Il Battesimo di Gesù

Fedeli-Presbiteri Fedeli-Consacrati Fedeli-Laici nel carisma di San Giovanni Calabria, della Christi-Fideles laici alla luce del Battesimo di Gesù e nostro

Attingendo dal Gesù di Nazareth di Joseph Ratzinger Benedetto XVI (pp.30-45)
Luca non colloca l’albero genealogico di Gesù all’inizio del Vangelo, ma lo collega alla narrazione del battesimo quale sua conclusione. Ci dice che a quel tempo Gesù aveva circa
trent’anni, aveva già raggiunto l’età che lo autorizzava a un’attività pubblica. Nel suo albero genealogico Luca – al contrario di Matteo – parte da Gesù e percorre la storia a ritroso. Ad Abramo e Davide non viene data particolare rilevanza: l’albero genealogico va indietro fino ad Adamo, anzi fino alla creazione, poiché dopo il nome di Adamo Luca aggiunge: figlio di Dio. In questo modo mette in risalto la missione universale di Gesù: Egli è figlio di Adamo – figlio dell’uomo. Attraverso il suo essere uomo noi tutti apparteniamo a Lui, Lui a noi nella destinazione battesimale di figli nel Figlio in una paternità universale di fraternità; in Lui l’umanità conosce un nuovo inizio e giunge al suo compimento.
Torniamo al racconto del battesimo. Luca aveva già fornito due importanti dati temporali nei racconti dell’infanzia. Circa l’inizio della vita del Battista ci dice che esso si deve datare “al tempo di Erode, re della Giudea” (1,5). Mentre il dato temporale concernente il Battista resta così all’interno della storia ebraica, il racconto dell’infanzia di Gesù comincia con le parole “In quei giorni un decreto di Cesare Augusto….”(2,1). Sullo sfondo, cioè,  appare la grande storia universale, rappresentata allora dall’impero romano.
Luca riprende questo filo introducendo il racconto del battesimo, l’inizio dell’attività pubblica di Gesù,  momento necessario  per divenire apostolo. Con solennità e precisione ci dice: “Nell’anno  decimoquinto dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell’Iturea e della Traconitide, e Lisani
a tetrarca dell’Abilène, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa …” (3,1). Ancora una volta, con la citazione dell’imperatore romano e delle autorità ebraiche, viene indicata la collocazione temporale di Gesù all’interno della storia universale: l’attività di Gesù non è da considerare inserita in un mitico-o-poi, che può significare insieme sempre o mai; è un avvenimento storico precisamente databile con tutta la serietà della storia umana realmente accaduta – con la sua unicità, la cui contemporaneità con tutti i tempi è diversa dalla atemporalità del mito.
Non si tratta, tuttavia, solo di datazione: l’imperatore e Gesù personificano due diversi ordini della realtà, che non devono necessariamente escludersi a vicenda, ma che nel loro confronto recano in sé la miccia di un conflitto che riguarda le questioni fondamentali dell’umanità e dell’esistenza umana. “Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio” (Mc 12,17), dirà  Gesù più tardi esprimendo così l’essenziale compatibilità delle due sfere ma non l’identità. Ma se l’impero interpreta se stesso come divino, il Tutto a livello pubblico, come è già implicito nell’autopresentazione di Augusto come portatore della pace mondiale e salvatore dell’umanità, allora il cristiano deve “obbedire a Dio piuttosto che agli uomini”, testimone di Cristo, che è morto Egli stesso sotto Ponzio Pilato come “il testimone fedele” (Ap 1,5). Con la citazione del nome di Ponzio Pilato, già dall’inizio l’attività pubblica di Gesù è collocata sotto l’ombra della croce, poiché se la politica viene idolatrata come il tutto a livello pubblico, non c’è più spazio per il vero divino cui anche la politica, nella sua distinzione e autonomia, dovrebbe tendere. La croce  già si annuncia anche nei nomi di Erode, Anna, Caifa.
