È l'amore che apre gli occhi


Dobbiamo lanciare messaggi positivi: vivere noi per primi in pienezza e farci testimoni e costruttori di un nuovo modo di essere uomini e donne. Ma questo non succederà se perseveriamo nello scetticismo: bisogna convincersi che le cose non solo “si possono” cambiare ma che la rivoluzione di cui ci facciamo portatori è una imprescindibile necessità

“Professare un credo e sostenere una determinata concezione dell’essere umano può sembrare un atteggiamento non particolarmente allettante in quest’epoca di relativismo e crollo delle certezze: quanto meno sicurezze abbiamo, tanto più corriamo il rischio di lasciarci convincere che l’unico appiglio solido e sicuro sia ciò che ci propongono
gli slogan del consumo e dell’immagine. La soluzione peggiore consiste nel trincerarsi nel nostro piccolo mondo emettendo giudizi amari sulle condizioni in cui versa la società. Non ci è permesso trasformarci in “scettici” a priori (il che equivale ad avere non un proprio pensiero critico, bensì la sua versione ottusa) e complimentarci con noi stessi per la nostra chiarezza dottrinale e la nostra incorruttibile difesa della verità, che alla fine conduce solo alla nostra soddisfazione personale. Dobbiamo invece lanciare messaggi positivi: vivere noi per primi in pienezza e farci testimoni e costruttori di un nuovo modo di essere uomini e donne. Ma questo non succederà se perseveriamo nello scetticismo: bisogna convincersi che le cose non solo“si possono “  cambiare, ma che la rivoluzione di cui ci facciamo portatori è una imprescindibile necessità.
La figura biblica di Giona può esserci di ispirazione in questi tempi di cambiamento e incertezza. In un certo senso il suo atteggiamento rispecchia quello degli educatori, molti dei quali hanno alle spalle una lunga e ricca esperienza fatta di tecniche e metodi collaudati. Gionaconduceva una vita serena e tranquilla, aveva le idee chiare sulla religione, sull’antagonismo tra bene e male, sull’azione di Dio e su cosa Egli si aspettava da lui, su coloro che erano fedeli all’alleanza e su quanti non lo erano. Questo atteggiamento di chiusura lo spinse a concepire in modo troppo rigido i luoghi in cui doveva compiere la sua missione profetica. Giona aveva le conoscenze e tutte le carte in regola per essere un bravo profeta e continuare la tradizione secondo al logica del “come era sempre stato fatto”.
All’improvviso, però, Dio sconvolse il suo ordine irrompendo nella sua vita come un torrente in piena, privandolo di ogni sicurezza e comodità: lo inviò a Ninive, “la grande città”, simbolo di tutti i reietti ed emarginati, per proclamare la sua Parola. Così facendo Dio lo invitava a sporgersi oltre i suoi limiti, ad andare verso la periferia, affidandogli la missione di ricordare a tutti gli uomini smarriti che le braccia di Dio erano aperte e che Lui avrebbe offerto loro il suo perdono e la sua tenerezza. Ma la sua richiesta andava oltre le capacità di comprensione di Giona, che decise di abbandonare la missione scappando nella direzione contraria a quella indicatagli da Dio, alla volta di Trasis, in Spagna.
Le fughe non sono mai positive, perché la fretta ci  impedisce di vedere con chiarezza gli ostacoli. Quando Giona si imbarcò per Tarsis, la nave sulla quale viaggiava fu sorpresa da una tempesta e, dopo aver confessato ai marinai di essere lui la causa dell’ora divina, questi lo gettarono in mare. Mentre si trovava in acqua un grosso pesce lo inghiottì. Giona che era sempre stato una persona tranquilla e pacata, non aveva tenuto conto che il Dio dell’alleanza non viene mai meno ai suoi giuramenti ed è terribilmente insistente quando è in gioco il bene dei suoi figli. Per questo, quando la nostra pazienza si esaurisce, Lui si pone in attesa, facendo risuonare senza sosta la sua tenera parola di Padre.
Proprio come Giona, anche noi possiamo ascoltare la chiamata incessante che ripete l’invito a vivere l’avventura di Ninivead assumerci il rischio di essere i protagonisti di una nuova educazione, frutto dell’incontro con Dio. Esso è sempre una novità e ci sprona a rinunciare alle abitudini, a metterci in marcia verso le periferie e le frontiere, là dove si trova l’umanità più ferita e dove i giovani, dietro la loro apparenza di superficialità e conformismo, non si stancano mai di cercare una risposta alle proprie domande sul senso della vita. Aiutando i nostri fratelli a trovarla, anche noi comprenderemo, in modo rinnovato, la ragione delle nostre preghiere e il valore della nostra dedizione” (Card. Bergoglio, parte del “Messaggio alle comunità educative” del 2007, dal Corriere della Sera di lunedì 21 ottobre 2013, p. 30).

