Nel Papato luce e forza dall'alto e debolezza degli uomini‏

 Nel Papato c’è luce e forza che vengono dall’alto, fondamento della Chiesa pellegrina nel tempo,
ma anche la debolezza degli uomini, che solo l’apertura libera all’azione di Dio può trasformare

“Nel Brano del Vangelo di Matteo …Pietro rende la propria testimonianza di fede a Gesù riconoscendolo come Messia e Figlio di Dio; lo fa anche a nome degli altri Apostoli. In risposta, il Signore gli rivela la missione che intende affidargli, quella  cioè di essere “pietra”, la “roccia”, il fondamento visibile su cui è costruito l’intero edificio spirituale della Chiesa (Mt 16,16-19). Ma in che modo Pietro è la roccia? Come egli deve attuare questa prerogativa, che naturalmente non ha ricevuto per se stesso? Il racconto dell’evangelista Matteo ci dice anzitutto che il riconoscimento dell’identità di
Gesù pronunciato da Simone a nome dei Dodici non proviene “dalla carne e dal sangue”, cioè dalle sue capacità umane, ma da una particolare rivelazione di Dio Padre. Invece subito dopo, quando Gesù preannuncia la sua passione, morte e risurrezione, Simon Pietro reagisce proprio a partire da “sangue e carne”: egli “si mise a rimproverare il Signore:…questo non ti accadrà mai” (16,22). E Gesù a sua volta replicò: “Va’ dietro a me, SatanaTi mi sei di scandalo…” (v. 23). Il discepolo che, per dono di Dio, può diventare solida roccia, si manifesta anche per quello che è, nella sua debolezza umana: una pietra sulla strada, una pietra su cui si può inciampare – in greco skandalon -. appare qui evidente la tensione che esiste tra il dono che proviene dal Signore e le capacità umane; E in questa scena tra Gesù e Simon Pietro vediamo in qualche modo anticipato il dramma della storia dello stesso papato, caratterizzata proprio dalla compresenza di questi due elementi: da una parte, grazie alla luce e alla forza che vengono dall’alto, il papato costituisce il fondamento della Chiesa pellegrina nel tempo; dall’altra, lungo i secoli emerge anche la debolezza degli uomini, che solo l’apertura all’azione di Dio può trasformare.

E nel Vangelo di oggi emerge con forza la chiara promessa di Gesù: “le porte degli inferi”, cioè le forze del male, non potranno avere il sopravvento, “non praevalebunt”. Viene alla mente il racconto della vocazione del profeta Geremia, al quale il Signore, affidando la missione, disse: “Ecco, oggi io faccio di te come una città fortificata, una colonna di ferro e un muro di bronzo contro tutto il paese, contro i re di Giuda e i suoi capi, contro i suoi sacerdoti e il popolo del paese.Ti faranno guerra, ma non ti vinceranno – non praevalebunt – perché io sono con te per salvarti” (Ger 1,18-19). In realtà, la promessa che Gesù fa a Pietro è ancora più grande di quelle fate agli antichi profeti: questi, infatti, erano minacciati dai nemici umani, mentre Pietro dovrà essere difeso dalle “porte degli inferi”, dal potere distruttivo del male. Geremia riceve una promessa che riguarda lui come persona e il suo ministero profetico; Pietro viene rassicurato riguardo al futuro della Chiesa, della nuova comunità fondata da Gesù Cristo e che si estende a tutti i tempi, al di là dell’esistenza personale di Pietro stesso.
Passiamo ora al simbolo delle chiavi…Esso rimanda all’oracolo del profeta Isaia sul funzionario Eliakim, del quale è detto: “Gli porrò sulla spalla la chiave della casa di Davide: se egli apre, nessuno chiuderà; se egli chiude, nessuno potrà aprire” (Is 22,22). La chiave rappresenta l’autorità sulla casa di Davide. E nel Vangelo c’è un’altra parola di Gesù rivolta agli scribi e ai farisei, ai quali il Signore rimprovera di chiudere il regno dei cieli davanti agli uomini (Mt 23,13). Anche questo detto ci aiuta a comprendere la promessa fatta a Pietro: a lui, in quanto fedele amministratore del messaggio di Cristo, spetta di aprire la porta del Regno dei Cieli, e di giudicare se accogliere o respingere (Ap 3,7). Le due immagini – quella delle chiavi e quella del legare e sciogliere – esprimono pertanto significati simili e si rafforzano a vicenda. L’espressione “legare e sciogliere” fa parte del linguaggio rabbinico e allude da un lato alle decisioni dottrinali, dall’altro al potere disciplinare, cioè alla facoltà di infliggere la scomunica. Il parallelismo “sulla terra…nei cieli” garantisce che le decisioni di Pietro nell’esercizio di questa sua funzione ecclesiale hanno valore anche davanti a Dio.
Nel capitolo 18 del Vangelo secondo Matteo, dedicato alla vita della comunità ecclesiale, troviamo un altro detto di Gesù rivolto ai discepoli: “In verità vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo” (Mt 18, 0). E san Giovanni, nel racconto dell’apparizione di Cristo risorto in mezzo agli apostoli alla sera di Pasqua, riporta questa parola del Signore: “Ricevete lo Spirito SantoA colui a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati” (v 20,22-23). Alla luce di questi parallelismi, appare chiaramente che l’autorità di sciogliere legare consiste nel potere di rimettere i peccati. E questa grazia, che toglie energia alle forze del caos e del male, è nel cuore del mistero e del ministero della Chiesa. La Chiesa non è una comunità di perfetti, ma di peccatori che si debbono riconoscere bisognosi dell’amore di Dio, bisognosi di essere purificati attraverso la Croce di Gesù Cristo. I detti di Gesù sull’autorità di Pietro e degli Apostoli lasciano trasparire proprio che il potere di Dio   è l’amore, l’amore che irradia la sua luce dal Calvario. Cos’ possiamo anche comprendere perché, nel racconto evangelico, alla confessione di fede di Pietro fa seguito immediatamente il primo annuncio della passione; in effetti, Gesù con la sua morte ha vinto le potenze degli inferi, nel suo sangue ha riversato sul mondo un fiume immenso di misericordia, che irriga con le sue acque risanatrici l’umanità intera” (Benedetto XVI, Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, 29 giugno 2012).