Ma si può scorgere ancora qualcos’altro dall’accostamento di imperatore e principi, tra i quali è divisa la Terra Santa. Tutti questi principati dipendono dalla Roma pagana. Il regno di Davide è crollato, la sua “casa” è caduta (Am 9,11s); il discendente Giuseppe, che secondo la Legge è il padre di Gesù, è un artigiano della provincia della Galilea, abitata da una popolazione prevalentemente pagana. Ancora una volta Israele vive nell’oscurità di Dio, le promesse fatte ad Abramo e a Davide sembrano sprofondate nel silenzio di Dio, pur sempre con il futuro dalla loro parte. Ancora una volta vale il lamento: non abbiamo più profeti, sembra che Dio abbia abbandonato il suo popolo. Ma proprio per questo il Paese è in pieno fermento.
Movimenti, speranze e aspettative contrastanti determinavano il clima politico e religioso. Più o meno al tempo della nascita di Gesù, Giuda il Galileo aveva incitato a una rivolta, soffocata nel sangue dai romani. Il suo partito, gli zeloti, continuava ad esistere, pronto al terrore e alla violenza per ripristinare la libertà di Israele; possibile che uno o due dei dodici Apostoli di Gesù – Simone lo zelota e forse anche Giuda Iscariota – provenissero da quella corrente. I farisei, che incontriamo di continuo nei Vangeli, cercavano di vivere esternamente seguendo con estrema precisione i dettami della Torah e di evitare l’adattamento alla cultura unitaria ellenistico-romana, che andava imponendosi quasi da sé nei territori dell’impero romano e ora minacciava di appiattire Israele sullo stile di vita dei popoli pagani del resto del mondo. I sadducei, che appartenevano in gran parte all’aristocrazia e alla classe sacerdotale, cercavano di vivere il giudaismo illuminato, consono allo standar culturale del tempo, e quindi trovare un compromesso anche con il potere romano. I sadducei sono scomparsi dopo la distruzione di Gerusalemme (70 d.C.), mentre lo stile di vita dei farisei ha trovato forma durevole nel giudaismo plasmato dalla Mishanah e dal Talmud. Se nei Vangeli osserviamo aspri contrasti tra Gesù che ha portato a compimento la Legge con l’esigenza interiore dell’amore e i farisei, e se la morte in croce fu l’esatto contrario del programma degli zeloti, non  possiamo tuttavia dimenticare che trovarono la via a Cristo uomini di ogni corrente e che la prima comunità cristiana comprendeva non pochi sacerdoti ed ex farisei.
Una casuale scoperta, negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale, ha avviato a Qumran degli scavi e portato alla luce dei testi che da alcuni studiosi vengono collegati con un movimento più ampio, gli esseni, conosciuto precedentemente solo in base a fonti letterarie. Era un gruppo che si era staccato dal tempio erodiano e dal suo culto e aveva dato vita nel deserto della Giudea a comunità monastiche, ma anche a una convivenza di famiglie fondate sulla religione, e aveva costituito un ricco patrimonio di scritti e di rituali propri, in particolare anche con abluzioni liturgiche e preghiere comunitarie. Ci colpisce la devota serietà di questi scritti: sembra che Giovanni il Battista, ma forse anche Gesù e la sua famiglia, fossero vicini a questa comunità. In ogni caso i manoscritti di Qumran presentano molteplici punti di contatto con l’annuncio   cristiano. Non è da escludere che Giovanni il Battista abbia vissuto per qualche tempo in questa comunità e abbia in parte ricevuto da essa la sua formazione religiosa.
