Il giudizio come luogo di esercizio della speranza continuità tra Benedetto VI e Papa Francesco

Il Giudizio  come luogo di apprendimento ed esercizio della speranza: continuità catechistica di Papa Francesco con l’enciclica Spe salvi di Benedetto XVI

Mi ha sempre impressionato l’attenzione di Benedetto XVI nel proporre come “luoghi” di apprendimento e di esercizio della speranza affidabile non solo la preghiera come scuola di speranza, l’agire e il soffrire come luoghi di apprendimento della speranza, ma il Giudizio come luogo di apprendimento e di esercizio della speranza:Nel grande Credo della Chiesa
la parte centrale, che tratta del mistero di Cristo a partire dalla nascita eterna dal Padre e dalla nascita temporale dalla Vergine Maria per giungere attraverso la croce e la risurrezione fino al suo ritorno, si conclude con le parole: “…di nuovo verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti”. La prospettiva del Giudizio, già dai primissimi tempi, ha influenzato i cristiani fin nella loro vita quotidiana come criterio  secondo cui ordinare la vita presente, come richiamo alla loro coscienza e, al contempo, come speranza nella giustizia di Dio. La fede in Cristo non ha mai guardato solo indietro né mai solo verso l’alto, ma sempre anche in avanti verso l’ora della giustizia che il Signore aveva ripetutamente preannunciato. Questo sguardo in avanti ha conferito al cristianesimo la sua importanza per il presente. Nella conformazione degli edifici sacri cristiani, che volevano rendere visibile la vastità storica e cosmica della fede in Cristo, diventò abituale rappresentare sul lato orientale il Signore che ritorna come re – l’immagine della speranza -, sul lato occidentale, invece il giudizio finale come immagine della responsabilità per la nostra vita, una raffigurazione che guardava e accompagnava i fedeli nel loro cammino verso la quotidianità”Questo richiamo alla verità e quindi alla responsabilità per il proprio e altrui essere dono del Donatore divino, come di tutto il mondo circostante, era vissuto nella gioia di luogo di apprendimento e di esercizio di quella speranza affidabile, in virtù della quale possiamo affrontare il presente: il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto ed accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino. Nell’accentuazione moralistica, in certi periodi storici, è subentrato il terrore del Giudizio per ravvivare l’impegno morale e quindi, osserva Benedetto XVI, “Nello sviluppo dell’iconografia, però, è poi stato dato sempre più risalto all’aspetto minaccioso e lugubre del Giudizio, che ovviamente affascinava gli artisti più dello splendore della speranza, che spesso veniva eccessivamente nascosto sotto la minaccia”. Anche il Giudizio di Michelangelo ha questo stile e quindi questo limite. E la Catechesi di Papa Francesco di mercoledì 11 dicembre, senza nulla togliere al Giudizio finale lo stimolo per la responsabilità morale, richiama l’elemento di luogo di apprendimento e di esercizio della speranza nella vita. “Nell’epoca moderna – ancora Benedetto XVI - il pensiero del Giudizio sbiadisce: la fede cristiana viene individualizzata ed è orientata soprattutto verso la salvezza personale dell’anima; la riflessione sulla storia universale, invece , è in gran parte dominata dal pensiero, dalla speranza del progresso storico. Il contenuto fondamentale dell’attesa del Giudizio, tuttavia, non è semplicemente scomparso. Ora però assume una forma totalmente diversa. L’ateismo del XIX e del XX secolo è, secondo le sue radici e la sua finalità, un moralismo: una protesta contro le ingiustizie del mondo e della storia universale. Un mondo, nel quale esiste una tale misura di ingiustizia, di sofferenza degli innocenti e di cinismo del potere, non può essere l’opera di un Dio buono. Il Dio che avesse la responsabilità di un simile mondo, non sarebbe un Dio giusto e ancora meno un Dio buono. E’ in nome della morale che bisogna contestare questo Dio. Poiché non c’è un Dio che crea giustizia, sembra che l’uomo stesso ora sia chiamato a stabilire giustizia. Se di fronte alla sofferenza di questo mondo la protesta contro Dio è comprensibile, la pretesa che l’umanità possa e debba fare ciò che nessun Dio fa né è in grado di fare, è presuntuosa ed intrinsecamente non vera. Che da tale premessa siano conseguite le più grandi crudeltà e violazioni della giustizia non è un caso, ma è fondato nella falsità intrinseca di questa pretesa. Un mondo che si deve creare da sé la sua giustizia è un mondo senza speranza. Nessuno e niente risponde per la sofferenza dei secoli. Nessuno e niente garantisce che il cinismo del potere – sotto qualunque