Maria, Stella dell’Evangelizzazione Madre della Chiesa

Esercizi spirituali attingendo molto e liberamente da LA STRANIERA Meditazioni sulla Chiesa di Massimo Camisasca (Ed. San Paolo)

Non può mancare in un incontro di Esercizi spirituali la forza del silenzio che è il clima interiore, l’atteggiamento interiore, la disponibilità interiore che consente la preghiera cioè l’ascolto, soprattutto personale, della Parola di Dio che è come una spada affilata. Ed è la stessa immagine che la Lettera agli Ebrei utilizza per definire la Parola, che, come
spada affilata, penetra fino nel profondo di noi stessi se la si recepisce come Dio che parla, che opera ciò che dice con l’ascolto o preghiera (Eb 4,12). Se c’è silenzio su Dio e con Dio, non possiamo neppure prendere sul serio la sua Parola salvifica, farci interrogare ed illuminare da essa. La cultura secolare che oggi respiriamo, che predomina in Occidente e che vorrebbe porsi come universale e autosufficiente, genera un nuovo costume secolarizzato di vita anche senza rendercene conto. Ne deriva una nuova ondata  di illuminismo e laicismo anticristiano, per la quale sarebbe razionalmente valido soltanto ciò che è sperimentabile e calcolabile, mentre sul piano della prassi la libertà individuale viene eretta a valore fondamentale al quale tutti gli altri dovrebbero sottostare. Così Dio rimane escluso dalla cultura e dalla vita pubblica, e la fede in Lui diventa più difficile, anche perché viviamo in un mondo che si presenta quasi sempre come opera nostra, nel quale per così dire, Dio non compare più direttamente, sembra divenire superfluo ed estraneo. Certo noi abbiamo bisogno di tante speranze storiche – più piccole o più grandi – che giorno per girono ci mantengano in cammino. Ma senza la grande speranza, che deve superare tutto il resto, esse non bastano. Questa speranza può essere solo Dio, che abbraccia l’universo e che può proporci e donarci ciò che, da soli, non possiamo raggiungere perché nel momento della morte niente e nessuno possono accompagnarci. Solo Dio è il fondamento di questa speranza – non un qualsiasi dio, ma quel Dio che possiede un volto umano dato verginalmente da Maria e che ci ha amati sino alla fine lasciandosi uccidere e risorgendo: ha amato ogni singolo e l’umanità nel suo insieme e che risorto, con il corpo trasfigurato presso il Padre nello Spirito Santo, dopo l’Ascensione si fa presente e operante sacramentalmente nel suo corpo, nella sua Chiesa per tutti e per tutto. Il suo regno non è un al di là immaginario, posto in futuro che non arriva mai; il suo regno è già presente là dove Egli è amato e dove il suo amore ci raggiunge nella concretezza del nostro amore fraterno e nel farci suo dono nella missione, nella carità. Solo il suo amore attraverso la sua presenza sacramentale nella Chiesa ci dà la possibilità di perseverare con ogni sobrietà giorno per giorno, senza perdere lo slancio della speranza, in un mondo che, per sua natura, è imperfetto. E l’esperienza ecclesiale del suo amore, allo stesso tempo, è per noi garanzia che esiste ciò che solo vagamente aspettiamo: la vita che è “veramente vita” già nella carità in attesa del di più oltre questa vita. Ma se cediamo alla tentazione di trasformare in idoli i doni secolari relativi, la nostra appartenenza al Corpo di Cristo, alla Chiesa si trasforma davvero in quella ONG di cui Papa Francesco ha parlato, in termini critici, sin dall’indomani della sua elezione:
Noi possiamo camminare quanto vogliamo, noi possiamo edificare tante cose, ma se non confessiamo Gesù Cristo, la cosa non va. Diventeremo una ONG esistenziale, ma non la Chiesa, sposa del Signore. Quando non si cammina, ci si ferma. Quando non si edifica sulle pietre cosa succede? Succede quello che succede ai bambini sulla spiaggia quando fanno dei palazzi di sabbia, tutto viene giù, senza consistenza. Quando non si confessa Gesù Cristo, mi sovviene la frase di Léon Bloy: ‘Chi non prega il Signore, prega il Diavolo’: Quando non si confessa Gesù Cristo, si confessa la mondanità del Diavolo, la mondanità del Demonio (Omelia nella S. Messa coi Cardinali, 14.03.2013).
Ad una Chiesa che rischia di impoverirsi perché può chiudersi in metri di giudizio puramente temporali, il silenzio apre a una verifica al di più della nostra patria che è nei cieli (Fil 3,20). Eppure questa donna, la Chiesa, vive già sulla terra anticipando il cielo, la Chiesa cioè Cristo tra i suoi, ed è la donna che amo che vorrei farla conoscere e vorrei che fosse amata e prima ancora conosciuta per quello che è.
Questa mia amata è un popolo di peccatori eppure santo. Rappresenta una terra di passaggio continuo dalla dispersione all’unità, dalla tenebra alla luce, dal peccato al perdono poiché il suo amore  fino al perdono è sempre più grande di ogni peccato e ricrea ciò che il male compiuto nel passato ha fatto per cui non ricorda più e domanda di non ricordare i peccati perdonati nella confessione. Nessuno può essere definito dal male che fa con una morale cristiana che è tentare e ritentare senza pretendere di riuscire con la fiducia che Lui porterà a compimento non noi.
Lo scopo di questi Esercizi, nell’orizzonte della Stella dell’Evangelizzazione, è sentirsi amati e amare il corpo di Cristo risorto. Non si può sentirsi amati e amare Cristo, Dio con noi, la Verità che rende liberi, se non ci si sente amati e non si ama la Chiesa, perché, come ci ricorda san Paolo, Cristo ha amato e ama la Chiesa e ha dato se stesso per lei (Ef 5,25), scrive dritto su eventuali sue righe storte e non permetterà mai che la Chiesa soccomba nel male. Essa rappresenta nella concretezza della famiglia, della parrocchia, della diocesi, della comunità cristiana dove concretamente si vive e si opera, quel cammino concreto, carnale, dall’uomo a Dio e da Dio all’uomo. Che è la strada affascinante creata e ricreata continuamente dalla misericordia divina a cui aspira ogni creatura anche inconsapevolmente, anche combattendola ideologicamente.
Più negli anni passati dominava l’ideologia: Cristo sì, la Chiesa no. Questa tentazione gnostica ci allontanerebbe dal solco della divino-umanità di Gesù che continua nella Chiesa e trasformerebbe l’incontro con Lui in un’esperienza puramente spirituale, morale. La Chiesa ci fa toccare con mano attraverso i suoi, attraverso amicizie, la tenerezza di Cristo, la sua generosità, le sue parole, i suoi gesti. Esiste perciò nella fede una passione indivisibile verso Cristo e la sua sposa. Papa Francesco nell’Omelia nella solennità di Maria, Madre di Dio e della Chiesa, del 1 gennaio 2015 così si è espresso:
 “Separare Gesù dalla Chiesa sarebbe  voler introdurre una ‘dicotomia assurda’, come scrisse il Beato Paolo VI. Non è possibile ‘amare Cristo ma non la Chiesa, ascoltare il Cristo ma non la Chiesa, appartenere al Cristo ma al di fuori della Chiesa”.
 Infatti è proprio la Chiesa, la grande famiglia di Dio per tutta l’umanità e il cosmo, che ci fa incontrare Cristo e nel dono del suo Spirito ci rende figli nel Figlio e quindi fratelli. La nostra fede non avviene e non si mantiene come conclusione di una dottrina astratta, di una morale, ma è la relazione sacramentale e vitale, piena con una persona viva nella Chiesa e attraverso la Chiesa: Gesù Cristo, morto e risorto per salvarci e sempre vivo e operante in mezzo a noi che ci dà la possibilità di ricominciare anche dopo crisi, per cui nessuno, fino al momento terminale della vita, è definibile dal male che fa. Pur essendo il Battista il più grande nato di donna dell’Antico Testamento, dell’Antica Storia di Amore di Dio con il suo popolo, io piccolo nella Nuova Storia di Amore, nella Nuova Alleanza, mi sento più grande nel ripetere nella Messa “Ecco l’Agnello di Dio”: attraverso il mio ministero è la Chiesa che lo annuncia; è nella Chiesa che il Risorto ci fa rivivere tutti i fatti e i detti della sua vita terrena o Vangelo memorizzati dai quattro evangeli e continua a compiere i suoi gesti di grazia o sacramenti: ad ogni Natale posso cantare oggi Cristo è nato. Questa azione e missione della Chiesa continua l’incarnazione, il Dio con noi, ed esprime la sua maternità. Infatti essa è come una madre che custodisce il farsi presente in continuità del Risorto con tenerezza e lo offre alla libertà di tutti con gioia e generosità come è avvenuto in Maria, Stella dell’Evangelizzazione e come avviene continuamente attraverso di lei, donna eucaristica come la chiama San Giovanni Paolo II. Nessuna manifestazione di Cristo, neanche la più carismatica, può mai essere staccata dalla carne e dal sangue della Chiesa, dalla concretezza storica del corpo gerarchico di Cristo. Senza la Chiesa, Gesù Cristo finisce per ridursi a un’idea, a una morale, a un sentimento, a un sogno, come la tentazione gnostica lo riduce. Senza la Chiesa, il nostro rapporto sponsale con Lui sarebbe in balìa della nostra immaginazione, delle nostre interpretazioni, dei nostri umori che rendono impossibile ogni fraternità, ogni amicizia, la stessa possibilità di sentirsi amati e di amare.
Si parla poco oggi della Chiesa. O meglio si parla di lei lasciando completamente nascosta la realtà di essere corpo della presenza sacramentale del Risorto, centro regale della storia e del cosmo. Ciò di cui si occupano i giornali, la televisione, internet è il Vaticano, con i suoi scandali, al più sono i vescovi, i preti e non la chiesa domestica delle famiglie, i fedeli della parrocchia che almeno ogni domenica si ritrovano per attualizzare sacramentalmente il Crocefisso risorto, forse oggi pochi ma sempre per i molti, chi nell’amore di Cristo si dona gratuitamente per i poveri e i bisognosi. Si è smarrito a livello di opinione pubblica il senso vivo della fecondità anche umana dell’incontro ecclesiale con Cristo, della maternità di ogni comunità ecclesiale che genera sempre nuovi figli nel Figlio e quindi fratelli. La grande umanizzazione, anche a livello psicologico del perdono sacramentale della Confessione dove Lui ricrea ciò che il male commesso nel passato ha fatto per cui non ricorda i peccati perdonati e chiede di non ricordarli: una medicina anche a livello psicologico che nessuno può dare! Si è perso culturalmente per il dramma della attuale frattura tra Vangelo e cultura il senso, il valore necessario della Chiesa   come corpo di Cristo che è indissolubile a Lui nonostante tutte le miserie che possono accadere anche in essa. Egli ha deposto nelle mani della Chiesa il potere sublime che spettava a lui personalmente. In forza della sua personale nobiltà la chiamò regina e sposa. Alla sua augusta autorità Egli ha sottomesso il mondo intero. Il suo giudizio, secondo il suo comando, deve valere nel cielo. Essa è madre di tutti i viventi, donna beata nell’abbondanza di figli. Ogni giorno essa genera dei figli per Dio nello Spirito Santo e li rigenera dopo il peccato. Tutta la terra è riempita del germoglio delle sue viti. I suoi rami, sostenuti dal tronco del legno della croce che ogni Messa attualizza sacramentalmente nella celebrazione eucaristica, si arrampicano in alto fino al Regno dei cieli anche a chi si trova ancora nella purificazione ultraterrena del purgatorio.
