La struttura della celebrazione liturgica

La liturgia ha per sua natura il carattere di festa come festa della risurrezione e della presenza e azione sacramentale continua del risorto nell’eucaristia: qui viene superata la morte, risalta il carattere cosmico e universale e reso possibile l’amore. L’adorazione è la verità che rende liberi.

Traggo liberamente da Fede, Ragione, Verità e Amore di Joseph Ratzinger pp.487-497 
La crisi attuale della liturgia e di conseguenza della Chiesa, in cui ci troviamo da parecchio tempo, è dovuta solo in minima parte alla differenza tra vecchi e nuovi libri liturgici.
Sempre più chiaramente si può constatare che sullo
sfondo di tutte  le dispute rimane aperto un profondo dissenso sulla natura della celebrazione liturgica, la sua provenienza, i suoi ministri e la sua retta forma. Ne va della questione della struttura fondamentale della liturgia in quanto tale; più o meno consciamente si scontrano qui due concezioni radicalmente diverse.
I concetti portanti della nuova visione della liturgia si possono  riassumere in questi termini-chiave: creatività, libertà, festa, comunità. Da una tale visione il rito, il vincolo cerimoniale, l’interiorità, appaiono come concetti negativi che descrivono lo status da superare della “vecchia” liturgia. Io mi accontento di addurre per questa “nuova”  visione della struttura liturgica un testo scelto a caso che è rappresentativo di un intero genere letterario: La liturgia non è un rituale sancito ufficialmente, ma una celebrazione concreta, essenzialmente strutturata dall’assemblea, con tutti i giochi del regolamento. La liturgia non è un culto oggettivo devozionale, proprio della chiesa, che deve essere adempiuto … Come il messale è dato al sacerdote quale libro del suo ruolo, così la comunità ha tra le mani il  libro dei canti: il ruolo della comunità viene anche accentuato dal fatto che la liturgia si svolge in un luogo concreto, in una determinata comunità …Il canto della comunità è stato rivalutato a partire dalla riforma liturgica: il proprio non consiste più nel fatto di cantare bensì in quello che viene cantato…. Il pensiero fondamentale che è alla base di queste riflessioni è che la liturgia è celebrazione comunitaria, un atto in cui la comunità si forma e si sperimenta come comunità. Di fatto in questo modo la liturgia sia nella sua forma tipica che nell’atteggiamento spirituale retrocede nella prossimità di un party. Ciò è dimostrato, ad esempio, dalla crescente importanza riservata alle parole di saluto e di commiato come anche dalla ricerca di elementi che abbiano valore di intrattenimento. L’effetto di intrattenimento diventa anzi criterio di una “riuscita” celebrazione liturgica che perciò si deve basare sulla “creatività”, cioè sulle trovate dei suoi organizzatori.
La natura della celebrazione liturgica
Il fatto che simili concezioni, sviluppate nelle loro logiche conseguenze, porterebbero ad abolire la liturgia, cioè la celebrazione pubblica comunitaria della Chiesa, non deve farci dimenticare che nel loro punto di partenza vi è un fondamentale elemento giusto a partire dal quale dovrebbe essere possibile un dialogo sulla struttura fondamentale della liturgia. Questo elemento sta nella concezione della liturgia come celebrazione; più chiaramente dobbiamo dire: la liturgia ha per sua natura il carattere di festa. Se possiamo far valere questo come dato previo comune, possiamo ora cominciare la disputa su cosa fa sì che una festa sia appunto festa. La concezione descritta vede evidentemente realizzata la festa in un’esperienza concreta, comunitaria di un gruppo cresciuto e sviluppatosi in “comunità”. Essa inoltre considera come premessa e contenuto di una tale auto esperienza della comunità la spontaneità e la libera espressione, cioè la liberazione dalle rigide regole quotidiane e la raffigurazione creatrice che contemporaneamente rende manifesto che cosa sostiene la comunità in quanto comunità. La liturgia è allora in questo “gioco” con ruoli ben definiti in cui tutti prendono parte al gioco e rendono così possibile la “festa”. Anche in questa concezione io vedo qualcosa di giusto e cioè il pensiero che dell’essenza della festa appartiene la libertà come liberazione dalle costrizioni del quotidiano e che perciò la festa fonda la comunità. Ma una tale liberazione, tuttavia, per poter veramente essere tale deve significare precisamente un’uscita dalle “costrizioni dei ruoli”, un deporre i ruoli per far emergere il proprio di una persona. Deve causare il salto dal “ruolo” all’essere. Altrimenti tutto resta un gioco, apparenza più o meno bella che ci mantiene perciò nel mondo delle apparenze e non ci dà libertà e comunità, anzi le nasconde.
