesi che Dio non esista (domandando a chi pensa che non esiste che accetti ugualmente l’ipotesi che esista). Parlando di un diritto fondamentale quale la libertà religiosa si esprime così: la libertà radicale di poter essere religiosi in privato e in pubblico potendo non esserlo e di non esserlo potendo esserlo. Come si è rivelato nell’incarnazione Dio non costringe mai perché non c’è risposta di amore senza la libertà, senza il rischio del no. Non si ferma sulla pur giusta rivendicazione della libertà di espressione della propria fede, di cui parlò ampiamente nel discorso all’Onu del 2008 e oggi di nuovo così tragicamente di attualità, ma dice della possibilità di dire no a Dio. “La libertà religiosa – commenta Weiler – è anche libertà dalla religione”. Secondo Weiler la spiegazione più profonda di questo apparentemente sorprendente atteggiamento di Benedetto XVI è una spiegazione religiosa: Dio, che è amore e non c’è amore senza libertà, non può accettare una professione religiosa non libera, il sì a Dio ha significato solo se totalmente volontario, libero cioè di amore. D’altronde – diceva Cervantes nel Don Chisciotte – “la libertà è uno dei doni più preziosi che i cieli hanno dato agli uomini”. Un’adesione non libera a Dio cioè non di amore non sarebbe pienamente umana, cioè ragionevole.
Per Benedetto XVI questo vuol dire che in uno Stato moderno e democratico la maggioranza, anche qualora fosse di credenti, non può fare delle leggi religiosamente coercitive. E’ questo il significato della citazione del Paleologo, tanto travisata quanto strumentalizzata, che a commento della Sura “Nessuna costrizione nelle cose di fede” a Ratisbona gli fece dire: “Non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio”.
Ed è per questo – commenta Weiler – che Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno detto che la libertà religiosa (poter esse religiosi in privato e in pubblico potendo non esserlo e non essere religiosi potendo esserlo) è la più fondamentale delle libertà. E lo può capire anche un ateo, perché è una posizione che difende anche il suo no.
L’affermazione di Benedetto XVI ha, per Weiler, un’altra conseguenza: il cristianesimo (un fatto storico nell’incarnazione del Logos) introduce (riconosce) il legame tra logos e ethos, tra ragione e moralità. Una cosa è proibita non perché lo dice Dio, ma perché è immorale, perché non corrisponde alla ragione, alla legge naturale, al diritto naturale e politicamente vale la ragione. E’ una rivoluzione per il pensiero religioso, la rivoluzione descritta dal passaggio della lettera ai Romani già citato: i pagani “per natura” agiscono secondo la legge, sono legge a se stessi. E’ un concetto di giustizia (la fede aiuta a essere giusti per natura) che i greci possono capire e che gli ebrei hanno nella loro tradizione e quindi una base comune per la politica.
  Ratzinger a Berlino cita l’Antico Testamento, il re Salomone; Weiler in Cattolica cita Sodoma e Gomorra: Abramo che sfida Dio sulla giustizia. O meglio, l’esame a cui Dio sottopone Abramo per vedere se è degno di guidare il popolo e amministrare la giustizia. Abramo contesta a Dio che non può fare una cosa ingiusta, perché anche Dio è sottomesso alla giustizia. Anche la democrazia e quindi la maggioranza – dice Benedetto XVI – è sottomessa alla giustizia. E la giustizia fa parte della natura umana, è nel ragionamento dell’intelligenza. Non è Dio – spiega Weiler – che ha insegnato ad Abramo che non si uccide mai l’innocente con il colpevole, Abramo lo sa da sé perché a servizio dell’intelligenza ragiona. Innocenti e colpevoli: nella prefazione a “Esperienza elementare e diritto” (di Marta Catabia e Andrea Simoncini), Julian Carron cita il filosofo Paolo Rossi: “Non me ne importa niente della prova dell’esistenza di Dio. Però, come Monod, ho questo sasso nello stomaco: non accetto volentieri l’idea che il carnefice e la vittima scompaiano insieme nel nulla”. Questa – commenta – è l’obiezione che il positivismo giuridico trionfante non sa risolvere. L’esigenza di giustizia che è in noi non fa sconti a nessuna ideologia ed è l’ostacolo insuperabile di fronte ad ogni volontà di potenza.