accattivante riferimento ideologico si presenti – non continui a spadroneggiare nel mondo. Così  in grandi pensatori della scuola di Francoforte, Max Horkheimer eTheordor W. Adorno, hanno criticato in ugual modo l’ateismo come il teismo. Hotkheimer ha radicalmente escluso che possa essere trovato un qualsiasi surrogato immanente per Dio, rifiutando allo stesso tempo però anche l’immagine del Dio buono e giusto. In una radicalizzazione estrema del divieto veterotestamentario delle immagini, egli parla della “nostalgia del totalmente Altro” che rimane inaccessibile – un grido del desiderio rivolto alla storia universale. Anche Adorno ha affermato che giustizia, una vera giustizia, richiederebbe un mondo “in cui non solo la sofferenza presente fosse annullata, ma anche revocato ciò che è irrevocabilmente passato”. Questo, però, significherebbe – espresso in simboli positivi e quindi per lui inadeguati – che giustizia non può esservi senza risurrezione dei morti. Una tale prospettiva, tuttavia, comporterebbe “la risurrezione della carne, una cosa che all’idealismo, al regno dello spirito assoluto, è totalmente estranea” ma presente nella “nostra professione di fede, trattando l’affermazione “Credo la vita eterna”. Questa la catechesi di Papa Francesco.
“In particolare mi soffermo sul giudizio finale. Ma non dobbiamo avere paura: sentiamo quello che dice la Parola di Dio. Al riguardo, leggiamo nel Vangelo di Matteo: Allora Cristo “verrà nella sua gloria, con tutti i suoi angeli…E saranno riunite davanti a Lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra…E se ne andranno, questi al supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna” (Mt 25,31-33.46). Quando pensiamo al ritorno di Cristo e al suo giudizio finale, che manifesterà, fino alle sue ultime conseguenze, il bene che ognuno avrà compiuto o avrà omesso di compiere durante la sua vita terrena, percepiamo di trovarci di fronte a un mistero che ci sovrasta, che non riusciamo nemmeno ad immaginare. Un mistero che quasi istintivamente suscita in noi un senso di timore, e magari anche di trepidazione. Se però riflettiamo bene su questa realtà, essa non può che allargare il cuore di un cristiano e costituire un grande motivo di consolazione e di fiducia.
A questo proposito, la testimonianza delle prime comunità cristiane risuona quanto mai suggestiva. Esse infatti erano solite accompagnare le celebrazioni e le preghiere con l’acclamazione Maranathàun’espressione  costituita da due parole aramaiche che, a seconda di come vengono scandite, si possono intendere come una supplica: “Vieni, Signore!”, oppure come una certezza alimentata dalla fede: “Sì, il Signore viene, il Signore è vicino”. E’ l’esclamazione in cui culmina la Rivelazione cristiana, al termine della meravigliosa contemplazione che ci viene offerta  nell’Apocalisse di Giovanni (Ap 22,20). In quel caso, è la Chiesa – sposa che, a nome dell’umanità intera e in quanto sua primizia, si rivolge a Cristo, suo sposo, non vedendo l’ora di essere avvolta dal suo abbraccio: l’abbraccio di Gesù, che è pienezza di vita e di amore. Così ci abbraccia Gesù. Se pensiamo al giudizio in questa prospettiva, ogni paura e titubanza viene meno e lascia spazio all’attesa e a una profonda gioia: sarà proprio il momento in cui verremo giudicati finalmente pronti per essere rivestiti della gloria di Cristo, come di una veste nuziale, ed essere condotti al banchetto, immagine della piena e definitiva comunione con Dio.
Un secondo motivo di fiducia viene offerto dalla constatazione del giudizio, non saremo lasciati soli. E’ Gesù stesso, nel Vangelo di Matteo, a preannunciare come, alla fine dei tempi, coloro che lo avranno seguito prenderanno posto nella sua gloria, per giudicare insieme a Lui (Mt 19,28). L’apostolo Paolo poi, scrivendo alla comunità di Corinto, afferma: “Non sapete che i santi giudicheranno il mondoQuanto più le cose di questa vita!” (1 Cor 6,2-3). Che bello sapere che in quel frangente, oltre che su Cristo, nostro Paràclito, nostro Avvocato presso il Padre (1 Gv 2,1), potremo contare sull’intercessione e sulla benevolenza di tanti nostri fratelli e sorelle più grandi che ci hanno preceduto nel cammino della fede, che hanno offerto la loro vita per noi e che continuano ad amarci in modo indicibile! I santi già vivono al cospetto di Dio, nello splendore della sua gloria pregando per noi che ancora viviamo sulla terra. Questa consolazione suscita nel nostro cuore questa certezza! La Chiesa è davvero una madre e, come una mamma, cerca il bene dei suoi figli, soprattutto quelli più lontani e afflitti, finché troverà la sua pienezza nel corpo glorioso di Cristo con tutte le sue membra.