A cinquant’anni dall’inizio del Concilio Vaticano II dobbiamo dire che in quanto dottrina del Magistero Sommo della Chiesa, nonostante che le modalità esteriori della sua espressione non la presentino come infallibile e irreformabile, è dotata ugualmente di queste due qualifiche, per il solo fatto che essa è insegnamento deliberato del supremo magistero.
Quando si dice tutta la dottrina, non si vuol dire tutte le parole od espressioni, argomentazioni usate per annunciarla, né i singoli argomenti addotti per provarla: questo non si verifica neppure per le definizioni dogmatiche. Ma si intendono le grandi affermazioni dottrinali nella loro espressione essenziale. Rientrano in questa categoria, per esempio, le proposizioni con le quali è affermato: che con la consacrazione episcopale viene conferita la pienezza del sacramento dell’Ordine; che in tale consacrazione è conferita la grazia dello Spirito santo ed impresso il sacro carattere; che la consacrazione episcopale conferisce insieme all’ufficio di santificare, anche gli uffici di insegnare e governare: che per volontà di Cristo Pietro e gli altri Apostoli costituiscono un unico collegio apostolico e che in pari modo, il Romano Pontefice e gli altri vescovi sono uniti fra di loro; che uno diventa membro del corpo episcopale in virtù della consacrazione sacramentale mediante la comunione gerarchica con il capo e con i membri del collegio; che il collegio episcopale, il quale include sempre il Romano Pontefice come capo, è soggetto della stessa piena e suprema potestà che il capo possiede anche da solo; che questa suprema potestà collegiale può essere esercitata soltanto con il consenso del capo; che quando di fatto è esercitata, essa è capace di vincolare tutta la Chiesa; che quando in tale esercizio è data una sentenza definitiva su una dottrina riguardante la fede (per esempio la non ordinazione delle donne al ministerpo dell’ordine) e i costumi, tutto il collegio episcopale è infallibile, come è infallibile il Romano Pontefice quando parla ex cattedra. In questi casi, e altri simili, la dottrina proposta è irrevocabile e non può, quindi, avere carattere di provvisorietà. Di essa non è lecito dubitare.
Il fine pastorale del Concilio non intacca il carattere dottrinale, la fondazione teologica dei suoi documenti. Ma nel post concilio questo non è stato solo un pericolo come lo descrive il card. Giacomo Biffi: “Vi era il proposito dichiarato di mirare a un ‘concilio pastorale’. Tutti dentro e fuori l’aula vaticana, si mostravano contenti e compiaciuti di tale qualifica. Io però…sentivo nascere in me, mio malgrado, qualche difficoltà. Il concetto mi pareva ambiguo, e un po’ sospetta l’enfasi con cui la ‘ pastoralità ’, era attribuita al Concilio in atto: si voleva forse dire implicitamente che i precedenti concili non intendevano essere ‘ pastorali’ o non lo erano stati abbastanza? Non aveva avuto rilevanza pastorale il mettere in chiaro che Gesù di Nazareth era Dio consustanziale al Padre, come si era definito a Nicea (il primo dei ventunesimi concili)? Non aveva avuto rilevanza pastorale precisare il realismo della presenza eucaristica (transustanziazione) e la natura sacrificale della messa, come era avvenuto a Trento? Non aveva avuto rilevanza pastorale presentare in tutto il suo valore e in tutte le sue implicanze il primato di Pietro, come aveva insegnato il Vaticano I? Si capisce che l’intenzione dichiarata era quella di mettere a tema particolarmente i modi migliori e dei mezzi più efficaci di raggiungere il cuore dell’uomo, senza per questo sminuire la positiva considerazione per il tradizionale magistero della Chiesa. Ma c’era il pericolo di non ricordare più che la prima e insostituibile ‘misericordia’ per l’umanità smarrita è, secondo l’insegnamento chiaro della Rivelazione, la ‘misericordia della verità’; misericordia che non può essere esercitata senza la condanna esplicita, ferma, costante di ogni travisamento e di ogni alterazione del ‘deposito’ della fede, che va custodito. In questo clima qualcuno poteva addirittura finire di pensare incautamente che il riscatto dei figli di Adamo dipendesse più dalle nostre arti di lusinga e di persuasione, che non dalla strategia soteriologica preordinata dal Padre  prima di tutti i secoli, tutta incentrata nell’evento pasquale e nel suo annuncio ‘senza discorsi di sapienza umana’ (1 Cor 2,4). Nel post concilio non è stato soltanto un pericolo” (Memorie e digressioni, pp 183 – 184)Non è stato un pericolo ma una tendenza dato l’abbinamento di pastorale alla mentalità empirista, antimetafisica, anti – ontologica, antisacramentale, per cui sarebbe valido soltanto ciò che è sperimentabile e calcolabile. La nuova evangelizzazione non può non compiere questo discernimento. E più che parlare del Vaticano II come un superdogma, ma sarebbe pastoralmente più fecondo parlare dei Ventunesimi Concili.

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