Tutto ciò implica – deduce Ratzinger – che la tradizione religiosa che ha sviluppato questa concezione della giustizia e della dignità di ogni uomo entri a pieno titolo nel discorso pubblico, politico. La religione non è relegata né relegabile culturalmente, politicamente alla sfera privata, proprio perché accetta il test della ragione. Nel dibattito pubblico sulla giustizia (il fine della politica), quindi, la voce religiosa deve essere presente. Benedetto XVI rivendica apertamente il diritto della religione di stare nell’Agorà. Nel discorso a Westminster, prendendo ad esempio san Tommaso Moro, affronta il problema di come porre limiti all’esercizio del potere, che è la stessa cosa del chiedersi che cosa sia di Cesare e che cosa di Dio, che cosa Cesare possa legittimamente imporre ai suoi sudditi, o uno stato ai suoi cittadini. Insomma, quale fondamento abbia la democrazia, quale giustificazione etica abbiano le scelte politiche, non la conformità delle scelte politiche a una norma, ma il loro essere secondo natura e ragione.
A Westminster ribadisce che “le norme obiettive che governano il retto agire sono accessibili alla ragione prescindendo dal contenuto della rivelazione”. Allora il ruolo della religione nel dibattito politico non è quello di fornire le norme, né di proporre soluzioni politiche concrete, ma di aiutare nel purificare la ragione dal rischio di oscurare la coscienza (fa l’esempio dell’abolizione della schiavitù). Tra ragione e religione c’è un rapporto biunivoco – dice – la prima senza la seconda decade in ideologia e applicata in modo parziale non tiene conto della dignità di ogni persona umana. La religione senza la ragione, invece, cade nel fondamentalismo.
Se così stanno le cose – conclude – per i legislatori la religione non è un problema da risolvere, ma una risorsa. Kant con la priorità dell’ethos sul logos, su Dio a riguardo del problema morale, ne riconosce la risorsa: “Se il cristianesimo un giorno dovesse arrivare a non essere più degno di amore […] allora il pensiero dominante degli uomini dovrebbe diventare quello di un rifiuto e di un’opposizione contro di esso…potrebbe verificarsi, sotto l’aspetto morale, la fine (perversa) di tutte le cose”. E questo (discorso alla Sapienza) è un dato storico. Persino John Rawls, il filosofo che nega carattere di ragione pubblica alle dottrine religiose, ammette che hanno dalla loro, nel tempo, “argomentazioni sufficientemente buone a loro sostegno”. Si riconosce così che “l’esperienza e la dimostrazione nel corso di generazioni, il fondo storico dell’umana sapienza, sono un segno della sua ragionevolezza”, un “tesoro di conoscenza e di esperienza etiche importante per l’intera umanità”.
Il discorso di Berlino si chiude con la sottolineatura della decisività del cristianesimo per il patrimonio culturale dell’Europa. Lo aveva già detto a Ratisbona, definendo non reversibile la sintesi tra ellenismo e cristianesimo compiuta nella Chiesa antica nella comprensione della Parola biblica di Dio e che invece i sostenitori della necessità di nuove inculturazioni, nuovi paradigmi mettono in discussione relativizzando tutto il patrimonio dogmatico. Quelle prese allora per Ratzinger furono, in continuità dinamica della Tradizione cattolica, “decisioni di fondo che riguardano il rapporto della fede con la ricerca della ragione umana, e che fanno parte della fede stessa e ne sono gli sviluppi, conformi alla sua natura”.
Ed ecco la conclusione: “Sulla base della convinzione circa l’esistenza di Dio creatore sono state sviluppate l’idea dei diritti umani, l’idea dell’uguaglianza di tutti gli uomini davanti alla legge, la conoscenza dell’inviolabilità della dignità umana in ogni singola persona e la consapevolezza della responsabilità degli uomini per il loro agire”. Questa è la nostra “memoria culturale”, “derivante dall’incontro tra la fede in Dio di Israele, la ragione filosofica dei greci e il pensiero giuridico di Roma […] questo incontro ha fissato i criteri del diritto, difendere i quali è nostro compito in questo momento storico”. Da che cosa è segnato “questo momento storico”? E’ la seconda parte della risposta alla domanda: come si riconosce ciò che è giusto? Che cosa fosse giusto per i combattenti della resistenza contro il nazismo – dice – era evidente. “Oggi, di fronte alle fondamentali questioni antropologiche quale sia la cosa giusta tale da diventare nella politica diritto vigente non è affatto evidente di per sé”.