Tuttavia, l’entrata in scena del Battista portava con sé qualcosa di veramente nuovo. Il battesimo a cui egli invita si distingue dalle solite abluzioni religiose. Non è ripetibile e deve essere attuazione concreta di una svolta che determina in modo nuovo e per sempre la vita intera nel pensare e nell’agire cioè la conversione. E’ legato ad un ardente invito a un nuovo modo di pensare e di agire, è legato soprattutto all’annunzio del giudizio di Dio e all’annuncio del più Grande che verrà dopo Giovanni. Il quarto Vangelo ci dice che il Battista “non conosceva” questo più grande a cui voleva preparare la via (Gv 1,30-33). Ma sa di essere inviato per preparare la via al  Misterioso Altro, sa che la sua intera missione è orientata verso di Lui.
In tutti e quattro i Vangeli questa sua missione è descritta con un passo di Isaia: “Una voce che grida: “Nel deserto preparate la via al Signore, appianate nella steppa la strada per il nostro Dio” (Is 40,3). Marco aggiunge un ulteriore passo risultante dalla fusione tra Malachia 3,1 e Esodo 23,20 che, in un altro contesto, incontriamo anche in Matteo (11,10) e in Luca 1,76; 7,27): “Ecco, io mando il mio messaggero avanti a te, egli ti preparerà la strada” (Mv 1,2). Tutti questi testi dell’Antico Testamento che rivivremo liturgicamente il Sabato Santo per rivivere il nostro battesimo,  parlano dell’intervento salvifico di Dio, che esce dalla sua imperscrutabilità per giudicare e salvare; a Lui bisogna continuamente aprire la porta, preparare la strada. Con la predicazione del Battista queste antiche parole di speranza erano diventate realtà: si annunciava qualcosa di grande e noi il sabato santo le riviviamo preparati da tutta la quaresima.
Possiamo immaginare la straordinaria impressione che dovettero destare la figura e l’annuncio del Battista nell’atmosfera accesa di quel momento della storia di Gerusalemme. Finalmente c’era di nuovo un profeta cioè uno nella cui parola e nella cui vita non risuona la propria parola ma Dio che parla e agisce nella sua vita per tutti coloro che lo accolgono. Finalmente si annuncia l’agire definitivo di Dio nella storia. Giovanni battezza con l’acqua, ma il più Grande, Colui che battezzerà con lo Spirito santo e con il fuoco, è già alle porte. Così non dobbiamo affatto considerare un’esagerazione le parole di san Marco: “Accorreva a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati” (1,5). Del battesimo di Giovanni fa parte la confessione come per rivivere il sabato santo il nostro battesimo di acqua occorre il battesimo di lacrime, la confessione nel cammino quaresimale: il riconoscimento dei peccati nella certezza del perdono di Dio. Il giudaismo del tempo conosceva confessioni di carattere più convenzionale, esterno e generico, ma anche l’ammissione personale dei peccati, in cui dovevano essere elencate le singole azioni peccaminose alla luce dei comandamenti. Si tratta davvero di superare l’esistenza peccaminosa condotta fino a quel momento, di iniziare una vita nuova, mutata, tentando e ritentando con fiducia e speranza di superare il peccato. Lo svolgimento ne è il simbolo. Da un lato l’immergersi nell’acqua c’è il simbolo della morte, dietro il quale sta quello del diluvio che annienta e distrugge. L’oceano nel pensiero degli antichi appariva come la costante minaccia del cosmo, della terra: le acque originarie che possono seppellire ogni vita. Nell’immersione il fiume poteva assumere in sé soprattutto il simbolo di vita. I grandi fiumi – Nilo, Eufrate, Tigri – sono i grandi dispensatori di vita. Anche il Giordano è fonte di vita per la sua terra, lo è ancora oggi. Vi è in gioco la purificazione, la liberazione dal sudiciume del passato, che pesa sulla vita del presente e la altera e che solo Dio può liberare ricreando; si tratta di un nuovo inizio, e cioè di morte risurrezione, di ricominciare la vita da capo e in modo nuovo come per noi il sabato santo preparati da tutta la quaresima. Si potrebbe dire che si tratta di rinascita. Tutto ciò verrà espressamente sviluppato solo nella teologia battesimale cristiana, ma già incoattivamente presente nella discesa nel Giordano e nella risalita dalle sue acque di Gesù.