Come, in questi esercizi, chiarire chi è la Chiesa? Come essere attratti sempre di nuovo e amare il suo volto nella storia? Occorre rifarsi alle origini della Chiesa cioè a Maria, Stella dell’Evangelizzazione, considerare la nascita della comunità ecclesiale nel cuore degli uomini del tempo di Gesù, del Battesimo della Chiesa nella prima Pentecoste, che continua.
Tutti i peccati degli uomini di Chiesa, che allontanano certamente molte persone scandalizzate e provocano tanto dolore al Risorto e ai veri credenti, non hanno però mai il potere di spegnere la sua presenza sulla terra e nei cuori. “Io pregherò perché il male non prevalga”, ha detto il Signore (Gv 17,15; Mt 16,18).
La Chiesa è la continuità nel tempo dell’umanità santa di Gesù attraverso la carne di noi peccatori, continuamente raggiunti sacramentalmente dalla sua misericordia. La Chiesa va amata e curata, come ha fatto Gesù. Per tutti è vincolante nella Chiesa ciò che rimane fedele alle parole del Vangelo nella costante e ininterrotta tradizione e insegnamento.

Quando è nata la Chiesa?
Ciò che è decisivo nella storia del mondo è avvenuto e avviene sempre nel nascondimento e nel silenzio. Così è accaduto e accade per la Chiesa, per la sua nascita. Alcuni Padri pensavano che essa fosse presente in Abele. Non in Adamo, ma in Abele, non prima, ma dopo il peccato, perché la Chiesa è nell’ordine della salvezza. Abele è la prima figura di Cristo, ucciso dal fratello che non poteva sopportare la sua giustizia. Abele il giusto, così è ricordato nel Canone Romano.
Tutto l’Antico Testamento pullula di figure in cui si può intravvedere un nuovo inizio della Chiesa, l’anticipazione del suo volto nella storia. Chiaro, però e definitivo il suo volto nei Vangeli.
Maria, Stella dell’Evangelizzazione di Cristo nella Chiesa per tutti e per tutto
L’inizio avviene in un angolo remoto della terra, in una località della Palestina sconosciuta quasi agli stessi Ebrei. Qui, in una casa umile composta di un solo locale, una ragazza probabilmente di 13-14 anni, Maria, il fiore più bello della Storia di Amore di Dio per Israele, nei momenti di solitudine si raccoglieva in meditazione, ascolto della Parola di Dio cioè preghiera. Forse, educata fin da piccola nel Tempio, cantava la lode di Dio con le parole dei Salmi. Certamente ripeteva in continuità con la mente e il cuore le frasi dei libri sacri ascoltati nella sinagoga o nelle letture in casa.
Intuiva da tempo che Dio aveva riservato per lei un posto particolare nella sua storia e questo la esaltava e assieme la rendeva umile, piccola, quindi libera di fronte a tutti e a tutto con la capacità, quindi, di amare, di essere felice. Il mistero di quella scelta restava, infine, incomprensibile per la sua mente e il suo cuore.
Dio la stava preparando nel tempo, attraverso tante premonizioni e tanti avvenimenti, come l’innamoramento e il fidanzamento con Giuseppe. Una lunga serie di approfondimenti avevano aperto il suo animo alla disponibilità totale. Le interessava soltanto questo: servire il Signore con tutta se stessa e in tutta la sua vita, qualunque cosa le avesse domandato.
Finalmente, un giorno, ecco l’avvenimento, la manifestazione del disegno, nascosto fin dall’inizio del mondo (Ef 3,9), anzi dall’eternità. Ti saluto, o piena di grazia, (graziosa), il Signore è con te (lc 1,28). Le parole dell’angelo suscitano turbamento nell’animo della ragazza. Evocano qualcosa di ben chiaro e assieme misterioso. Chiara era la percezione di un evento immenso e insieme indefinibile che stava accadendo.
Le parole successive dell’angelo chiariscono tutto ciò che è possibile portare alla luce: Ecco concepirai un figlio … e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e chiamato Figlio dell’Altissimo … e il suo regno non avrà fine (Lc 1,31-33).
Tutta la vita futura di Maria sarà un continuo ripercorrere quelle parole. Ella conosce l’attesa di Israele. Percepisce così di essere chiamata a diventare la madre del Figlio di Dio nell’assumere un volto umano come unica Persona divina in due nature, la sposa dello Spirito Santo. Perché non pensasse ragionevolmente a una rivelazione impossibile a realizzarsi, l’angelo le parla del futuro parto di Elisabetta, orami vecchia e sterile.
Eccomi, sono la serva del Signore è la risposta di Maria. Avvenga di me quello che hai detto (Lc 1,38).
Dio Padre, per far diventare carne il suo Verbo, ha bisogno di partenza del sì che tutto permette. Ed è davvero qualcuno che, con una libertà creaturale perfetta, diventa grembo e sposa, e madre del Dio che si incarna. In questo atto fondamentale compiuto nella cameretta di Nazareth, in esso soltanto, la Chiesa di Cristo è fondata come la Chiesa cattolica. La sua cattolicità è il carattere incondizionato dell’Ecce ancilla (ecco la serva), la cui previa esistenza, fatta di uno spazio infinito, è il corrispettivo creato dell’amore infinitamente donantesi di Dio. Chi fa cominciare la Chiesa dopo invece, ad esempio con la chiamata dei Dodici, o con il conferimento della piena potestà a Pietro, ha già fallito l’essenziale del progetto di Dio.
Solo un sì perfetto a Dio che ci ha creati liberi per poter essere amati ed amare può sempre fondare la Chiesa.
Al Giordano
A imitazione di quanto è accaduto a Maria desidero leggere la vocazione degli apostoli come una chiamata interiore, come un innamoramento.
Se seguiamo il vangelo di Giovanni, la prima vocazione dei discepoli avviene lungo il fiume Giordano, a Betania, dove stava il Battista con i suoi seguaci e dove Gesù stesso era stato battezzato il giorno prima (Mt 3,13-17; Mc 1,9-11; Lc 3,21-22).
La Chiesa nasce da una voce profonda di Gesù, percepita prima ancora di un suo esplicito invito a seguirlo. Quello verrà dopo, come attestano i vangeli sinottici (Mt 4,18-22; Mc 1,16-20; Lc 5,1-11). L’inizio assoluto è un’attrattiva avvertita nella profondità dell’essere, un desiderio irresistibile di stare con lui, come lui – Gesù – sta con il Padre. Maestro, dove abiti? (Gv 1,38). In greco, le parole fanno pensare a qualcosa di ancora più misterioso: “Dove rimani? Dov’è la tua dimora?”. I primi, senza saperlo, chiedono di poter essere condotti all’interno del dialogo tra il Figlio, l’eternamente Amato e il Padre, l’eternamente Amante, nell’eterno Amore, lo Spirito Santo.
La Chiesa trova il suo inizio in questo intreccio tra il tempo e l’eterno, tra una casa terrena e una dimora eterna, tra una amicizia umana e una amicizia divina, trinitaria. Essa viene contemporaneamente dal cielo, come dirà l’Apocalisse parlando della Gerusalemme celeste (Ap 21,1-2), e dalla terra, dall’incontro tra la vicenda del Battista, quella di alcuni suoi discepoli e l’inizio della vita pubblica di Gesù.
E’ molto istruttivo notare che la Chiesa non annulla la storia precedente del popolo di Israele nella sua storia di amore con Dio o Antica Alleanza, ma nasce all’interno di esso, come continuità dinamica e superamento allo stesso tempo con una Nuova Storia di amore o Nuova Alleanza. Lo dirà chiaramente Gesù: il Battista è il più grande tra i nati di donna (Mt 11,11; Lc 7,28), è la foce di un immenso fiume. Tutto Israele in lui diventa voce e attesa: preparatevi! (Mt 3,3; Mc 1,3; Lc 3,4). Eppure nel nuovo popolo il più piccolo è più grande di lui (Mt 11,11; Lc 7,28). Misteriosa e immensa statura del Battista, che ha accettato di stare al suo posto e ha un solo paragone nella storia del mondo: san Giuseppe.
La Chiesa nasce attorno a Gesù anche da due giovani, Andrea e Giovanni, che traghettano da un maestro a un altro. Il passaggio dalla prima alleanza, dalla prima storia di amore a quella nuova ed eterna avviene furtivamente in un movimento del cuore e in un cammino di passi quasi inavvertito, eppure destinato a cambiare la storia del mondo.
Quel giorno si fermarono presso di lui; erano circa le quattro del pomeriggio (Gv 1,39). E’ commovente pensare che Giovanni ci ha voluto lasciare anche l’ora di quell’inizio, di quell’incontro, ma non il giorno e il mese. Anche qui tempo ed eterno si fondono in un impasto che costituirà sempre il segreto di tutta la storia della Chiesa. 
All’inizio di tutto vi è dunque un invito di Gesù. E spesso il Suo movimento verso di noi arriva prima nella profondità del nostro cuore suscitando il desiderio dell’incontro con Lui, e poi ci raggiunge materialmente passando attraverso la voce di altre persone. Nell’uno e nell’altro caso Egli ci dice: Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi (Mt 11, 28). E questo è uno dei punti centrali del vangelo di Matteo. Sono parole di Gesù che scaturiscono come sempre dal Suo dialogo permanente con il Padre: Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli (Mt 11, 25). A cosa si riferiva Gesù quando parlava delle cose segrete rivelate ai piccoli? Si riferiva proprio alla possibilità per l’uomo di poter entrare, attraverso il Figlio, in dialogo con il Padre. In tale dialogo le fatiche e le oppressioni vengono portate da Gesù stesso assieme a noi. lui che è mite e umile di cuore ha portato la croce per noi. se anche noi diventiamo miti e umili di cuore, porteremo assieme a Lui le nostre fatiche, le nostre obbedienze, e dalle ombre entreremo nella luce del rapporto con il Padre come figli nel Figlio e concretamente tra di noi fratelli. Lo dirà chiaramente Gesù alla fine della sua vita: Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi (Gv 15, 15). È questo sicuramente il cuore del Vangelo. Seguendo Gesù siamo portati a vivere con Lui la stessa vita, la stessa relazione che Lui vive con il Padre. Così il Figlio attira a sé tutti gli uomini per portarli nel Suo rapporto con il Padre.