Noi viviamo in un’epoca in cui, per la prima volta dopo l’avvento del cristianesimo le evidenze elementari non sono più evidenti. “Avete visto sorgere un mondo dopo Gesù senza Gesù, voi siete i primi dei moderni” (Péguy). Un’epoca in cui il diritto positivo, come ai tempi dell’impero romano, cioè la volontà del potere, pretende di determinare chi è persona e chi non lo è. Viviamo in un tempo, è questa la novità che facciamo fatica ad ammettere, in cui non c’è più nessuna evidenza, è escluso ogni principio morale che sia valido e vincolante per se stesso. Le grandi convinzioni eredità di quell’incontro tra Atene, Gerusalemme e Roma, di quella sintesi tra ragione e cristianesimo, su cui è andata avanti una società in cui convivevano credenti e non credenti, non hanno più forza di motivazione per il vivere. Il tentativo antimetafisico e anticristiano di fondarle laicamente operato dall’illuminismo e da Kant è fallito.  
Ora, Benedetto XVI non auspica il ritorno a un diritto naturale consistente in una serie di norme, ma ne rilancia il focus: ogni persona nel suo essere dono unico e irripetibile del Donatore divino e per chi non crede soggetto, il cuore (ragione e libertà) di ogni uomo. Il diritto naturale viene considerato oggi una dottrina cattolica piuttosto singolare – dice – una serie di enunciati fissati per sempre. Ratzinger non li disconosce, come non disconosce la Dottrina sociale, dice che vanno riconquistati e rivissuti in un nuovo inizio, sempre, non grazie all’automatismo di una comunicazione fatta e servita pronta per l’uso, ma attraverso il lavoro di “un cuore docile”. Salomone, citato a Berlino, non chiede a Dio: detta che io eseguo. Ma: “concedi al tuo servo un cuore docile perché sappia rendere giustizia al popolo e sappia distinguere il bene dal male”.
La riscossa davanti alla mancanza delle evidenze elementari è nell’irruzione dell’io, della persona, esattamente come con l’arrivo dei cristiani nella Roma imperiale del I secolo. E non c’è niente di più laico. Noi siamo laici – dice Ratzinger in un libro del 2004 sugli Stati Uniti (“Senza radici, Europa, relativismo, cristianesimo, islam”) – per amore della religione, non nonostante i nostro cristianesimo, ma proprio a causa della nostra religione. Alla base della società americana – osserva – c’è una separazione netta tra stato e chiesa voluto dalla religione. Quei cristiani fuggivano dal sistema di chiese di stato e hanno quindi operato una separazione positiva ben diversa dalla laicità nata dalla rivoluzione francese. Ne è conseguito che ciò è che non è statale non è escluso dalla dimensione pubblica, anzi, è incoraggiato e addirittura il sistema fiscale lo favorisce. 
Alla base della “Dignitatis Humanae”, la dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa – dice Ratzinger – c’è l’influenza dei vescovi americani e di questa “esperienza della non statalità della chiesa come una forma cristiana emergente della natura stessa della chiesa”.
Allora, il compito oggi, per i cristiani che si impegnano in politica come una forma di carità, è nel felice titolo di questa raccolta “Liberare la libertà”: affermare questa libertà positiva. Come questa libertà implichi i concetti di sussidiarietà, di protagonismo sociale, di corpi intermedi, di rapporto con le istituzioni richiederebbe altre parole. 
I cristiani non hanno già fatte ricette politiche se non questo impegno con la loro umanità fatta di ragione, libertà e storia. Sono, siamo, uomini a cui il passato consegna una ricchezza che oggi è a rischio di nostalgia inutile se non origina una novità presente. Se saremo leali con quel dato della realtà che è la nostra natura di uomini – dice Chesterton – potranno pur dirci che non abbiamo ragione, ma non potranno accusarci di non avere la ragione per l’impegno politico.

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