 Abbiamo appena udito che tutta la Giudea e Gerusalemme accorrevano a farsi battezzare. Ma adesso sopraggiunge qualcosa di nuovo: “In quei giorni Gesù venne da Nazareth di Galilea e fu battezzato da Giovanni” (Mc 1,9). Di pellegrini provenienti dalla Galilea semi-pagana  non si era ancora parlato; tutto sembrava limitato al territorio della Giudea totalmente ebraico. Ma il fatto veramente nuovo non è che Gesù venga da un’altra area geografica, da lontano per così dire. Il fatto veramente nuovo è che Egli – Gesù – vuole farsi battezzare, che entra nella grigia moltitudine dei peccatori in attesa sulla riva del Giordano. Del battesimo faceva parte la confessione dei peccati (l’abbiamo appena udito). Esso stesso era una confessione delle proprie colpe e il tentativo di deporre una vecchia vita mal spesa per riceverne una nuova. Gesù poteva farlo? Come poteva confessare dei peccati? Come staccarsi da una vita precedente per una nuova? La disputa tra il Battista e Gesù, di cui ci parla Matteo, dava voce anche a una loro domanda a Gesù: “Io ho bisogno di essere battezzato da te tu vieni da me?” (Mt 3,14). Matteo ci racconta: “Ma Gesù gli disse: “Lascia fare per ora, poiché conviene che così adempiamo ogni giustizia”. Allora Giovanni acconsentì” (Mt 3,15).
Il senso di questa risposta non è facile da decifrare. In ogni caso nella parola per ora c’è una certa riserva: in una determinata situazione provvisoria vale un determinato modo di agire. Per interpretare la risposta di Gesù è decisivo il significato che si attribuisce alla parola “giustizia”: si deve adempiere ogni “giustizia”. Nel mondo in cui vive Gesù, “giustizia” è la risposta dell’uomo alla Torah, l’accettazione della piena volontà divina, è prendere su di sé “il giogo del regno di Dio”, secondo la formulazione giudaica. Il battesimo di Giovanni non è previsto dalla Torah, ma con la sua risposta Gesù lo riconosce come espressione del sì incondizionato alla volontà di Dio, come obbediente assunzione del suo giogo.
Poiché nella discesa in questo battesimo sono contenute una confessione di colpa e una richiesta di perdono per un nuovo inizio, vi è in questo sì alla piena volontà di Dio in un mondo segnato dal peccato anche un’espressione di solidarietà con gli uomini, che si sono resi colpevoli, ma tendono verso la giustizia cioè a divenir giusti davanti a Dio con il perdono. Solo a partire dalla croce e dalla risurrezione l’intero significato di questo avvenimento è divenuto chiaro. Scendendo nell’acqua, i battezzandi riconoscono i propri peccati e cercano di liberarsi dal peso di essere sottomessi alla colpa. Che cosa ha fatto Gesù? Luca, che in tutto il suo Vangelo presta una viva attenzione alla preghiera di Gesù, e lo presenta come Colui che prega - in dialogo con il Padre -, ci dice che Gesù ha ricevuto il battesimo stando in preghiera (3,21). Avendoci creati liberi, Dio, Padre Figlio Spirito Santo, non possono agire storicamente senza la nostra preghiera. A partire dalla lunghezza, dall’altezza, dalla profondità dell’amore nella croce e nella risurrezione, divenne chiaro per i cristiani che cosa sia accaduto allora per tutti gli uomini: Gesù si era preso sulle spalle il peso della colpa dell’intera umanità; lo portò con sé nel Giordano. Dà inizio alla sua attività pubblica prendendo il posto dei peccatori. Lo inizia con l’anticipazione della croce che rivivremo il venerdì santo in preparazione della veglia. Egli è, per così dire, il vero Giona che aveva detto ai marinai: prendetemi e gettatemi in mare (Gio 1,12). Il significato pieno del battesimo di Gesù, il suo portare “ogni giustizia” si rivela solo nella croce: il suo battesimo è l’accettazione della morte per i peccati dell’umanità, per i miei peccati e la voce del cielo “Questi è il Figlio mio, l’Amato” (Mc 3,17) è il rimando anticipato alla risurrezione, all’ascensione, al suo continuo farsi presente e operante sacramentalmente nella Chiesa fin dal nostro battesimo. Così si comprende il motivo per cui nei discorsi propri di Gesù la parola “battesimo” designa la sua morte (Mc 10,38; Lc 12,50).