Considerando questo, è valso che in tutte le culture il principio che la festa presuppone un’autorizzazione che i partecipanti alla festa non possono darsi da se stessi. Non si può decidere di celebrare una festa, essa ha bisogno di fondamento e per di più oggettivo che è anteriore ai propri desideri. In altri termini: io posso rappresentare la libertà quando io sono effettivamente libero; altrimenti la rappresentazione della libertà diventa una tragica autoillusione. Io posso rappresentare la gioia solo quando il mondo e l’umanità danno veramente il motivo di rallegrarsi. Ma lo fanno essi veramente? Quando queste domande vengono messe da parte il party , tentativo del mondo post-religioso di ritrovare la festa, diviene rapidamente una tragica mascherata. Perciò non un caso che il party – ogni qual volta delle persone hanno cercato in esso la “redenzione”, cioè l’esperienza della liberazione dall’autoalienazione, dalla costrizione del quotidiano e l’esperienza di una comunione che oltrepassi l’io – abbia subito oltrepassato i limiti dell’intrattenimento borghese per degenerare in baccanale. La droga che non viene presa isolatamente bensì deve essere celebrata insieme deve operare il viaggio nel totalmente altro, viaggio che solo viene sperimentato come fuga liberante dal quotidiano nel mondo della libertà e della bellezza. Sullo sfondo c’è la domanda per eccellenza del dolore e della morte cui nessuna libertà può opporsi. Chi non si pone queste domande si muove in un mondo di finzioni la cui miseria artificiale non può essere superata neppure da patetiche declamazioni sul dolore dei popoli oppressi, declamazioni che non per caso appartengono al nucleo comune di quasi tutte queste liturgie auto inventate. Detto con altre parole: dove la festa vien fatta coincidere con interazioni comunitarie e la libertà viene scambiata con la “creatività” di trovate artefatte, l’umanità è ridotta a una fiammata e, per quanto belle possano sembrare le parole, la vera domanda è evitata. Non c’è bisogno di essere un profeta per predire breve durata a simili esperimenti. In ogni caso essi possono contribuire a distruggere ulteriormente la liturgia.
 Ma proviamo a tirare le conseguenze dal positivo che abbiamo trovato! Abbiamo detto: la liturgia è una festa! Nella festa ne va della libertà, nella libertà dell’essere al di là dei ruoli. Ma dove emerge l’essere, fa anche capolino la domanda della morte. A questa domanda deve innanzitutto rispondere la festa. Facendo il processo inverso: la festa presuppone l’autorizzazione alla gioia; questa autorizzazione è valida solo se è in grado di far fronte alla domanda sulla morte. Proprio per questo ha sempre avuto carattere cosmico e universale nella storia delle religioni: cercava di rispondere alla domanda sulla morte riferendosi all’universale potenza vitale del cosmo. Ma ora si potrà obiettare che nel nostro caso si tratta proprio di ricercare l’essenza della liturgia cristiana da categorie generale della storia delle religioni. Ciò è perfettamente giusto per quel che concerne l’affermazione positiva e la struttura della festa cristiana; ma contemporaneamente va da sé che l’inderivabile novità del cristianesimo è la risposta alla domanda comune di tutti gli uomini e quindi deve essere riferita a un fondamentale contesto antropologico senza il quale proprio questa verità resterà incompresa.