I libri sapienziali avevano a lungo preparato questo cammino: Avvicinatevi a me, voi che mi desiderate, e saziatevi dei miei prodotti. Poiché il ricordo di me è più dolce del miele, il possedermi è più dolce del favo di miele (Sir 24, 18-19). Avvicinatevi, voi che siete senza istruzione, prendete dimora nella mia scuola. Fino a quando volete rimanerne privi, mentre la vostra anima ne è tanto assetata? Ho aperto la bocca e ho parlato: acquistatela senza denaro (Sir 51, 23-25). 
Da quel primo momento in cui dissero: Dove abiti?, seguire Gesù ha significato, per chi decideva di porsi alla sua scuola, imparare da Lui a vivere e quella reciprocità, che è essenziale nella relazione di amore. La vita con Lui era una vera università. 
La tradizione che va da Origene a san Bernardo ha visto nel Cantico dei cantici un testo privilegiato dove era espresso l’innamoramento di Gesù per l’anima dell’uomo e dell’uomo per Gesù. La tensione dell’amore che abbiamo visto nelle parole del Maestro citate da san Matteo e nel libro del Siracide, trova qui la sua espressione più alta. Gesù e l’anima si cercano, reciprocamente si trovano, si allontanano per poi ricercarsi. Ma ciò che appare meravigliosamente sorprendente è che non solo Gesù attrae per la Sua bellezza e per la Sua bontà, per l’autorità della Sua parola, per la tenerezza decisa del Suo gesto, ma anche Egli è attratto da ogni uomo, comunque ridotto. Egli ama colui o colei da cui vuole essere amato. Non solo Andrea e Giovanni seguono Gesù perché attratti da Lui, ma Gesù ha parlato al loro cuore perché attratto da loro. Anche noi se non contempliamo ogni volto, comunque ridotto, amato da Lui non riusciremo a fargli sentire il suo amore, a convertirlo. 
A Cana
Dal Giordano il vangelo di Giovanni ci porta subito a Cana, dal deserto alla Galilea. Il percorso non doveva essere stato così breve come l’evangelista fa pensare, ma è breve nel significato. 
Cana è un passo ulteriore nella nascita della Chiesa, meglio un’ulteriore illuminazione sul mistero di quell’inizio in Maria. Dopo il momento del Giordano che ha segnato l’innamoramento, l’attrattiva suscitata da Gesù sui primi discepoli, Cana rappresenta la decisone definitiva di un “sì” eterno. 
A Cana c’è un matrimonio (Gv 2,1). Si tratta di amici di Gesù conosciuti durante gli anni passati a Nazareth. Ma nel racconto evangelico i nomi e le persone degli sposi scompaiono o, meglio, diventano la Madre e il Figlio. È chiaramente un matrimonio mistico: da una parte stanno Maria e i discepoli, dall’altra Gesù. È ancora una volta l’incontro tra il cielo e la terra, tra Dio e l’umanità. La comunità scelta al Giordano si è già allargata. In pochi giorni, si parla già di discepoli e tra loro c’è Maria. Nell’inizio è già contenuta un’anticipazione della fine. Qui a Cana Maria è chiamata donna, sotto la croce Gesù chiamerà sua Madre con lo stesso appellativo (Gv 19, 26). Qui, a Cana, Maria è con gli apostoli di fronte a Gesù, rappresenta la Chiesa davanti al suo Maestro. Prima di Pentecoste vedremo ancora Maria con gli apostoli e questa volta nel Cenacolo quando nella Prima Pentecoste avverrà il Battesimo della Chiesa (At 1, 14).
La Chiesa, nella sua nascita, segue un percorso di inizi progressivi in cui ogni tappa contiene in nuce quella successiva e nello stesso tempo appaiono sviluppi e compimenti che non potevano essere previsti. Una forza interiore spinge in avanti verso il futuro. Che ho da fare con te, o donna? … Fate quello che vi dirà (Gv 2, 4-5). Maria è al centro della storia della Chiesa, per imprimere al tempo un duplice movimento di pazienza e di accelerazione, verso il ritorno di Cristo.
Da poco Gesù ha lasciato la casa di Nazareth. Dopo i quaranta giorni passati nel deserto dove, come noi, è tentato dal diavolo, si reca a Betania per essere battezzato. La Chiesa nasce dal lungo silenzio di Nazareth e dal lungo digiuno nel deserto. La vita di Gesù, nei suoi misteri, cioè nei fatti divinamente umani, è innanzitutto un insegnamento per noi, affinché abbiamo a seguirne le orme.
Come abbiamo visto, fin dall’inizio alcuni uomini cominciano a seguire Gesù. A vivere con Lui. Nei primi tempi probabilmente tornavano a casa ogni tanto, dove avevano un lavoro, una moglie, forse dei figli. Poi, a poco a poco, la loro casa divenne il Figlio dell’uomo. Stavano con Lui sempre, giorno e notte. Erano gli apostoli. Altri, è vero, accorrevano al Suo insegnamento e ai Suoi miracoli. Lo seguivano per ore, per giorni, come elettrizzati, ma poi tornavano alla loro vita di prima. Alcuni di questi mantenevano un rapporto con Gesù e la sua cerchia più stretta. Erano i discepoli. Non c’è una chiamata dei discepoli, mentre i vangeli parlano chiaramente di una vocazione degli apostoli.
A Cana dunque avviene una rivelazione della nascita della Chiesa. Mentre a Betania, sul Giordano, la Chiesa nasceva nella profondità di ogni singolo cuore e nel desiderio di seguire Gesù, qui, a Cana, la Chiesa nasce attraverso lo sposalizio tra Gesù e l’umanità, rappresentata da Maria e dagli apostoli. La divino-umanità del Maestro raggiunge altre persone e stringe con loro un rapporto di alleanza eterna nel suo sangue. Si realizza così ciò che era stato detto dai profeti: l’Alleanza o rapporto di amore come rapporto nuziale. Un rapporto che tante volte Israele tradirà. Ma Dio tornerà sempre, con una nuova iniziativa a richiamare i suoi figli al legame sponsale con Lui. Ciò che la tradizione ha chiamato alleanza o storia di amore di Dio è in realtà una serie continua di tradimenti. Di fronte a ciò Dio manifesta anche la sua ira: caccia Adamo dal paradiso, distrugge la torre di Babele, punisce l’umanità con il diluvio, ma anche queste manifestazioni sono l’espressione della volontà di amore di correggere l’uomo, perché lo ama e lo vuole attrarre a sé per l’eternità. E con Abramo l’alleanza assume un andamento definitivo e veloce e nello stesso tempo si allarga ai confini dell’universo e a tutte le genti.
Nessuno forse meglio di Osea ha espresso la dinamica dell’amore di Dio per l’uomo oltre ogni tradimento. Come profeta è invitato ad andare nel deserto dove una donna sta per partorire e ad aiutarla. Nasce una bambina, taglia l’ombelico, la fa crescere e giunge all’età dell’amore. È stupendo come descrive l’innamoramento: ha posato su di me il suo sguardo, mi ha introdotto nella sua intimità e io l’ho sposata. Nello stesso giorno va alla porta dove passano i popoli e ad altri si offre, si vende. Il profeta in dialogo con Dio domanda: se torna, come devo comportarmi? Come quando ha posato il suo sguardo su di te e ti ha introdotto nella sua intimità. Ma il giorno dopo ancora alla porta, ancora ad altri si offre, si prostituisce. E adesso? Come quando ha posato il suo sguardo su di te e ti ha introdotto nella sua intimità. E fino a quando? Fino a quando non ti lascerà più, perché quelli che ritornano a me io non li caccio via mai. Jahvè arriva a dire: Ecco, l’attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore… e avverrà in quel giorno – oracolo del Signore – mi chiamerai: marito mio, e non mi chiamerai più: mio padrone… ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell’amore, ti fidanzerò con me nella fedeltà e tu conoscerai il Signore (Os 2, 16.18.21-22).
Il vescovo di Cartagine Quodvultdeus ha scritto nel V secolo: “Se Cristo non avesse sopportato la sua passione, tu non saresti nata da Lui. Egli è stato venduto per liberarti, è stato ucciso perché ti ha amata. Poiché Egli ti ama infinitamente, ha voluto morire per te. E nel matrimonio sacramento l’indissolubilità non è un ideale da raggiungere ma un dono da accogliere sempre e per sempre. Tale unità nuziale è un mistero veramente grande. Le parole umane non hanno espressioni adeguate per esprimere il sublime mistero di questo sposo, di questa sposa. La sposa è nata dall’uomo amato e l’ora della nascita è l’ora delle nozze”.
La casa
L’incontro tra Dio e l’uomo è un incontro sponsale. Da questo incontro, nel Figlio, nasce sempre la Chiesa e avviene non per eredità, ma per la libera risposta di ogni persona. Competenze scientifiche e tecniche possono essere lasciate in eredità dai genitori, non così la fede, perché per ogni persona resta sempre un avvenimento e una responsabilità. 
Ogni famiglia ha una casa: attraverso l’attrattiva iniziale Gesù diventa nel tempo la dimora dei suoi apostoli. Essi formavano la nuova casa di Gesù. 
Tra le tante immagini che la Scrittura usa per parlare della Chiesa, questa, la casa, è una delle più efficaci e più semplici. Gesù non ha rinunciato ad avere una casa. L’ha avuta a Nazareth, a Cafarnao, a Betania, soprattutto la sua nuova famiglia sono stati i suoi nuovi fratelli: Chiunque fa la volontà del Padre  mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre (Mt 12, 50; Mc 3, 35). 
Nello stesso tempo possiamo dire che Gesù non si è mai definitivamente fermato in una casa. Sentiva fortemente l’ansia di realizzare il compito che il Padre gli aveva affidato. Il suo era un pellegrinaggio di paese in paese, di persona in persona. 
In questo suo cammino verso Gerusalemme, cioè verso la Croce, compiuto con gli apostoli appariva chiaramente quello che il Vaticano II chiamerà l’indole pellegrinante della Chiesa sulla terra, in cammino verso il Regno (Lumen gentium 49).
