Gesti liturgici

Gesti cristiani di preghiera:mani allargate o giunte, inginocchiarsi o battersi il petto

“Il più antico gesto di preghiera della cristianità è costituito dalle mani allargate, la “posizione dell’Orante”. E’ questo un gesto originario dell’uomo che invoca Dio, un gesto che si può incontrare praticamente in tutto il mondo delle religioni. E’ innanzitutto un’espressione della non violenza, un gesto di pace: l’uomo apre le sue mani e così si apre all’altro. E’ anche un gesto di ricerca e di speranza: l’uomo cerca di afferrare il Dio nascosto, si protende verso di Lui. Le mani
allargate sono state collegate anche con l’immagine delle ali: l’uomo cerca l’altezza, vuole farsi portare in alto da Dio, per così dire, sulle ali della preghiera.
Per i cristiani, tuttavia, le braccia allargate hanno al tempo stesso anche un significato cristologico: esse ci ricordano le braccia di Cristo distese sulla croce. Il Crocifisso ha dato una nuova profondità al primordiale gesto umano di preghiera. Allargando le braccia, vogliamo pregare insieme al Crocifisso, unirci ai suoi “sentimenti” (Fil 2,5) . Nelle braccia spalancate di Cristo sulla Croce i cristiani hanno visto un duplice significato:
-         esprimono anche in Lui, proprio in Lui, la forma radicale dell’adorazione, dell’unità della volontà umana con la volontà del Padre;
-          ma al tempo stesso, queste braccia sono aperte verso di noi – sono il grande abbraccio con cui Cristo vuole attirarci a sé (Gv 12,32).
Adorazione di Dio ed amore del prossimo – il contenuto del Comandamento principale in cui sono riassunti la Legge e i Profeti – coincidono in questo gesto; l’apertura a Dio, l’abbandono totale a Lui, è al contempo e inscindibilmente la dedizione al prossimo. Questo fondersi insieme delle due direzioni, che si trova nel gesto di Cristo sulla croce, indica la nuova profondità della preghiera cristiana in modo corporalmente visibile ed esprime così anche la legge interiore della nostra preghiera.
Più tardi si è sviluppato il gesto delle mani giunte, che ha origine forse dal feudalesimo: colui che riceve il feudo, nell’atto della presa in consegna mette le sue mani giunte nelle mani del feudatario – un meraviglioso gesto simbolico: io metto le mie mani nelle tue, le lascio racchiudere dalle tue. E’ un’espressione sia di fiducia che di fedeltà. Questo gesto si è mantenuto nell’Ordinazione sacerdotale. Il neo – ordinato riceve l’incarico sacerdotale come se ricevesse l’investitura di un feudo. Non è, infatti, sacerdote da se stesso, non in virtù del dono del Signore, che rimane sempre dono e non diventa mai semplicemente sua proprietà, un suo potere personale. Il sacerdote novello riceve il dono e l’incarico del sacerdozio come dono dell’Altro – da Cristo – e sa di poter e di dover essere solo “amministratore dei misteri di Dio” (1 Cor 4,1), “buon amministratore della multiforme grazia di Dio”  (1 Pt 4,10). Per diventarlo deve impegnare tutta la sua esistenza. E ciò, allora, avviene soltanto nella comune “casa di Dio” (Eb 3, 2 – 6), la Chiesa, in cui il Vescovo, al posto di Cristo, accoglie il singolo nel sacerdozio, nel rapporto di fedeltà a Cristo. Quando il candidato all’Ordinazione mette le sue mani giunte nelle mani del Vescovo gli promette e gli promette rispetto e obbedienza, egli offre il suo servizio alla Chiesa come corpo vivo di Cristo, mette le sue mani nelle mani di Cristo, si affida a Lui e gli dà le proprie mani perché siano sue. Ciò che nel feudalesimo può essere criticabile, come criticabile è ogni signoria umana, e può essere giustificato solo come rappresentanza e come fedeltà verso il vero Signore, riceve il suo autentico significato nel rapporto del credente con Cristo, il Signore. Quando noi preghiamo a mani giunte, c’è proprio questo: mettiamo le nostre mani nelle sue, ed insieme alle nostre mani mettiamo nelle sue il nostro destino; confidando nella sua fedeltà, gli promettiamo la nostra.
Può essere vero, forse, che l’inginocchiarsi sia estraneo alla cultura moderna – nella misura, cioè, in cui è una cultura che si è allontanata dalla fede e non conosce più Colui davanti al quale l’inginocchiarsi è il gesto giusto, anzi, interiormente necessario. Chi impara a credere, impara anche ad inginocchiarsi, ed una fede o una liturgia che non conoscesse più l’inginocchiarsi sarebbe malata in punto centrale. Dove questo gesto è andato perduto, dobbiamo impararlo di nuovo, per rimanere con la nostra preghiera nella comunione degli Apostoli e dei martiri, nella comunione di tutto il cosmo, nell’unità con Gesù Cristo stesso.
Dalla storia del Fariseo e del Pubblicano (Lc 18, 9 – 14) è derivato alla cristianità un ulteriore gesto: il battersi il petto. E’ il gesto con cui noi, per una volta, non additiamo l’altro come peccatore, ma noi stessi, rimane un significativo gesto di preghiera. E’ proprio questo, infatti, di cui abbiamo sempre di nuovo bisogno: individuare e riconoscere noi stessi come colpevoli, e così chiedere anche il perdono. Con il mea culpa” (“per mia colpa”) entriamo, per così dire, nel nostro stesso intimo, facciamo pulizia davanti alla nostra porta, e possiamo così a buon diritto chiedere perdono a Dio, ai santi ed a coloro che sono radunati attorno a noi, verso i quali ci siamo resi colpevoli. Nell’Agnus Dei  (“Agnello di Dio”) guardiamo a Colui che è il Pastore e che per noi si è fatto Agnello, portando come Agnello le nostre colpe; è quindi giusto anche in questo momento battersi il petto e ricordare a noi stessi, anche corporalmente, che le nostre colpe gravarono sulle sue spalle, che “per le sue piaghe noi siamo stati guariti” (Is 53,5)” (Joseph Ratzinger, Teologia della Liturgia, LEV pp. 186 – 195).

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