Questa novità poi consiste nel fatto che la risurrezione  di Cristo dà l’autorizzazione alla gioia ricercata da tutta la storia e che nessuno era in grado di fornire. Perciò la liturgia cristiana (Eucaristia) è per sua natura festa della resurrezione, Mysterium Paschae. In quanto tale essa porta in sé il mistero della croce che è poi l’intima premessa della resurrezione. Ci troviamo semplicemente di fronte a un eccessivo deprezzamento quando l’Eucarestia viene spiegata come il pasto della comunità: essa è costata la morte di Cristo e la gioia che essa promette presuppone l’entrata in questo mistero di morte. L’Eucarestia è orientata escatologicamente ed è quindi centrata sulla teologia della croce: non si può celebrarla senza il Crocefisso. Questo si intende quando la Chiesa resta fedele al carattere sacrificale della messa rendendo attuale in ogni luogo e tempo, in modo incruento, ciò che in modo cruento è avvenuto una volta per sempre sul Calvario; qui si decide effettivamente se si resta fedeli o si manca pienamente l’ordine di grandezza senza il quale l’autentica profondità dell’umanità e l’autentica profondità della potenza liberante di Dio vengono messe da parte. In altri termini: la libertà che è in gioco nella festa cristiana, l’Eucarestia, non è la libertà di inventare testi ma la liberazione del mondo e di noi stessi dalla morte, dalla paura di morire, liberazione che sola può disporci ad accettare la verità e ad amarci gli uni e gli altri in verità, nella prospettiva di una meta di vita veramente vita che dura eternamente. Dalla concezione di base qui sviluppata derivano da se stesse altre due essenziali strutture dell’Eucarestia. La prima consiste nel carattere di latria, di adorazione dell’Eucarestia, carattere di cui a stento si parla nelle teorie dei ruoli: Cristo è morto pregando; egli ha anteposto il suo sì al Padre all’opportunità politica e per questo andò verso la croce, rivelando l’altezza, la lunghezza, la larghezza, la profondità con cui Dio ci ama ognuno e tutti insieme. Così sulla croce egli ha diretto il suo sì al Padre, ha glorificato in esso il Padre e fu proprio questo modo di morire che con logica conseguenza portò alla risurrezione. Questo significa: l’autorizzazione alla gioia, il sì liberante, vittorioso alla vita veramente vita ha il suo luogo più proprio nell’adorazione. La croce è in quanto adorazione “elevazione”, presenza della resurrezione; celebrare la festa della, resurrezione significa entrare nell’adorazione. Se con “festa della resurrezione” viene descritto il senso centrale della liturgia cristiana, l’”adorazione” è in questo caso il centro da cui tutto prende forma: qui viene superata la morte e reso possibile l’amore cioè già in questa vita l’avvenimento del Regno di Dio. L’adorazione è la verità di chi è Dio e chi è ogni essere umano che Dio ama e a cosa si è destinati.
La seconda caratteristica dell’Eucarestia è la seguente: con quanto detto finora risalta il carattere cosmico e universale della liturgia. La comunità non diviene tale per una serie di azioni reciproche ma per il fatto che essa si accetta dal tutto e si ridona al tutto. A partire da questa constatazione si potrebbe dimostrare passo per passo perché la liturgia non è “fatta”, ma accolta e di fatto ogni volta viene rivitalizzato qualcosa di già esistente; si potrebbe così dimostrare perché la sua universalità si esprime nella sua forma pan-ecclesiastica che come “rito” viene pre -data alla singola comunità.  
Sviluppare qui i singoli punti ci condurrebbe troppo lontano. Il pensiero centrale è stato in ogni caso espresso con quanto detto finora: la liturgia in quanto festa scavalca l’ambito del fatto e del fattibile, essa introduce nel campo del dato, del vivo che ci viene incontro. Perciò la crescita organica nell’universalità della tradizione comunitaria  è stata legge fondamentale della liturgia in tutti i tempi e in tutte le religioni. Anche nel grande salto dal vecchio al Nuovo Testamento questa regola non è stata inficiata e la continuità del divenire liturgico non è stata rotta: Gesù aveva introdotto le parole della cena organicamente nel contesto della liturgia ebraica, lì dove questa era a esse aperta, dove, per così dire, le attendeva interiormente. La chiesa nascente ha continuato con cura questo processo dell’approfondimento interiore, della purificazione e dell’estensione dell’eredità veterotestamentaria. Né gli apostoli né i loro successori hanno “fatto” una liturgia cristiana; essa si sviluppò organicamente dalla lettura cristiana dell’eredità ebraica, lettura che in breve tempo si coniò come forma. Nel far ciò vennero filtrate le esperienze di preghiera delle singole comunità che ovviamente si muovevano nella forma fondamentale dell’unica Chiesa in cui a poco a poco si sviluppavano le forme particolari di estese circoscrizioni ecclesiastiche. In questo senso ci fu sempre per la singola comunità o per il singolo liturgo la determinatezza della liturgia: essa è garante ed espressione del fatto che qui avviene qualcosa di quantitativamente e qualitativamente superiore di quanto possano fare sia le singole comunità sia addirittura gli uomini in quanto tali; essa è espressione dell’oggettiva autorizzazione alla gioia, della partecipazione al dramma cosmico della resurrezione di Cristo, partecipazione dalla quale dipende il ruolo della liturgia. Inoltre questa determinatezza delle parti essenziali della liturgia è anche garante della vera libertà dei fedeli: solo così hanno la sicurezza di non essere esposti alla invenzioni di un singolo o di un gruppo ma incontrano la realtà che vincola anche il parroco, il vescovo, il papa e dà a tutti lo spazio della libertà per l’appropriazione personale del mistero diretto a tutti noi.