Dobbiamo fermarci ancora un momento a riflettere sulle tre case che ho nominato sopra. Nazareth è la casa della Santa Famiglia. È il primo volto della Chiesa. L’inno delle lodi della festa ci fa pregare così: “O famiglia di Nazareth, immagine vivente della Chiesa di Dio!”. In essa c’è già, come in un sacramento, tutta la Chiesa: il Figlio che ne è la radice, il capo; Maria che è l’icona di ogni fedele e la prima partecipe della vicende di Gesù; è la Madre del Figlio di Dio, cioè dell’unica persona che ha la natura divina e la natura umana concepita in Lei, così sarà riconosciuta e chiamata dai cristiani. Sarà anche la Madre che, con la sua intercessione, ottiene lo Spirito che genera continuamente Gesù, nel battesimo di acqua e di lacrime o confessione, nel cuore dei credenti. Il Vaticano II la proclama Madre della Chiesa. Giuseppe che, chiamato a custodire il Figlio di Dio sulla terra e la verginità della sua madre, sarà proclamato da Pio IX in un momento drammatico patrono della comunità ecclesiale. Brilla nei vangeli per la forza del suo silenzio. Non abbiamo nessuna sua parola, e non è casuale, cioè senza ragione. Il suo nascondimento parla in modo eloquente dell’adorazione che è sempre all’origine della Chiesa. Preghiera, lavoro, affetti costituiscono la trama fondamentale di questo inizio. 
Cafarnao è la casa di Pietro (Mt 8, 14-15; Mc 1, 29-31; Lc 4, 38-39). Se Nazareth è stata la casa della preparazione, Cafarnao è la casa della missione. In questo modo i vangeli ci insegnano a sentire un riferimento profondo fra e – e cioè fra il rimanere e l’andare. La casa è il luogo in cui si rimane con i fratelli attorno a una mensa, in cui si prega assieme, in cui si riposa, ma non può mai diventare un idolo, un porto sicuro a cui ci si abbandona dimenticando la provvisorietà della nostra permanenza sulla terra. Casa della missione significa casa in cui si vive per uscire, per andare perché la fede si mantiene, si rafforza donandola. Soltanto in questo duplice movimento la nostra casa acquisisce la sua dignità e non ci estranea dal nostro destino: e – e e non o – o. 
Betania è la casa degli amici Lazzaro, Marta e Maria (Mt 21, 17; 26,6; Lc 10, 38; 24,50; Gv 11,1). Vive come amicizia gratuita e luminosa, come pienezza di affetti, sacrificati e fecondi. È la casa in cui Gesù vivrà alcuni momenti fondamentali della sua vita, delle sue amicizie e, pur amico di tutti e tre, ha la sua preferenza per Maria, soprattutto negli ultimi giorni e nelle ultime ore della sua permanenza sulla terra. La casa in cui è presente con Lazzaro richiamato in vita dopo quattro giorni di sepolcro, il mistero della morte e della resurrezione, la casa delle parole ultime, segrete, di quelle che confortano e restano per sempre.
Le lettere apostoliche riprenderanno frequentemente questa immagine della casa. La Chiesa viene descritta più volte da Paolo attraverso questa terminologia. È il Corpo stresso di Cristo morto, sepolto, risuscitato, cioè trasfigurato e asceso al cielo che continuamente si fa sacramentalmente presente nella celebrazione eucaristica e agisce nei sacramenti a essere descritto come casa. Nella prima lettera ai Corinti (1Cor 3, 9-13), Paolo afferma che siamo tutti collaboratori di Dio per coltivare il suo campo, per costruire il suo edificio. Siccome si tratta di una casa, occorre un architetto, un disegno. L’apostolo delle genti attribuisce a sé questo compito. Tanti parteciperanno alla costruzione anche con carismi diversi, ma tutti devono rispettare il fondamento: il farsi presente del Risorto che ci fa rivivere tutti i suoi momenti terreni soprattutto morte, resurrezione e ascensione. Ciascuno poi porterà il suo dono, il suo carisma o dono dello Spirito dato ad uno per il bene di tutti, la sua pietra, la sua porta, la sua finestra, il suo pezzo di arredamento, soprattutto porterà se stesso nel suo essere dono unico e irripetibile del Donatore divino, cioè persona. Ritorna in Paolo e anche nelle lettere di Pietro l’immagine dell’uomo come tempio di Dio e come mattone nella costruzione del tempio: Anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio (1Pt 2,5). La pietra angolare è Cristo Gesù, dice Paolo (Ef 2, 20), in un’altra variante della stessa immagine. Il fondamento, il cuore, il centro della casa è la persona viva di Cristo. Se la nostra abitazione non ha Cristo vivo come centro e fondamento cui tutto rivolgerci con la mente e il cuore, non è una comunità ecclesiale. Ognuno in questa casa è valorizzato, anzi è richiesto di dare il suo contributo, tenendo presente il disegno fissato dagli apostoli, cioè il vangelo e la tradizione, ma soprattutto il fondamento, che è sempre il corpo di Gesù sulla croce, risorto, alla destra del Padre che si fa sacramentalmente presente e operante. 
Ogni casa cristiana diviene un tempio con la sua presenza, ogni realtà abitata da Lui accolto diventa un tempio, l’universo stesso è tempio ove tutto è luminoso perché la luce è l’Agnello (Ap 21, 23). 
Come abbiamo visto le immagini del Nuovo Testamento si rincorrono e si sovrappongono. C’è una casa sulla terra che si va edificando in preparazione di una abitazione eterna nel cielo (2Cor 5,1; Eb 13, 14). Questa casa è Cristo stesso capo con le sue membra e quindi siamo anche tutti noi che partecipiamo, ciascuno con il nostro dono, alla sua edificazione, in ragione del comune battesimo che ci ha resi figli nel Figlio. Il nuovo tempio sarà appunto il corpo di Gesù, la nuova casa il suo corpo risorto che ha dimensioni universali, cosmiche e che Egli stesso costruisce: il paradiso non inizia dopo la morte, ma con Lui già in questo mondo.
Nei libri Storici assistiamo a un interessante dialettica fra il re Davide e il profeta Natan intorno alla costruzione del futuro tempio di Gerusalemme (2Sam 7, 1-16; 1Cr 17, 1-15). In un primo tempo Natan rimprovera Davide: “Ti sei costruito una casa meravigliosa e non hai pensato alla casa di Dio!”. Il re, colpito e offeso, dà ordini che si facciano i preparativi per la costruzione del tempio. A quel punto la scena si capovolge. Dio interviene sempre attraverso Natan, ma per dire a Davide: “Non pensare di essere tu a costruire il tempio, sono io che costruisco la mia casa”. La vana gloria del re era dunque colpita. Attraverso questa correzione si realizzava così un insegnamento decisivo: ogni casa è importante, ma nello stesso tempo è relativa alla grande casa che Dio vuole costruire, la persona del Figlio che assume un volto umano e che risorto è, con i suoi, la vera e definitiva tenda per l’uomo. Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori (Sal 126, 1).
Gli apostoli e la missione universale
Fin dall’inizio, dall’Annunciazione a Maria, la Chiesa è innanzitutto un avvenimento della fede, nasce a livello personale come risposta dell’uomo a Dio che chiama. Il frutto di tutto ciò è un corpo che cresce, un corpo che, a similitudine di quello dell’uomo, ha una sua organicità: un capo, delle membra più o meno nobili e importanti, a tutte connesse in unità attraverso giunture e legamenti (Ef 4, 15-16; Col 2, 19; 1Cor 12, 12ss). Nel corpo della Chiesa prevale l’uguale dignità di tutte le membra, radunate per essere una sola mistica persona nel Cristo, attraverso appunto, il dono del battesimo. Tutti nella Chiesa sono fedeli di Cristo, chiamati ad assimilarsi al Maestro e a partecipare della Sua vita divinamente umana e della sua figliolanza nella fraternità. Nello stesso tempo, però, Egli ha scelto alcuni in mezzo al suo popolo per essere un tramite privilegiato della grazia dello Spirito. Tale grazia arriva agli uomini attraverso vie conosciute e sconosciute. Le prime sono la Parola di Dio, in sacramenti della Chiesa e le persone dei vescovi, uniti ai successori di Pietro, oggi 266. Quelle sconosciute sono gli infiniti doni e carismi dello Spirito attraverso i quali Egli fa conoscere Cristo ad ogni uomo che viene al mondo. 
La chiamata degli apostoli
I sacramenti della salvezza sono istituiti da Gesù per farci partecipare ai misteri della sua persona e della sua missione. Per questo ha voluto il sacerdozio ordinato, per questo ha chiamato gli apostoli, per affidare loro il compito di perdonare attraverso il sacramento della Penitenza, di consacrare il suo Corpo e il suo Sangue e di predicare autorevolmente la parola di Dio. Dopo la morte di Gesù gli apostoli si dedicarono assiduamente a questi compiti fondamentali necessari per la vita stessa della comunità. Essi però non esaurivano minimamente i doni che si facevano presenti in tutto il popolo, anzi li suscitavano. 
Gesù ha voluto creare un popolo e all’interno di esso molti compiti affidati a diverse persone. La sua visione della vita non è piramidale, non è dominata da una filosofia del potere. Eppure è innegabile che Egli abbia voluto che alcuni stessero con Lui in modo particolare per prepararli affinché Lui potesse agire nella loro persona. Conosciamo i loro nomi. Formano con il Maestro una vera e propria comunione di vita.
Assieme agli apostoli, vivevano con Gesù alcune donne che riceveranno da Lui compiti importanti, talvolta ancora più importanti di quelli affidati ai dodici. Come quando incaricherà Maria di Magdala di portare ai suoi fratelli ciò che è il cuore dell’evangelizzazione, cioè il primo annuncio della resurrezione nel suo farsi sacramentalmente presente nella Chiesa cin la sua Parola. Ma è anche vero il reciproco: ciò che chiese e affidò agli apostoli non chiese e affidò alle donne.
Di nessuno, come dei Dodici, si parla così a lungo nei vangeli: Gesù li chiama a uno a uno con il loro nome, dà a molti di loro un nome nuovo, segno della loro nuova missione (cfr. Gv 1, 42; Mt 16, 18). Li chiama dopo una notte passata in preghiera cioè in dialogo con il Padre. (cfr. Lc 6, 12-16; Mt 10, 1-4; Mc 3, 13-19). Si stava compiendo qualcosa di grande, pensato e previsto prima della creazione del mondo. Nello stesso modo è descritta la vocazione dei profeti nell’Antico Testamento: Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato (Ger 1, 5). Il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fino dal grembo di mia madre ha pronunziato il mio nome (Is 49, 1b).  