Solo da qui si può capire il battesimo cristiano. L’anticipazione della morte sulla croce, che era avvenuta nel battesimo di Gesù, e l’anticipazione della risurrezione, anticipata dalla voce dal cielo, ora sono diventate realtà. Così il battesimo con acqua di Giovanni riceve pienezza di significato dal battesimo di vita e di morte di Gesù. Accettare l’invito al battesimo significa ora portarsi al luogo del battesimo di Gesù e così nella sua identificazione con noi ricevere la nostra identificazione con Lui divenendo altri Cristi, fedeli-cristiani per tutti. Il punto della sua anticipazione della morte è ora diventato per noi il punto della nostra anticipazione della risurrezione insieme con Lui. Nella sua teologia del battesimo (Rm 6), Paolo ha sviluppato questa relazione intrinseca senza parlare espressamente del battesimo di Gesù al Giordano.
Nella sua liturgia e teologia dell’icona la Chiesa orientale ha ulteriormente spiegato e approfondito questa interpretazione del battesimo di Gesù. Essa vede un legame profondo tra il contenuto della festa dell’Epifania (proclamazione della filiazione divina per mezzo della voce dal cielo: per l’Oriente l’Epifania è la festa del  natale e del battesimo) e la Pasqua. Nella parola di Gesù a Giovanni –“poiché conviene che così adempiamo ogni giustizia” (Mt 3,15) – essa vede l’anticipazione della parola pronunciata nel Getzemani: “Padre (…) non come voglio io, ma come vuoi tu!” (Mt 26,39); i canti liturgici del 3 gennaio corrispondono a quelli del Mercoledì santo, quelli del 4 gennaio al Giovedì santo, quelli del 5 gennaio a quelli del Venerdì e del Sabato Santo.
L’iconografia riprende queste corrispondenze. L’icona del battesimo di Gesù riproduce l’acqua come un sepolcro liquido, dalla forma di cavità oscura, che a sua volta è l’immagine iconografica dell’Ade, gli inferi l’inferno. La discesa di Gesù in questo sepolcro liquido, in questo inferno, che lo contiene tutto, è anticipazione della discesa agli inferi; “Essendo sceso nelle acque, legò il Forte” (Lc 11,22) cioè Satana, dice Cirillo di Gerusalemme. Giovanni Crisostomo scrive: “L’immersione e l’emersione sono immagine della discesa agli inferi e della risurrezione”. I tropari della liturgia bizantina aggiungono ancora un ulteriore riferimento simbolico: “Il Giordano un tempo ritornò indietro a causa del mantello di Eliseo, e le acque si divisero lasciando un passaggio asciutto, vera immagine del battesimo, mediante il quale noi attraversiamo il corso della vita”.