  Del resto bisogna qui anche notare che la “creatività” delle liturgie fatte per conto proprio si muove in un circolo ristretto che è necessariamente misero in confronto alla ricchezza della liturgia formatasi nei secoli anzi nei millenni; purtroppo i costruttori di liturgia se ne accorgono sempre più tardi dei partecipanti. Ancora il numero di coloro che possono far valere un tale diritto è sempre molto limitato, e quel che per essi è libertà è contemporaneamente “esercizio di autorità” verso gli altri. Invece nella liturgia della Chiesa formatasi nei secoli vi è ampio spazio in cui sono chiamate le forze creative. Vi è spazio per la preparazione artistica, specialmente nel campo musicale; nella concreta strutturazione dei servizi liturgici e, secondo le circostanze, nell’adeguata preparazione del luogo liturgico. La creatività si estende ancora alla preghiera dei fedeli e ha il punto culminante nell’annuncio della parola riservato al sacerdote in cui questi traduce la comune novella nell’hic et nunc dei partecipanti. Chi si pone con vera serietà di fronte a questo compito sperimenterà con dolore sempre nuovo i limiti della sua “creatività” e certamente non avrà il desiderio che essa venga estesa.
La corrispondenza soggettiva alla natura oggettiva della liturgia
Siamo così arrivati alla seconda parte delle nostre riflessioni. Abbiamo prima di tutto cercato di individuare la struttura fondamentale della liturgia e l’abbiamo descritta precipuamente con il concetto di festa che poi, dal punto di vista del contenuto, è stata caratterizzata  come festa della risurrezione del Signore. Da qui era risultato per noi di fronte alla presenza sacramentale del Risorto il primato dell’adorazione e il carattere oggettivo dell’autorizzazione alla gioia che ci si è manifestato nel legame alla Chiesa universale e alla sua storia come pure alla sua forma precostituita come spazio della libertà e della comunione. Così siamo passati senza soluzione di continuità alla ricerca della struttura oggettiva a quella della posizione del singolo e della comunità nella celebrazione liturgica, posizione che ora deve essere ulteriormente approfondita.
Come è noto a tutti il Concilio Vaticano II ha descritto questo aspetto con il concetto di Participatio actuosa. Conformemente alle dimensioni dell’essere umano il concetto di “partecipazione” come quello di “essere attivo” deve essere illustrato dalle diverse prospettive del singolo e della comunità, dell’interiorità e dell’espressione. Perché ci sia comunità è necessaria l’espressione comunitaria; ma affinché l’espressione non resti esteriorità è necessaria una interiorizzazione comunitaria, una via comunitaria verso l’interno (e l’alto). Dove l’uomo entra in gioco solo nella dimensione dell’espressione, solo come “ruolo” e in ruoli, ha origine una comunità fatta solo di giochi che si dissolve nuovamente col gioco e con i suoi ruoli. Il senso di isolamento, della solitudine connaturata dell’uomo e l’incomunicabilità tra i diversi io di un’intera generazione e il senso di rivolta contro l’umanità di cui noi oggi facciamo esperienza, sono ampiamente riscontrabili sul fondo di questa prassi. Questo sentimento si basa sull’esperienza che la via verso l’interiorità porta alla chiusura dei diversi io e che la via verso l’esteriorità nasconde solamente questa impossibilità di un rapporto reciproco. Ma proprio a questa domanda può e deve rispondere la liturgia cristiana. Essa non lo fa quando si esaurisce nell’attività esteriore. La sua possibilità unica e specifica consiste nel fatto che con l’interiorizzazione comunitaria sotto la guida delle preghiere comuni della Chiesa e dell’esperienza del Corpo di Cristo in esse presente, lì è possibile e vera un’espressione comunitaria; lì si incontrano gli uomini non più solo in ruoli, ma si toccano reciprocamente nell’essere e solo così  avviene “comunità”.