Ne costituì Dodici che stessero con Lui (Mc 3, 14). Ricordate: Maestro, dove abiti? (Gv 1, 39). Gesù dà adesso la sua risposta: la sua casa sono loro, i Dodici. Certamente, il numero non è casuale. Riprende la ripartizione di Israele in dodici tribù, ma in chiave universalistica. Gli apostoli saranno mandati da Gesù stesso in tutte le direzioni del mondo, fino agli estremi confini (cfr. At 1, 8).
La Chiesa nasce dunque stando con Gesù, dalla frequentazione assidua e sempre nuova della sua persona. Anche oggi la Chiesa nasce nello stesso modo, attraverso lo stesso movimento che è lo stare con il Maestro.
I vangeli usano un’espressione che è ormai consunta dall’abitudine: Osservare i suoi comandamenti. In quell’osservare c’è Maria di Betania che sta ai piedi di Gesù per ascoltare le sue parole (Lc 10, 39), c’è la donna che spezza il vaso di profumi per onorare il corpo del maestro (Mc 14, 3; Lc 7, 37; Gv 12, 3), c’è Maria di Magdala che corre al sepolcro e lo riconosce dal timbro di voce (Gv 20, 16). Osservare: fissare lo sguardo sul suo volto ed essere attratte da Lui. È lì che nasce la Chiesa. Stando con Gesù riceviamo da Lui i doni necessari per la nostra esistenza. Gli apostoli ricevono i doni che avrebbero distribuito nella fondazione delle loro comunità. Ricevono il potere di poter far dire a Lui attraverso di loro: “Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue, io ti assolvo dai tuoi peccati”, ricevono un insegnamento sulla vita presente e sul di più di quella futura, la forza di attraversare il mondo e ogni avversità senza soccombere anche nella tentazione. 
Ne costituì Dodici che stessero con Lui e anche per mandarli (Mc 3, 14-15). Chi va in modo vero non si allontana mai dall’amato. Per questo gli apostoli, che già durante la loro vita incontrano popoli, lingue, culture diverse, fondano un’unica Chiesa. Rivivono con chiunque ciò che hanno vissuto tra loro e Gesù.
Israele e i pagani
La missione di Gesù non è certamente rivolta soltanto agli apostoli, neppure ai discepoli. Folle immense lo seguivano. 
Gesù sente fortemente la sua destinazione prioritaria alle pecore della casa di Israele (Mt 15, 24). Sa che il Padre l’ha mandato soprattutto e innanzitutto per loro. Egli le cerca instancabilmente e le riceve a ogni ora del giorno e della notte. L’incontro con Nicodemo si iscrive in questa ansia di Gesù per il Suo popolo. Nello stesso tempo assisteremo progressivamente al rifiuto da parte dei Giudei della sua persona e della sua rivelazione. Senza operare nessuna abiura nei confronti dei suoi (ancora alla fine della vita sulla croce sarà scritto: Gesù Nazareno re dei Giudei) Egli comprende che già nel breve arco della sua vita pubblica deve rivolgersi anche ad altri popoli, in cui sono simbolicamente racchiusi tutti i popoli del mondo. Questo è il senso dell’incontro con la Samaritana, considerata eretica dai Giudei, donna degna di disprezzo, con cui Gesù invece si ferma a parlare da solo, suscitando in lei addirittura la fede nel suo messianismo e la missione verso i suoi conterranei. Significativo in questa direzione è un brano del vangelo di Matteo (Mt 15, 21-28) in cui Gesù guarisce la figlia di una donna cananea. Questa volta decisamente una pagana a cui prima si rivolge con parole terribili: Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini (Mt 15, 26). Ma la fede e l’insistenza di questa donna pagana aprono a Gesù scenari improvvisamente nuovi per il tempo che gli resta da vivere. Anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni (Mt 15, 27). 
Nicodemo 
Abbiamo seguito, almeno in parte, l’andamento del vangelo di Giovanni: i primi incontri sul Giordano, il ritorno di Gesù in Galilea e le nozze di Cana. Ora l’incontro con Nicodemo (Gv 3, 1-21). Esso parla della nascita della Chiesa come una rinascita, una nascita nuova che viene dall’alto.
Nicodemo rappresenta quella parte di Israele che non è contraria a Gesù, come molti farisei e sadducei. Egli non è neppure fra coloro che lo hanno atteso, come la sorgente santa dei poveri anawim, come Maria, Giuseppe, Zaccaria, Elisabetta, i pastori, Simeone, Anna. Appartiene a quella zona opaca che è divisa tra l’attrattiva e la paura, come lacerato tra la salvezza dell’anima e la salvezza del proprio prestigio. Per questo va da Gesù di notte, per non essere visto, ma Gesù è felice anche con questo limite perché anche Lui lo ama.
“Occorre rinascere” (Gv 3,3) dice Gesù a Nicodemo: la fede è una nuova nascita, occhi nuovi, cuore nuovo, una mentalità nuova. Un uomo nuovo. Sono tutte espressioni del vangelo, che troviamo anche in san Paolo, con cui cercherà di farci entrare nella novità portata dal Salvatore. Questa nuova nascita avviene già fin dal battesimo: è lì che nasce la Chiesa. Come è misterioso e semplice il momento in cui veniamo immersi nell’acqua e poi riemergiamo: immersi nella morte con Colui che si è fatto in tutto uguale a noi risorgiamo alla vita, alla vita veramente vita con un di più dell’anima e del corpo che giunge a compimento nel terminale di questa vita (Rm 6,4)! 
L’acqua, che nelle sue profondità custodisce gli animali più terribili e le insidie più atroci, prende per sé tutto il male della nostra persona, Lui redentore lo purifica e ci restituisce puri alla terra. Certo, non l’acqua soltanto, ma l’acqua, il sangue, lo spirito (1Gv 5, 7-8). L’acqua su cui è stata pronunciata la parola di Cristo, che è stata benedetta nella notte di Pasqua, l’acqua sgorgata assieme al sangue dal costato di Gesù aperto dalla lancia, l’acqua che, per la potenza dello Spirito, diventa segno efficace della nostra identificazione con Gesù come figli nel Figlio di Dio che è Padre per opera dello Spirito Santo.
“Immergiti da peccatore e ti lavano i flutti santi, la piscina ti accoglie quando sei vecchio, e ne esci con aspetto giovanile. Non c’è più nulla che separa i rigenerati, perché sono stati costituiti unità dall’unica fonte, da una sola fede, da un solo Spirito”.
L’invito di Gesù a Nicodemo è pieno di commozione e di desiderio: “Non basta che tu sia un bravo giudeo, uno dei capi, occorre anche per te una rinascita radicale”, un essere ricreato dal Salvatore (che ti rende figlio nel Figlio) e Redentore (che ti libera dal peccato e dalla morte). Gesù la chiama nascita dall’alto, cioè dal profondo che solo Dio può operare e noi accettare, cooperare. Fissa così nel colloquio con Nicodemo la strada per ciascuno di noi. Anche noi dobbiamo nell’acqua del Battesimo e nelle lacrime del secondo Battesimo o riconciliazione, quell’acqua e quelle lacrime che sono Cristo (1 Cor 10,4), quell’acqua e quelle lacrime che ci lavano per renderci sempre più una cosa sola con Lui (Ef 4,5).
La Chiesa nasce da una grazia di luce, di una purificazione dell’uomo dal peccato, che non ha bisogno di nessun merito da parte sua. Cristo ci raccoglie perché ha pietà di noi e ci innesta nella sua vita dandoci continuamente ciò che di più intimo c’è in Lui, il suo stesso spirito filiale per renderci fecondi nella fraternità. Io sono la vite, voi i tralci (Gv 15,5). Dal Battesimo di acqua e da quello continuo di lacrime, magari mensile nasce, cresce la comunione della Chiesa, la scoperta della fraternità e dell’uguaglianza della fratelli come sacramento di Cristo.
Gesù e la Samaritana
Proseguiamo la lettura del vangelo di Giovanni e vediamo un nuovo incontro di Gesù, ancora più sconvolgente di quelli che l’hanno preceduto: l’incontro con la donna samaritana. Il maestro qui appare disarmato, stanco, assetato. Assetato del nostro amore nonostante tutte le nostre infedeltà. E nello stesso tempo desideroso di rispondere alla nostra sete, al desiderio originario di Lui non sostituibile da nessun valore trasformato in idolo. In questo movimento il nostro cuore assetato d’amore e di pace incontra la sete che Cristo ha di ciascuno di noi, della nostra umanità. Cristo in Dio è Uno dei Tre, è sete dell’altro, è relazione e perciò Dio che nel Figlio ha assunto un volto umano ha sete di noi, sa che soltanto in rapporto a Lui noi possiamo trovare un volto in cui riposare, rimanendo liberi di fronte a tutti e a tutto, capaci di essere amati e di amare. Cuore inquieto, esposto alla schiavitù di trasformare in idoli i beni relativi, scriveva sant’Agostino, che può trovare requie solo nella consapevolezza ecclesiale del Risorto che ci fa rivivere nella preghiera liturgica tutti i fatti e i detti di Gesù. 
I Samaritani erano considerati eretici dagli ebrei ortodossi. Adoravano Dio sul monte Garizin e non a Gerusalemme. Si erano fermati al tempo precedente la costruzione del tempio. Gesù annuncia alla Samaritana il superamento di quel tempio: l’adorazione di Dio non sarà più esclusiva né sul monte né a Gerusalemme, ma nello spirito e nella verità, cioè dovunque il Risorto si farà sacramentalmente presente e accolto. Tutto il mondo allora può diventare luogo in cui Dio abita con noi e per noi: la Chiesa non avrà più bisogno di costruzioni, perché sarà essa stessa nel convenire dei suoi il tempio, il corpo di Cristo (Gv 4, 21). Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere… Egli parlava del tempio del suo Corpo (Gv 2, 19.21).
L’incontro con la Samaritana ci immerge nell’umanità di Gesù come la nostra. Egli non ha ritegno a parlare con una donna e per di più estranea al popolo ebraico. I profeti avevano annunciato la necessità che Israele si aprisse a tutti i popoli e che tutti i popoli guardassero a Israele luce delle genti: la salvezza viene dai Giudei (Gv 4, 22). Gesù rivela di essere mandato a tutti cominciando dal suo popolo.
La Chiesa rinasce continuamente nell’incontro fra l’umanità di Cristo, presente risorto, ferita dall’amore per ciascuno di noi e per la nostra umanità ferita dal peccato e quindi sofferente: fa’, o Signore, che il mio cuore bruci di amore per Gesù Cristo. 