Con il Corriere della Sera di lunedì 21 ottobre è uscito il libro E’ l’amore che apre gli occhi, unaantologia del Card. Francesco prima di Papa Francesco. E’ una antologia di quattrocento pagine  di omelie, discorsi, messaggi e lettere pastorali utili per chi lo interpreta come “relativista”: “Professare un credo e sostenere una determinata concezione dell’essere umano può sembrare un atteggiamento non particolarmente allettante in quest’epoca di relativismo e crollo delle certezze: quanto meno sicurezze abbiamo, tanto più corriamo il rischio di lasciarci convincere che l’unico appiglio solido e sicuro sia ciò che ci propongono gli slogan e dell’immagine”. Qui è chiara la necessità del vedere, del logos per amare. Ma “la soluzione peggiore consiste nel trincerarsi nel nostro piccolo mondo emettendo giudizi amari sulle condizioni in cui versa la società. Non ci è permesso di trasformarci in “scettici” a priori (il che equivale ad avere non un pensiero critico, bensì la sua versione ottusa) e complimentarci con noi stessi per la nostra chiarezza dottrinale e la nostra indistruttibile difesa della verità, che alla fine conduce solo alla nostra soddisfazione personale”  divenendo ideologi del Logos, della verità senza il connubio con l’Agape, quando è l’Amore che apre gli occhi. Anche Benedetto XVI, che ha accentuato la priorità della “Verità salvifica di Gesù Cristo alla ragione del nostro tempo” ha scritto la prima Enciclica Deus charitas est e quindi Lumen fidei la luce della verità. Per evitare ideologizzazioni o della verità, del logos o dell’agape, dell’amorte occorre puntare sempre al connubio, alla sintesi, soprattutto pastoralmente pur preferendo per cogliere la presenza originale  facendola scaturirire o dalla coscienza della propria identità o dall’affezione ad essa.
E poiché il futuro non è mai totalmente prevedibile, teorizzabile, né la pura ripetizione del passato per l’azione imprevedibile dello Spirito Santo in ogni coscienza e nella Chiesa di Cristo a servizio dell’umanità il card. Bergoglio cita una frase della grande filosofa Edith Stein che entrò nel Carmelo e scelse di condividere la sorte del suo popolo ad Auschwitz: non si stancava di ripetere: “Non so che cosa Dio abbia deciso di fare attraverso me, ma non ho motivo di preoccuparmene”. Papa Francesco  esorta il pastore a “non mercanteggiare la verità” per evitare una spiritualità relativista.  E in una lettera ai catechisti: “Non può resistere agli urti del tempo una fede cattolica ridotta a un bagaglio di conoscenze, a un’elencazione di alcune norme e proibizioni, a pratiche frammentate di devozioni, a un’adesione selettiva e parziale alle verità della fede, alla partecipazione occasionale ad alcuni sacramenti, alla ripetizione di principi dottrinale, a moralismi blandi o esasperati che non trasformano la vita del battezzato. La minaccia più grande per noi è il grigio pragmatismo della vita quotidiana della Chiesa,nel quale in apparenza ogni cosa procede normalmente, ma in realtà la fede si logora e decade nella meschinità. Tocca a tutti noi ricominciare da Cristo, riconoscendo che all’inizio dell’essere cristianinon c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva”.  Oltre alla continuità con Benedetto XVI ci sono spunti per una grande verifica pastorale, per un grande cambiamento.

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