Per questo motivo ritengo infelice l’espressione del “libro liturgico dei ruoli”. Certo il libro di preghiera liturgico permette anche l’inserimento nell’espressione liturgica comunitaria e ha evidentemente in questo senso anche qualcosa del “libro dei ruoli”. Ma tale libro svolge il suo vero compito solo se nella preghiera spoglia l’uomo dei suoi ruoli, lo pone personalmente, svelatamente davanti al suo Dio e in tal modo libera in lui lo spazio in cui solamente noi possiamo veramente comunicare. Anche la preghiera comunitaria, liturgica deve mirare a che si preghi veramente, cioè che noi non parliamo l’un l’altro, reciprocamente, ma parliamo invece a Dio e davanti a Dio; in questo caso ci parliamo anche reciprocamente nel modo migliore e più profondo. Questo significa che nel campo della partecipazione liturgica, che nella sua dimensione più profonda dovrebbe essere partecipatio Dei, partecipazione a Dio e quindi alla vita, alla libertà, l’interiorizzazione ha la precedenza. Questo significa ancora che questa partecipazione non si può esaurire nel momento dello svolgimento liturgico; che la liturgia non può essere addossata all’uomo dall’esterno come un happening ma ha bisogno di educazione e di pratica liturgiche. Purtroppo tutto il grandioso lavoro che uomini come Romano Guardini e Pius Parsch hanno svolto a questo riguardo è stato cestinato con i nuovi libri come cartaccia; invece non avremmo niente di più necessario oggi che il rinnovamento e la continuazione del tipo di ricerche che sono state svolte a suo tempo soprattutto da Pius Pasch. Invece di presentare sempre nuovi progetti di strutture liturgiche, la liturgia dovrebbe nuovamente ritornare al suo compito originario di servire all’educazione liturgica, cioè aiutare a sviluppare la capacità di appropriazione interiore della liturgia comunitaria della chiesa. Solo così può essere reso superfluo il profluvio di spiegazioni che distrugge la liturgia e che poi non spiega nulla.
Siamo così giunti dalla questione del rapporto tra il singolo e la comunità, alla questione sulle forme espressive della liturgia senza alcuna forzatura. La teologia della creazione e quella della resurrezione (che include e rende definitiva l’incarnazione) richiedono con forza cogente la corporeizzazione della preghiera, l’inglobamento di tutte le dimensioni corporee: la spiritualizzazione del corpo e la corporeizzazione dello spirito si esigono reciprocamente; solo quando ciò avviene si avrà l’”umanizzazione” dell’uomo e del mondo, umanizzazione che consiste proprio nel fatto che la materia viene portata alle sue possibilità spirituali e lo spirito viene espresso nella pienezza della creazione. A partire da qui deve essere criticato l’unilaterale predominio della parola che purtroppo sembra essere in parte accolto anche dai libri liturgici ufficiali. A questo proposito bisognerebbe con insistenza richiamare alla memoria il piccolo, bel libro di Romano Guardini sui santi segni. Alla liturgia appartiene la parola e il silenzio; il canto, la lode degli strumenti e l’immagine; i simboli e il gesto rispondente alla parola. Io vorrei qui brevemente soffermarmi solo su due egli elementi indicati. Il silenzio come comune viaggio verso l’interno, come interiorizzazione di parola e segno, come liberazione dai ruoli che nascondono il proprio di una persona, è indispensabile, dopo quanto detto, per una vera e actuosa partecipatio. Esso crea il modo. Lo spazio in cui l’uomo fa proprio il duraturo: la tensione liturgica non può consistere nel “cambiamento” ma nel fatto che viene offerta la possibilità di incontrare ciò che è veramente grande e increato che non ha bisogno di cambio perché in grado di soddisfare: la verità e l’amore. Con il ruolo dunque che ha il silenzio non sono adeguati i pochi secondi tra l’oremus e la preghiera che, oltretutto, spesso suonano molto artificiali. Altri spazi di silenzio si dovrebbero avere durante la preparazione dei doni e prima e dopo la comunione; purtroppo il primo contro la volontà del messale viene rispettato molto di rado. Benché si contrapponga alle teorie predominanti io vorrei aggiungere che anche l’intero canone non deve essere necessariamente