Il battesimo di Gesù viene così inteso come compendio di tutta la storia, in esso viene ripreso il passato e anticipato il futuro. L’ingresso nei peccati degli altri è discesa all’”inferno” – non solo, come in Dante, da spettatore, ma con-patendo e, con una sofferenza trasformatrice, convertendo gli inferi, travolgendo il dominio di Satana e aprendo le porte dell’abisso. E’ disceso nella casa del male, lotta con il Forte, il Maligno che tiene prigioniero l’uomo (e quanto è vero che tutti noi siamo tenuti prigionieri delle potenze senza nome, che ci manipolano!). Questo Forte, invincibile con le sole forze della storia universale, viene sopraffatto e legato dal più Forte che, essendo della stessa natura di Dio, può prendere su di sé tutta la colpa del mondo e la esaurisce soffrendola fino in fondo – nulla tralasciando nella discesa nell’identità di coloro che sono caduti. Questa lotta è la “svolta” dell’essere, che produce una nuova qualità dell’essere, prepara un nuovo cielo e una nuova terra. Il sacramento – il Battesimo – appare quindi come dono di partecipazione alla lotta di trasformazione del mondo intrapresa da Gesù nella svolta della vita che è avvenuta nella sua discesa e risalita.
Con questa interpretazione e assimilazione ecclesiale dell’avvenimento del battesimo di Gesù ci siamo allontanati troppo – si chiede Benedetto XVI - dalla Bibbia? In questo contesto conviene ascoltare il quarto Vangelo, secondo il quale Giovanni Battista, nel rivedere Gesù il giorno dopo, pronunciò le seguenti parole: “Ecco (il pastore) agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo!” (Gv 1,29). Ci si è arrovellati molto su queste parole che nel rito romano vengono pronunciate prima della distribuzione dell’Eucaristia. Che cosa significa “agnello di Dio”? Perché Gesù buon Pastore viene chiamato “agnello” e perché questo “agnello” porta via i peccati del mpondo, li vince fino a togliere loro sostanza e realtà? … Sono riconoscibili due allusioni veterotestamentarie. Il canto del servo di Dio in Isaia 53,7, paragona il servo sofferente a un agnello che viene condotto al macello: “Come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, (egli) non aprì la sua bocca”. Ancora più importante è il fatto che Gesù fu crocefisso durante una festa di Pasqua ebraica e dovette dunque sembrare proprio il vero agnello pasquale, in cui si compiva quello che era stato il significato dell’agnello pasquale nell’uscita dall’Egitto: liberazione dalla mortale tirannia egizia e via libera all’esodo come celebreremo nella liturgia della veglia, al cammino verso la libertà della promessa. A partire dalla Pasqua la simbologia dell’agnello è divenuta fondamentale per la comprensione di Cristo. La troviamo in Paolo (1 Cor 5,7), in Giovanni (19,36), nella Prima Lettera di Pietro (1,19) e nell’Apocalisse (5,6).
(…) Le parole del Battista possono aver indicato anzitutto il servo di Dio, che con le sue penitenze vicarie “porta” i peccati del mondo; ma nello stesso tempo esse lo facevano riconoscere come il vero agnello pasquale, che espiando cancella i peccati del mondo. “Paziente come un agnello offerto in sacrificio, il Salvatore è andato a morte per gli altri sulla croce; con la forza espiatrice della sua morte innocente ha cancellato la colpa di tutta l’umanità”. Se nell’angustia dell’oppressione egizia il sangue dell’agnello pasquale era divenuto decisivo per la liberazione di Israele, Egli, il Figlio che è divenuto servo – il pastore che è diventato agnello – si fa garante non più soltanto per Israele, ma per la liberazione del “mondo”, per l’intera umanità.
Con ciò ho toccato il tema dell’universalità della missione di Gesù in rapporto alla paternità di Dio, così accentuata nel carisma di san Giovanni Calabria. Israele non esiste solo per se stesso: la sua elezione è la via attraverso la quale Dio vuole arrivare a tutti con la sua provvidenza che vede e provvede con una onnipotenza più grande delle necessità. Incontreremo ripetutamente il tema dell’universalità quale centro autentico della missione di Gesù. Con la frase dell’agnello di Dio che porta i peccati del mondo, nel quarto Vangelo tale tema è presente subito all’inizio del cammino di Gesù.