Il cuore della Chiesa è la carità, come aveva giustamente intuito Teresa di Lisieux: “La carità mi dette la chiave della mia vocazione. Capii che, se la Chiesa ha un corpo composto da diverse membra, l’organo più necessario, più nobile di tutti non le manca, capii che la Chiesa ha un cuore, e che questo cuore arde d’amore. Capii che l’amore solo fa agire le membra della Chiesa, che, se l’amore si spegnesse, gli apostoli non annuncerebbero più il Vangelo, i martiri rifiuterebbero di versare il loro sangue… capii che l’amore racchiude tutte le vocazioni, che l’amore è tutto, che abbraccia tutti i tempi e tutti i luoghi, in una parola che è eterno”.
Il fondamento della missione
La Chiesa nasce dall’abbassamento del Verbo: non ritenne come cosa propria il suo essere Uno dei Tre. Era chiamato ad assumere un volto umano e a farsi totalmente dono svuotandosi della Gloria divina e assumendo la debolezza della carne umana come la nostra. Fino alla morte di croce (Fil 2, 7-8). La Chiesa nasce proprio da questa obbedienza di Cristo al Padre, dal silenzio di quel “sì” che trova eco e continuità nel silenzio di Betlemme, nel silenzio adorante dei poveri di spirito, obbedienza segnata, come ogni obbedienza, dal sangue. È qui, nell’ascolto del Padre e nella decisone di fare sempre la Sua volontà, che si apre la vita pubblica di Gesù. 
Betlemme   
La Chiesa nasce a Betlemme. “La nascita di Cristo segna l’inizio del popolo cristiano: il Natale del Capo è natale del Corpo”.
È utile e confortante ricordare e contemplare la nascita del corpo di Cristo a Betlemme: appena Gesù nasce subito trova accanto a sé Giuseppe e Maria, poco dopo i pastori, poi la gente semplice accorsa a guardare e poi, nel tempio, Simeone e Anna. È il popolo dei poveri, dei semplici che Gesù raccoglierà nella prima delle sue beatitudini.
La Chiesa nasce sempre nel silenzio, nel nascondimento. Eppure fin dall’inizio è circondata di luce, allietata dai canti degli angeli. Luce e canto non cancellano il silenzio e la pace, ma li esaltano creando un clima di adorazione.
Nello stesso tempo la vita della Chiesa è subito segnata dal sangue, perché non c’è amore senza sofferenza e questa sarà una costante della sua storia. Ogni secolo avrà il suo numero, più o meno grande, di testimoni che doneranno la vita per affermare davanti a tutto il mondo che Gesù è veramente il Salvatore, il Redentore, l’Autore della vita veramente vita che non finisce mai. Seguendo Lui siamo sicuri che nulla di essenziale ci potrà essere rubato. La tua grazia vale più della vita (Sal 62, 4). Cosa sarebbe infatti l’esistenza, privata della sua dolce presenza? “Niente è più dolce e soave di Gesù, il Figlio di Dio”, dice san Bernardo in un suo canto.
La tradizione orientale espressa nelle icone vede nelle assi di legno di cui si compone la culla, già le braccia della croce. Otto giorni dopo la nascita, la circoncisione avviene come prima offerta di sangue. Segno di contraddizione (Lc 2, 34) lo chiama Simeone quaranta giorni dopo il Natale. E anche a te una spada trafiggerà l’anima (Lc 2, 35). Maria è associata all’offerta del Figlio. Non si può entrare nella Chiesa dalla porta del battesimo, senza essere associati alla Sua passione. Una Chiesa che volesse sfuggire al martirio, che scappasse spaventata, che cercasse la pace e la sicurezza mondana, non sarebbe la Chiesa assimilata a Cristo. Sono venuto a portare il fuoco… a portare la spada (Lc 12, 49; Mt 10, 34).
I santi innocenti, vittime ignare chiamate a confessare Cristo prima ancora di essere capaci di parlare, prima ancora di averlo conosciuto e incontrato, prima della passione e morte di Gesù ci insegnano quanto sia vasto il fiume dei martiri, di coloro che hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell’Agnello (Ap 7, 14).
La croce
Dal silenzio di Betlemme al silenzio del Golgota. Gli apostoli sono fuggiti o se ne stanno a distanza, nascosti. Sotto la croce ci sono soltanto Giovanni, Maria e alcune donne (Gv 19, 25-26). Oltre a questo piccolo gruppo di fedeli pochi soldati romani, forse il Cireneo e alcuni fra i più accaniti avversari di Gesù che gli chiedono sprezzantemente di fare spettacolo scendendo dalla croce, se tu sei Figlio di Dio (Mt 27, 40). Pensiamo: centro della storia, unica speranza per l’umanità, prospettiva del cosmo verso cieli nuovi e terra nuova in questo gruppo di persone! Gesù dice a Maria: Donna, ecco tuo figlio, e a Giovanni: Ecco tua Madre (Gv 19, 26-27), e da quel momento Giovanni prende la Stella dell’evangelizzazione e la Madre della Chiesa con sé (Gv 19, 27), sente Maria come il bene più prezioso che il Maestro poteva affidare a Lui nella missione per tutta l’umanità e per ognuno in particolare. È il momento più solenne, l’inizio che sigilla una serie innumerevole di inizi, che abbiamo cercato di mettere in rilievo.
In Giovanni possiamo vedere il primo di una distesa interminabile di figli affidati da Gesù alla materna protezione di Maria. In Maria vediamo la Sposa affidata alle cure di Giovanni, l’apostolo che prende il posto di Gesù nel cuore della Chiesa. Perché Gesù non affida Maria a Pietro? Se lo è chiesto probabilmente la chiesa fin dalle origini. 
I passi della missione
Come si sviluppa il seme della Chiesa nei posti degli uomini, nella terra del mondo? Una delle preoccupazioni fondamentali dell’insegnamento di Gesù è stata di rispondere a questa domanda dal momento che la fede accade nell’incontro personale con Lui, ma sempre all’interno di una fraternità, di un corpo pubblico che è la Chiesa.
Le parabole del Regno (Mt 13) rappresentano il racconto di un dinamismo divinamente umano di crescita che riguarda l’intera storia della Chiesa, non solo il momento della sua nascita, del suo battesimo nella prima Pentecoste e del suo primitivo sviluppo: “La Chiesa … riceve la missione di annunciare e instaurare in tutte le genti il regno di Cristo e di Dio, e di questo regno costituisce in terra il germe e l’inizio. Intanto, mentre va lentamente crescendo, anela al regno perfetto e con tutte le sue forze spera e brama di unirsi al suo regno nella gloria” (Lumen gentium, 5). Nelle parabole del Regno troviamo segnata la storia interiore che anima la Chiesa.
Il seme che cresce 
L’immagine del seme è una delle più care a Gesù. Ricorre spesse volte nei suoi racconti (Mc 4, 2-34; Mt 13, 3-43; Lc 8, 4-21). Per un uditorio di gente legata alla terra quelle parole erano comprensibili e familiari. Come ci può essere di più commovente che rivedere ogni anno il miracolo di nuove piantine che spuntano dalla terra? Che cosa si può conoscere di più vicino all’opera di Dio? ma non basta. Perché ogni piccolo frutto della terra ha bisogno di essere curato e difeso per poter crescere. In esso si incontrano la gratuità di Dio e la libertà del lavoro dell’uomo: frutto della terra e del nostro lavoro. Ancora una volta il cielo e la terra si congiungono: La verità germoglierà dalla terra e la giustizia si affaccerà dal cielo (Sal 84, 12). 
Dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come egli stesso non lo sa (Mc 4, 27). Dio è sempre un seminatore generoso e misterioso. Non ha paura che i semi cadano su un terreno non ancora pronto ad accoglierli. Ma intanto vuole cominciare ad allenare la libertà dell’uomo all’incontro con Lui. 
Le parabole, infatti, non ci parlano soltanto dell’iniziativa di Dio, ma anche della complessità della nascita dell’uomo nuovo. In noi ci sono tanti ostacoli all’accoglienza della Parola e di diversa natura. Ci sono difficoltà affettive, intellettuali, morali. Nella parabola del seminatore (Mc 4, 1-20) le troviamo elencate e analizzate. C’è chi ha paura di seguire Cristo per le possibili persecuzioni e c’è chi, attratto immediatamente dal mondo, trasforma in idoli i doni come i suoi piaceri. La parola di Dio, seminata in noi, mette sempre in luce tutte le nostre debolezze e le nostre ferite, ma nello stesso tempo inaugura un percorso verso Dio di cui non siamo mai padroni.
Il seme in noi diventa talento, possibilità (Mc 4, 8; Mt 25, 14-30). Le due parabole si incontrano. Dio ha “seminato” il nostro corpo, il nostro temperamento, le circostanze della nostra vita e in questo modo ha arricchito di doni la nostra persona. Desidera, senza costringere mai, che le sue parole portino frutto nel tempo, siano fatte fruttare. Bene, servo buono e fedele… prendi parte alla gioia del tuo Signore (Mt 25, 23).
I discorsi missionari
Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni (Mt 28, 19) è stata l’ultima parola di Gesù. Io sono con voi (Mt 28, 20) sacramentalmente con voi in ogni momento, ma occorre che voi ne siate sempre consapevoli della mia presenza e che  io possa operare. Il Maestro però non si è limitato a parlare. Lui stesso ha camminato lungo le strade della Giudea e della Galilea. Portando con sé i discepoli e li ha poi mandati avanti a sé per educarli alla missione, istruendoli con una serie di indicazioni raccolte dagli evangelisti in veri e propri cataloghi di istruzioni per il cammino: Matteo 10 e Luca 10.
Può la Chiesa vivere il proprio itinerario nella storia senza ritornare continuamente ad ascoltare questa parole del suo Signore? Tante volte ho letto e riletto quelle pagine durante i miei sedici cambiamenti nei 57 anni di sacerdozio. Innanzitutto ne ho tratto sempre un messaggio di rispetto della libertà da parte di Dio: avendoci creati liberi per operare storicamente ha bisogno della nostra preghiera! Colui che è chiamato da Gesù non può e non deve confidare che in Lui. Non può appoggiarsi sull’oro, sull’argento, sul denaro per il potere che garantiscono, non ha bisogno di vesti eleganti o di grandi calzature, tutto nel missionario, parola e gesti, deve parlare del Maestro e solo di Lui. Non deve anteporre le persone a Lui pur esperimentando amicizie intense che rimandano a Lui: Gesù non vuole certamente cancellare il valore meraviglioso degli affetti. Chi segue Gesù, chi punta ad assimilarsi a Lui, non è mai diminuito come uomo, anzi, la sua capacità di amare è esaltata, diventa come una corda tesa, pronta sempre a vibrare. Nello stesso tempo Cristo ha voluto che i rapporti affettivi non divenissero mai un tranello, l’inizio di una sudditanza che limita la libertà. per questo raccomanda agli apostoli di non passare di casa in casa (Lc 10, 7), ma neppure di soffermarsi eccessivamente in un luogo. Deve essere la missione la testimonianza a Lui, a determinare nelle scelte la gerarchia di ciò che è necessario e di ciò che non lo è.