sempre recitato ad alta voce. Affermare questo significa misconoscere il suo carattere di annuncio. Dove in una comunità è avvenuta la richiesta di educazione liturgica, necessaria per la natura della celebrazione che rimanda all’invisibile attraverso il visibile, i fedeli sanno su quali elementi fondamentali è costruito il canone della Chiesa. In tal caso basta per esempio proclamare ad alta voce le prime parole delle singole parti della preghiera, quasi come parole chiave. La partecipazione dei fedeli e quindi anche il successo dell’annuncio saranno in questo modo superiori di quando l’ininterrotta proclamazione ad alta voce soffoca l’esigenza interiore delle parole. La moltiplicazione delle anafore cui purtroppo si è arrivati in altri paesi e che da noi è cominciata già da lungo tempo, è espressione di una situazione estremamente dubbia, tanto più che la qualità e l’adeguatezza teologica sono in parte ai limiti del sopportabile. Tali erosioni sono un sintomo che la continua recita a voce alta del canone strappa formalmente il grido di cambiamento che però non può essere soddisfatto neppure da un sì gran numero di anafore. La soluzione non può venire che dall’accettazione della tensione insita nella realtà; anche il cambiamento è alla distanza noioso. Perciò è particolarmente urgente a questo punto l’educazione all’interiorizzazione, l’accostamento al nucleo essenziale, anzi ne va della sopravvivenza della liturgia in quanto tale. Solo il coraggio di riapprendere nel silenzio la parola può salvare dall’accumularsi delle parole che in fondo induce a parlare proprio lì dove si dovrebbe incontrare la Parola, il Logos del Padre nello Spirito Santo, che in quanto parola dell’amore crocifisso e risorto è autorizzazione alla vita e alla gioia.
La mia seconda annotazione si riferisce al significato dei gesti. Lo stare in piedi, l’inginocchiarsi, lo star seduti; l’inchinarsi e il sollevarsi, il battersi il petto, il segno della croce; tutto questo ha un imprescindibile significato antropologico come auto dimostrazione dello spirito, della vita divina nel corpo: l’interno e l’esteriore stanno in mutuo rapporto particolarmente importante per ambedue. Io vorrei concludere con un accenno al gesto centrale dell’adorazione che oggi rischia sempre più di sparire: l’inginocchiarsi. Noi sappiamo che il Signore ha pregato stando in ginocchio (Lc 22,4), che Stefano (At 7,60), Pietro (At 9,40) e Paolo (At 20,36) hanno pregato in ginocchio. L’inno cristologico della Lettera ai Filippesi (2,  6-11) presenta la liturgia del cosmo come un inginocchiarsi di fronte al nome di Gesù (2,10) e vede in ciò adempiuta la profezia isaiana (Is 45,23) sulla signoria sul mondo del Dio d’Israele. Piegando il ginocchio nel nome di Gesù, la Chiesa compie la verità che nessun dono creato va colto come idolo; essa si inserisce nel gesto del cosmo nel suo essere dono del Donatore divino che rende omaggio al vincitore e così si pone dalla parte dle vincitore poiché un tale inginocchiarsi è una rappresentazione e assunzione imitativa dell’atteggiamento di colui che “era uguale a Dio” e “ha umiliato, assumendo un volto umano, se stesso fino alla morte”. La Lettera ai Filippesi, fondendo la parola profetica dell’Antico Testamento con la vita di Gesù Cristo, ha conferito al gesto dello stare in ginocchio, che essa presuppone come atteggiamento dei cristiani di fronte al nome di Gesù cioè della Persona divina del Verbo in un volto umano morto e risorto, sacramentalmente presente, una profondità cosmica e storico – salvifica in cui il gesto corporale diviene una confessione del Cristo non sostituibiel da parole.
Così a conclusione è ritornata la parola che ci riconduce all’inizio: la liturgia cristiana è liturgia cosmica, così ci dice san Paolo nella Lettera ai Filippesi. Essa  non può lasciarsi deviare da questa grandezza neppure dall’attrattiva di piccoli gruppi e dall’auto invenzione. Quel che vi è di esaltante in essa è che fa uscire dalla piccineria e ci fa partecipare alla verità. Mettere in luce questa sua grandezza liberante deve essere il vero compito di ogni rinnovamento liturgico.

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