L’espressione “agnello di Dio” interpreta – se così possiamo dire – la teologia della croce del battesimo di Gesù, della sua discesa nelle profondità della morte. Tutti e quattro i Vangeli riferiscono, anche se in maniera diversa, che nel momento in cui Gesù salì dall’acqua “il cielo si squarciò” (Mc), “si aprirono i cieli” (Mt e Lc), lo Spirito discese su di Lui: “come una colomba”, mentre dal cielo risuonava una voce: essa, secondo Marco e Luca si rivolge a Gesù: “Tu sei …”; secondo Matteo, invece, dice di Lui: “Questi è il Figlio mio l’Amato, nel quale mi sono compiaciuto” (Mt 3,18). L’immagine della colomba può ricordare l’aleggiare dello Spirito sulle acque, del quale parla il racconto della creazione (Gn 1,2); attraverso la piccola parola “come” (come una colomba) essa funge da “immagine di ciò che in sostanza non è descrivibile”: lo Spirito Santo, l’Amore. Quanto alla “voce”, la incontreremo di nuovo in occasione della trasfigurazione di Gesù che rivivremo in quaresima, dove però è aggiunto l’imperativo: “Ascoltatelo!”, cioè congiungete all’udire nella preghiera, l’ubbidire per amore nella vita.
Vi sono tre aspetti:
- Anzitutto vi è l’immagine del cielo squarciato: sopra Gesù il cielo è aperto. La sua comunione con il Padre, l’”intera giustizia” che adempio  rende giusti, apre il cielo, che per natura è il luogo in cui si adempie la volontà di Dio
- A ciò si aggiunge poi la proclamazione da parte di Dio, il Padre l’Amante, della missione di Cristo, l’Amato, che però non annuncia un fare, ma il suo essere: Egli è il Figlio l’Amato, su cui sta il beneplacito di Dio.
- Infine qui insieme con il Figlio, l’Amato, incontriamo il Padre, l’Amante e lo Spirito Santo, l’Amore: si preannuncia dell’unico essere divino il mistero di Dio Trinità, che naturalmente può svelare se stesso nella sua profondità soprannaturale solo nel corso dell’intero cammino di Gesù. 

In questo senso, tuttavia, si delinea un arco che unisce quest’inizio del cammino di Gesù alle parole con le quali il Risorto invierà i suoi discepoli nel “mondo” Inaugurando  una nuova dimensione della vita e della realtà, dalla quale emerge un mondo nuovo purificato in una creatura nuova che penetra nel nostro mondo, lo trasforma e lo attira sé: “Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo” (Mt 28,19). Il Battesimo che i discepoli di Gesù amministrano da quel momento in poi è l’ingresso nel battesimo di Gesù, l’ingresso nella realtà che Egli con esso ha anticipato. Così si diventa cristiani, figli nel Figlio, altri Cristi, fedeli, mandati, come apostoli, come consacrati, come laici  per render consapevoli tutti del Dio con noi, per noi per risanare e rendere creature nuove.
I testi evangelici sul battesimo di Gesù ci permettono di guardare nell’intimo di Gesù. Egli è al di sopra delle nostre psicologie (Romano Guardini). Ci fanno sapere in che rapporto sta Gesù con “Mosè e i Profeti”. Ci fanno conoscere l’intima unità del suo cammino dal primo momento della sua vita fino alla croce, alla risurrezione, all’ascensione con il suo continuo darsi sacramentale nella Chiesa per tutti e per tutto. Gesù non appare come un uomo geniale con le sue emozioni, insuccessi e successi – in tal modo, come individuo di un’epoca storica passata. Egli sta di fronte a ciascuno di noi come “il Figlio, l’Amato”, che se da una parte è il totalmente Altro, Donatore divino di ogni essere dono cioè la verità che libera dalla schiavitù dell’ignoranza da dove veniamo e verso dove siamo destinati, proprio per questo può anche diventare contemporaneo di tutti noi, per ognuno di noi più intimo di quanto ciascuno lo sia a se stesso (Sant’Agostino, III, 6, 11).

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