San Francesco deve avere meditato a lungo questi due capitoli dei vangeli. Tutta la sua vita ne è stata una ripresentazione viva ed efficace, come forse non si è più ripetuto, con la stessa intensità, durante tutta la storia della Chiesa.
È in questa prospettiva proprio nella luce di una maggiore libertà per il servizio del popolo di Dio, che va vista la convenienza della libera scelta del celibato per il sacerdozio ordinato che la chiesa latina è andata precisando di secolo in secolo fino ai nostri giorni.
I poteri che Gesù conferisce agli apostoli in missione vanno letti alla luce di tutto il vangelo e anche dell’Antico Testamento. Poteri di guarigione del corpo e dello spirito, e soprattutto liberazione dalle insidie, dalle ossessioni, dalle vessazioni, dalle possessione del demonio.
La Chiesa di ogni tempo sa che deve affrontare molti pericoli che la insidiano da fuori e da dentro: scorpioni e serpenti che cercano di colpirla a morte (Ez 2, 6; Lc 10, 19). Occorre allora che i cuori siano guariti, guariti dalle ferite causate dalla superbia, dall’invidia, dalla gelosia che portano alla rivalità e perfino all’omicidio. Guarendo i cuori, soprattutto con la certezza del perdono, talvolta anche la fisicità e la psichicità dei corpi ne restano guariti (Jung). Ma questo è eccezionale: Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima (Mt 10, 28), anima psichica e spirituale.
Predicare e guarire, sono questi i compiti della Chiesa in missione. Mentre il primo invito di Gesù ha avuto una permanente attenzione nei secoli, il secondo non è stato altrettanto ascoltato se non da alcuni, tra cui gli esorcisti. Attraverso quali strade la Chiesa deve guarire gli uomini? e guarire da che cosa? Certo la medicina ha fatto e può fare molto, ma senza la preghiera Dio non può intervenire e anche l’impegno professionale non è sufficiente: medico e sacerdote, medicina e preghiera.
Predicare e guarire: è essenziale nella vita della Chiesa tenere sempre uniti questi due movimenti, fino a farli diventare uno solo. La parola infatti è efficace (Eb 4, 12). Già il profeta Isaia aveva riportato le espressioni di Dio ricche di speranza: “Le mie parole sono come la pioggia e la neve. Esse non rimangono sulla superficie del terreno. Penetrano e fanno germogliare il seme in profondità” (Is 55, 10-11). Allo stesso modo la nostra parola deve mirare a guarire i cuori, ma può farlo soltanto se è un’eco una risonanza di quella di Dio. Quest’ultima poi per essere efficace sulle nostre labbra deve prima penetrare nel cuore e nella mente evitando ogni pretesa per essere dono, cioè grazia. La Parola guarisce attraverso le azioni con cui Gesù raggiunge la nostra vita e la risana. I tuoi peccati sono perdonati (Lc 7, 48). Prendete e mangiate (Mt 26, 26). Risanare i cuori è opera soltanto divina. Noi uomini non ne siamo capaci. E anche a livello sociale è un’opera decisiva per i rapporti. Attraverso la guarigione il cuore di pietra torna a diventare di carne. Dio crea la serenità e la pace nelle persone e di conseguenza anche tra i popoli.
Immense sono le forze che si ribellano e non vogliono che gli uomini siano guariti. E fino al momento terminale della storia le forze di Satana, il grande oppositore della guarigione e di tutti coloro che costituiscono la sua corte, i grandi fabbricanti di morte. Quando il vescovo mi ha proposto il mandato di esorcista ho faticato ad accoglierlo. Dopo quindici anni del suo esercizio devo ringraziarlo, perché sono stati gli anni in cui, anche con la preghiera pubblica di guarigione, di liberazione, di consolazione, mi ha fatto constatare la presenza viva del Risorto e la sua continua attualità nella Chiesa per tutti e per tutto.
Vi mando come pecore in mezzo ai lupi. La frase ricorre sia in Matteo che in Luca (Mt 10,16; Lc 10,3). Non può essere perciò trascurata. Non deve  suscitare paura, ma consapevolezza della propria  umana fragilità e limitatezza. Soltanto così la Chiesa può veramente essere se stessa: confidando in Dio. Non è un invito a non usare fideisticamente dei mezzi umani, ma non a poggiare su nessuno di essi trasformandoli in idoli la propria speranza: Voi valete più di molti passeri. Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati (Mt 10, 31.30).
Vi mando come pecore: non è un lamento sulle cattive condizioni di vita cui il rischio di persecuzioni obbligheranno i cristiani, ma un invito a essere come lui, l’Agnello di Dio che si appoggia soltanto al Padre. L’inermità, allora, non è una condizione,  questo tempo è poi nel di più meraviglioso nell’eterno. 
I discorsi missionari di Gesù dunque non dimenticano le persecuzioni. Esse saranno una costante nella storia della Chiesa. Le parole del maestro sono serenamente piene di dolore e di pace: “Non potete evitare la strada che ho percorso anch’io. Non preoccupatevi. Lo Spirito vi assisterà e vi suggerirà le parole da dire e gli atteggiamenti da assumere” (Mt 10, 19-20). La testimonianza Gesù, attuale con Lui vivo nella Chiesa per tutti e per tutto, pagata con il proprio sangue diventa il cuore incandescente della vicenda ecclesiale.
Il cuore della Chiesa
I vangeli sinottici parlano dell’istituzione dell’eucarestia all’interno del racconto della Passione, con cui risorto e asceso al cielo rende sacramentalmente attuale in ogni momento e luogo tutto il suo vissuto temporale soprattutto la passione, collocandola il giovedì santo, durante il banchetto con cui Gesù si congeda dai suoi apostoli. L’evangelista Giovanni, che ha un senso vivo delle parole e dei gesti di Gesù come preannunzio e compimento, anticipa l’annuncio di questo dono all’inizio del ministero pubblico, in un discorso tenuto dal maestro nella sinagoga di Cafarnao, dopo la moltiplicazione dei pani (Gv 6).
In quella occasione il suo linguaggio fu giudicato “duro”, incomprensibile dai presenti, non solo dal cerchio più esterno dei suoi seguaci (in molti proprio in quell’occasione lo abbandonarono), ma anche dagli stessi apostoli, tanto che Gesù avvertì il loro disorientamento e rivolta: Volete andarvene anche voi? (Gv 6,67) fu la sua domanda. Essa voleva sollecitare un passo in avanti della loro libertà e della loro consapevolezza, elementi sempre necessari per una accettazione di amore.
Il pane dal cielo: l’eucarestia
La Chiesa, che è essenzialmente relazione, nasce continuamente nel dialogo tra il Padre è il Figlio nello Spirito Santo. In tale rapporto continuo è nata la disponibilità obbediente del Figlio a prendere carne mortale per portare su di sé i peccati del mondo e permettere agli uomini e alla creazione intera di avere nuovamente accesso al Padre come figli nel Figlio e cieli nuovi e terra nuova. In tale dialogo è nata l’eucarestia, la decisione di restare nel tempo e nello spazio degli uomini sotto le specie di pane da mangiare e vino da bere.
Tutto questo è raccontato nel capitolo 6 del vangelo di Giovanni. Gesù era in Galilea, nella zona del lago a lui così cara. Una grande folla lo seguiva (cinquemila uomini, quante donne? Quanti bambini e ragazzi)). Come altre volte, ha compassione di tutta quella gente, del loro accorrere a lui, assetati delle sue parole, della sua presenza, della sua capacità di guarire. Ma questa volta vuole aprire la strada nei cuori dei presenti a un dono ancora più grande. Per questo compie il miracolo. Dopo la moltiplicazione dei pani, si rifugia da solo in preghiera, sottraendosi alla folla che comprensibilmente voleva proclamarlo re per poter godere sempre del cibo a buon mercato. In realtà il miracolo ha annebbiato e non aiutato la loro ricerca, la loro fame e sete di verità. Gesù si allontana da loro. Raggiunge l’altra riva del lago camminando sulle acque. Vuole preparare il cuore e l’intelligenza dei suoi alle parole ardue che sta per pronunciare. A Cafarnao la folla lo raggiunge. E’ l’inizio di un allontanamento tra Gesù e coloro che erano stati fino ad allora i suoi seguaci: mentre essi chiedevano cosa dovevano fare, Gesù voleva mostrare cosa lui era disposto a fare per loro. Li invita a cercare non un pane che perisce, ma un cibo che rimane per sempre e che lui stesso darà. “Credetemi, credete alle mie parole. Non avete visto ciò che ho compiuto?” (Gv 6,29). “Il vero pane sono io. Venite a me, seguitemi. Io sono per voi, mandato dal Padre, per farvi vivere la mia stessa sorte di morte e risurrezione” (Gv 6,37-40).
Comincia a questo punto la mormorazione di quanti lo hanno seguito e poi acclamato: “A noi serve il pane della terra, non serve il pane disceso dal cielo che costui dice di essere. Serve il pane che ci dà, non quello che egli è” (Gv 6,41-42; 6,66). Il re di poco prima diventa improvvisamente uno di loro, il figlio di Giuseppe. Non accettano di mettere in discussione ciò che pensano di aver capito. “Bisogna imparare di nuovo, comprendere da capo, aprirsi alla novità di Dio”, dice Gesù (Gv 6.45). Occorre entrare nel grande percorso che dal Padre conduce a Gesù e da Gesù al Padre, nel dialogo  tra Padre e Figlio. Ma per questo, bisogna rinascere di nuovo (Gv 3,3).
Gesù non arretra, ripropone sé come il pane della vita , la vera manna che dona l’immortalità: “Questo pane è la mia carne” (Gv 6,51-53).
Certo, nessuno, con le energie della propria mente, avrebbe potuto capire le parole di Gesù. Ma, di fronte ai segni compiuti, avrebbero potuto dire, come farà Pietro: “Non capiamo niente, ma una sola cosa capiamo: che lontano da te siamo perduti. Solo nelle tue parole possiamo trovare luce per la vita. Quello che non capiamo ora lo comprenderemo più avanti” (Gv 6,67; 13,1-20).
Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui (Gv  6,56). Colui che mangia di me vivrà per me (Gv 6.57b). Proprio queste parole di Gesù riportate da Giovanni ci rimandano ai capitoli del suo vangelo in cui sono raccolti i discorsi e gli eventi del giovedì santo (Gv 12-15). In particolare quel verbo rimanere, che ricorrerà dieci volte in sette versetti (Gv 15,4-10), ci svela il cuore del mistero eucaristico: Gesù vuole abitare in noi e che noi abitiamo in lui. Non è semplicemente un’unione di sentimenti o di spiriti, ma un’unione corporea con il suo corpo risorto cioè trasfigurato: attraverso la sua carne e il suo sangue trasfigurati con la risurrezione siamo resi sempre più figli in lui Figlio cioè parte viva del suo corpo che è la Chiesa.
La comunione, l’eterno nel tempo dell’uomo
Gli Atti degli apostoli sono la continuazione del vangelo di Luca, la continuazione sacramentale dell’incarnazione nella Chiesa. Identico l’autore ispirato e la prospettiva. Abbiamo in questo modo un testimone d’eccezione di come era percepita, fin dall’inizio, la comunione tra Cristo e la sua Chiesa, il corpo di Lui risorto.
Gli Atti ci parlano, sono il Vangelo della Chiesa che nasce. Iniziano con l’Ascensione di Gesù con il suo corpo trasfigurato dalla risurrezione alla destra del Padre fuori del tempo e dello spazio che in continuità si fa presente, parlante e operante sacramentalmente nel tempo e nello spazio attraverso la Chiesa e si concludono prima del martirio di Paolo: quarant’anni di tempo della vita della Chiesa, dal 30 circa al 67, o poco meno. Non solo Luca, ma anche gli altri sinottici risalgono allo stesso periodo di scrittura tra il 65 e l’80. Mi colpisce sempre (e sempre di più andando avanti negli anni) quanto sia stato breve il tempo intercorso tra gli avvenimenti della vita di Gesù e il loro racconto, come se premesse lasciare assolutamente qualcosa di scritto ispirato: le sue parole, le sue azioni, lette e liturgicamente, ecclesialmente pregate attraverso la comunità fraterna delle origini.
Come erano visti dall’esterno i primi cristiani? Come uomini e donne uguali, liberi, fratelli che si riunivano, che avevano momenti in comune e perfino beni in comune. Chi li osservava vedeva che il centro della loro esperienza era la koinonia. Questa parola, koinonia, comunione, indica il rapporto che si realizza tra persone uguali attraverso  il possesso di uno o più beni comuni. Un possesso che può generare stretta comunanza di vita. Mentre nella lingua greca koinonia poteva indicare anche un’unione con gli dei mediante cibo e bevanda, l’Antico Testamento evita completamente di usare quella parola, per salvare la trascendenza di Dio. Gli scrittori dell’Antica Alleanza usano la parola comunione soltanto parlando di un tempo futuro, quando Dio preparerà per noi una cena meravigliosa, un banchetto di grasse vivande a cui accorreranno tutti i popoli. Davanti a me tu prepari una mensa sotto gli occhi dei nemici (Sal 22,5; Is 25,6).
Si instaura così un rapporto singolare tra mondo greco, ebraico e cristiano. Il banchetto di comunione è già preannunziato nel paganesimo antico ed è chiarito, con nomi diversi, nella letteratura biblica, per affermarsi infine nella realtà della vita e dei racconti di Gesù che rimandano al banchetto della Gerusalemme celeste, liturgicamente e fraternamente anticipata.
Sia in san Paolo che in san Giovanni comunione   designa una partecipazione dell’uomo a Cristo, Uno dei Tre, e a tutti i beni che lui ha portato e porta nel mondo e di conseguenza una comunione fraterna dei fedeli tra di loro. Noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane (1 Cor 10,17). La comunione è la vita della Trinità nel tempo, come la Chiesa è la visibilità della Trinità nel tempo, come la Chiesa è la visibilità della Trinità nelle ore e nelle vicende dell’uomo.
La parola comunione parla della vita di Dio prima del tempo, della creazione dell’universo e dell’uomo, quando ogni essere sgorga come cosa buona dalle mani creatrici di Dio ed è espressione della sua bellezza cioè del suo amore. Parla dell’Incarnazione del Verbo, di Dio che assume un volto umano, venuto per togliere il muro di separazione che divide uomini e popoli, della vita di Gesù che è venuto per amarci sino alla fine cioè distendendosi sulla croce affinché tutti siano uno, per rendere presente in tutti i luoghi e tempi eucaristicamente lui crocefisso e risorto, il pane spezzato da Gesù che è il suo corpo diviso che ci rende parte della sua persona Umano – divina. Comunione infine parla del frutto che nasce da una semina così copiosa di doni: il corpo di Cristo nella storia cioè la Chiesa nel tempo.
Quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi, voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è con il Padre e col Figlio suo Gesù Cristo (1 Gv 1.3). Non ci sono nel Nuovo Testamento parole come queste (paragonabili soltanto al prologo del vangelo dello stesso apostolo Giovanni) che tocchino in modo folgorante il cuore del cristianesimo: la visibilità dell’invisibile. Ciò che per natura è invisibile diviene oggetto  di sguardo, di udito, di tatto. La comunicazione trinitaria diventa energia che mette in relazione gli uomini tra loro e genera sempre nuovi rapporti sociali di uguaglianza, di libertà, di fraternità, di solidarietà, di comunione.
La vita di Gesù con gli apostoli ci prepara a quanto viene raccontato negli Atti della Chiesa. Quando leggiamo i capitoli 2 e 4 di questo libro del Nuovo Testamento, non ci troviamo di fronte a un idillio, a una comunità inconsapevole, ma auna reale esperienza di persone bruciate dal fuoco di Gesù. Non tutti vivevano così (e le pagine degli Atti degli apostoli ce lo raccontano, cfr. At 5,1-11), ma un nuovo modo di vivere nel mondo era entrato nella storia, un ideale concreto a cui avrebbero guardato miliardi di persone nei duemila anni successivi, nell’intento di rivivere in forme diverse quell’inizio evangelico.
Gli Atti vogliono soprattutto indicare i pilastri della vita della Chiesa, le esperienze che dovranno caratterizzare la sua realtà nei differenti contesti della storia. In essi troviamo le sintesi fotografiche della vita della comunità, simili e differenti nello stesso tempo, troviamo una comunità allo stato nascente, composta ancora di poche persone. Perciò possono vivere insieme, mettere in comune le loro cose. Tutto ciò era l’esito di una forte comunione, creata da Gesù e dalla immersione nella sua vita. Partecipavano a una scuola di dottrina, all’eucarestia, a momenti di preghiera (At 2,42-47), provvedevano al bisogno dei meno abbienti tra loro, vendendo se necessario le loro sostanze. La preghiera avveniva ancora nel tempio, con la lettura della Scrittura. L’eucarestia, invece, si celebrava nelle case, dopo il pasto in comune. Siamo veramente nei primi tempi dopo la risurrezione, dopo l’ascensione di Gesù. Paolo nella prima lettera ai Corinzi (1 Cor 11,17-34), registra già una situazione successiva, con la dissociazione dello spezzare del pane dalla cena in comune, a causa dei dissidi tra ricchi e poveri.
I cristiani avevano timore verso Dio (At 2,43), godevano del favore del popolo (non era ancora scoppiata la lotta contro i fedeli di Gesù da parte dei Giudei) e aumentavano di numero ogni giorno (At 2,46) anche in ragione dei prodigi causati dalla loro fede e carità.
Nel capitolo 4 degli Atti (At 4,32-35), si parla ancora del favore del popolo verso questa piccola comunità come l’ha voluta Gesù, della loro profonda comunione interiore: Avevano un cuor solo e un’anima sola, ed esteriore: Fra loro tutto era comune (At 4.32). Ma già si preannunciava la vicenda  di Anania e Saffira, cioè si profilavano all’orizzonte l’azione divisoria del Maligno, le resistenze, le critiche, il rifiuto della conversione continua.
Del Vangelo della Chiesa cosa possiamo percepire nei racconti dei primi capitoli degli Atti che la liturgia pasquale ci fa riascoltare? Troviamo una comunione che si irraggia dal centro alla periferia della persona, dal cambiamento del cuore alla condivisione dei beni nelle necessità. I fedeli non sono costretti da una forza esteriore, ma aderiscono liberamente a una grazia che li riempie di timore e di gioia, di un desiderio profondo di vivere insieme, di pregare insieme, di lavorare insieme. Essi sanno che tutto trae origine dalla preghiera, dall’ascolto della Parola che è la Persona viva del Risorto che sacramentalmente ci parla, ci raggiunge, opera, soprattutto nell’eucarestia e quindi nella carità. Ben consapevoli che il Demonio, colui che divide, Satana, colui che spinge all’odio, il Serpente antico, colui che oscura la coscienza, il Dragone, colui che spinge a distruggere la creazione, è sempre in agguato provocando tra loro discussioni e dissensi.
La comunione nella Chiesa e quindi nel mondo non è un patrimonio che si può ereditare come la scienza, la tecnica, l’economia ma l’avvenimento dell’incontro con Cristo che ogni persona che viene all’esistenza, battezzata può fare. Si tratta dell’ingresso personale con Cristo per cui non sono più io che vivo ma siamo trasformati in Lui, viviamo fraternamente in Lui e di Lui nel suo corpo che è la Chiesa. E’ una storia che avviene per ogni battezzato diventando “uno in Cristo” (Gal 3,28). Diventando sempre più  consapevoli si diventa un unico soggetto cambia l’esistenza. Il mio proprio io mi viene tolto e viene inserito in un nuovo soggetto più grande, nel quale il mio io c’è di nuovo, ma trasformato, purificato, “aperto” mediante l’inserimento nell’altro, nel quale acquista il suo nuovo spazio di esistenza a cominciare dalla Chiesa domestica della famiglia, della parrocchia, della comunità concreta in cui si vive e si agisce con la propria vocazione. Per rinascita battesimale avviene, nella consapevolezza, un unico soggetto nuovo, e il nostro io viene liberato dal suo isolamento, dalla sua solitudine. “Io, ma non più io”: è questa la formula dell’esistenza cristiana nella Chiesa fondata sul Battesimo alimentata dalla Messa almeno domenicale e dalla frequente Confessione, la formula della “novità” cristiana di amore chiamata a trasformare il mondo. Questa la nostra gioia pasquale in tutte le tribolazioni. La nostra vocazione e il nostro compito di cristiani consistono nel cooperare perché giunga a compimento effettivo, nella realtà quotidiana della nostra vita, ciò che lo Spirito Santo ha intrapreso in noi col Battesimo innestandoci nel corpo di Cristo nella Chiesa: siamo chiamati infatti a divenire donne e uomini nuovi, per poter essere veri testimoni del Risorto e in tal modo portatori della gioia e della speranza nel mondo, in concreto, in quella comunità ecclesiale di uomini entro la quale viviamo.

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