Un’ulteriore suggestione ci viene offerta dal Vangelo di Giovanni, dove si afferma esplicitamente che “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di LuiChi crede in Lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nell’unigenito Figlio di Dio” (g 3,17-18). Questo significa allora che quel giudizio finale è già in atto, incomincia adesso nel corso della nostra esistenza. Tale giudizio è pronunciato in ogni istante della vita, come riscontro della nostra accoglienza con fede della salvezza presente e operante in Cristo, oppure della nostra incredulità, con la conseguente chiusura in noi stessi. Ma se noi ci chiudiamo all’amore di Gesù, siamo noi stessi che ci condanniamo. La salvezza è aprirsi a Gesù, e Lui ci salva; se siamo peccatori – e lo siamo tutti – Gli chiediamo perdono e se andiamo a Lui  con la voglia di essere buoni, il Signore ci perdona. Ma per questo dobbiamo aprirci all’amore di Gesù, che è più forte di tutte le altre cose. L’amore di Gesù è grande, l’amore di Gesù è misericordioso, l’amore di Gesù perdona; ma tu devi aprirti e aprirsi significa pentirsi, accusarsi delle cose che non sono buone e che abbiamo fatto. Il Signore Gesù si è donato e continua a donarsi a noi, per ricolmarci di tutta al misericordia e la grazia del Padre. Siamo noi quindi che possiamo diventare in un certo senso giudici di noi stessi,  autocondannandoci all’esclusione della comunione con Dio e con i fratelli. Non stanchiamoci, pertanto, di vigilare sui nostri pensieri e sui nostri atteggiamenti, per pregustare fin da ora il valore e lo splendore del volto di Dio – e ciò sarà bellissimo –che nella vita eterna contempleremo in tutta la sua pienezza. Avanti, pensando a questo giudizio che comincia adesso, è già cominciato. Avanti, facendo in modo che il nostro cuore si apra a Gesù e alla sua salvezza; avanti senza paura, perché l’amore di Gesù è più grande e se noi chiediamo perdono dei nostri peccati Lui ci perdona. E’ così Gesù. Avanti allora con questa certezza, che ci porterà alla gloria del cielo” (Papa Francesco, Udienza Generale, 11 dicembre 2013).

E’ veramente una Catechesi che fa dell’attesa, propria di questi 16 giorni di Avvento, del Giudizio finale un luogo di apprendimento e di esercizio della speranza. Così Benedetto XVI al n. 43 della Spe salvi: “ Dio stesso si è dato un’”immagine”: nel Cristo che si è fatto uomo. In Lui, il crocefisso, la negazione di immagini sbagliate di Dio è portata all’estremo. Ora Dio rivela il suo Volto proprio nella figura del sofferente che condivide la condizione dell’uomo abbandonato da Dio, prendendola su di sé. Questo sofferente innocente è diventato speranza – certezza: Dio c’è, e Dio sa creare la giustizia in un modo che noi non siamo capaci di concepire e che, tuttavia, nella fede possiamo intuire. Sì, esiste la risurrezione della carne. Esiste una giustizia. Esiste la “revoca” della sofferenza passata, la riparazione che ristabilisce il diritto. Per questo la fede nel Giudizio finale è innanzitutto e soprattutto speranza – quella speranza, la cui necessità si è resa evidente proprio negli sconvolgimenti degli ultimi secoli. Io sono convinto che la questione della giustizia costituisce l’argomento più forte, in  favore della fede nella vita eterna. Il bisogno soltanto individuale di un appagamento che in questa vita ci è negato, dell’immortalità dell’amore che attendiamo, è certamente un motivo importante per credere che l’uomo sia fatto per l’eternità; ma solo in collegamento con l’impossibilità che l’ingiustizia della storia sia l’ultima parola, diviene pienamente convincente la necessità del ritorno di Cristo e della nuova vita”.

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